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Lasciare l’Unipol Arena di Bologna, alla fine dell’ultimo dei ben 7 concerti italiani di Roger Waters, è un’esperienza dolceamara. Forse questo non è un semplice arrivederci. O forse quello che abbiamo appena visto non è stato “solo un concerto”. Vi abbiamo già raccontato, più di un mese fa ormai, la seconda tappa della leg italiana, iniziata a Milano e terminata ieri sera a Bologna. Molto è stato già detto (al netto di qualche spoiler) sullo spettacolo imponente che questo signore di appena 79 anni ha messo in piedi, dell’energia e della rabbia che sul quel palco deflagrano senza lasciare scampo alcuno a chi, estasiato già dal primo minuto, non riesce a distogliere lo sguardo per le successive due ore e mezza di grandissima musica vissute insieme, come una sorta di gigantesco rito collettivo.

Non ci resta molto altro da scrivere, se non provare ad analizzare quanto abbiamo appena visto. Il disclaimer iniziale è molto chiaro: quello che stiamo per vedere sarà uno show estremamente politico. A chi non piace l’idea, può “andare a farsi fottere al bar”. Dunque se la prima tematica introdotta all’inizio è quella della denuncia sociale, la seconda verrà svelata a poco a poco. I video di scenari apocalittici ci introducono a immagini di distruzione, di desolazione. Una fotografia della realtà distopica in cui viviamo, scene che si vedono sempre più spesso nei notiziari, e al contempo un richiamo alla parte finale del concerto, a conferire una struttura ad anello narrativa. Figure senza volto vagano come zombie tra i resti di quella che un tempo era una città in cerca della loro umanità. Poi una voce irrompe: “Hello, is there anybody in there?”. La nuova versione di “Comfortably Numb” ha il compito di inebriare l’audience prima che la gigantesca croce greca fatta di led al centro del palco si sollevi e riveli i musicisti, tra lo stupore generale. Il boato che li accoglie rompe la tensione.

Le immagini si trasformano in testo e veniamo catapultati ai giorni nostri. Inizia così “Another Brick In The Wall”. Una lotta contro il potere costituito, quello dei governi definiti “malvagi”. Sono loro “Controllare la narrativa”, e a “controllare il mondo”. Come nel video degli anni ‘80 dove persone venivano infilate nel tritacarne della sistema, oggi la macchina che falcia i diritti delle persone sono i governi. “Tassiamo i ricchi, nutriamo i poveri” sono i messaggi che più ricorreranno lungo tutto il concerto. Poi l’invettiva si fa sempre più mirata verso i rappresentanti di queste istituzioni. Si comincia con Ronald Reagan e il suo assalto all’America Latina che causò un genocidio, e per questo etichettato come “criminale”. Insieme a lui anche Trump, Biden (“ha appena iniziato”) e altri. Sono gli oligarchi a scegliere il nostro destino, ad avere il potere sulle nostre vite. Questa la denuncia alla base dei brani solisti di Waters (“The Powers That Be”, “The Bravery of Being Out of Range”) a cui fanno da contraltare le immagini di violenza e morte, di guerre, di crimini. Il reato di essere se stessi, di dire quello che si pensa, di comportarsi come si crede giusto. Perché questa violenza? Per rompere la resistenza e mantenere il potere.

Segue il momento della riflessione. Quella che viene ideologicamente identificata da Waters nel luogo di aggregazione per eccellenza, il bar. Luogo di scambio di idee, di confronto alla pari, di fratellanza, di scontro talvolta, ma un luogo libero. Da qui il brano forse simbolo dell’intero set, proprio “The Bar”, che vede un Waters al pianoforte accompagnato da una band di spessore. L’arena diventa il bar. Cita con sorprendente efficacia simbolica “Ladri di Biciclette” e le immagini vanno a chi soffre, agli ultimi, a chi avrebbe bisogno di essere ascoltato e difeso: le comunità indigene, i rifugiati, i perseguitati.

E ora un pezzo che ero solito suonare in un’altra band”. Così viene introdotta “Have A Cigar” e, di conseguenza il secondo macrotema della serata, quello del ricordo. Le immagini dei Pink Floyd a Pompeii, ma anche Barret, i vestiti anni ’70, un mondo ormai sgretolato ci viene proiettato davanti agli occhi mentre il synth suona il famoso riff. La memoria va non solo verso ciò che è stato ma anche verso ciò che vorrà trasmettere di sé stesso durante il suo (forse) ultimo tour, e da qui lo stretto legame con l’impegno politico. Non ricordiamo Roger Waters solo per alcune delle più belle canzoni della storia della musica leggera, ma anche come figura rappresentante di lotta politica, di resistenza, di unione. La sua eredità musicale e ideologica non potranno mai essere separate. Il messaggio viene enunciato forte e chiaro. Sulla stessa riga il commovente omaggio a Syd Barrett in “Wish You Were Here”: il racconto di quella volta che i due, vedendo gli Stones suonare, decisero di mettere su  una band. La stessa band che molti anni dopo scriverà questo brano per ricordare il suo co-fondatore, scomparso prematuramente. Un cerchio che si stringe attorno alla figura di Waters nell’atto di non dimenticare, di resistere alla forza dell’oblio e chiede a noi di fare altrettanto. “Perdere qualcuno serve a farci capire che questa non è un’esercitazione”. Poi la riflessione sulla propria esistenza prosegue con una straziante “Shine On Your Crazy Diamond”, in cui la musica ha aiutato l’artista inglese a ritrovare la propria dimensione nel momento in cui più niente sembrava aver senso. Poi l’adrenalina di “Sheep” trasforma le pecore indifese in militari che resistono “contro il capitalismo, contro il fascismo, il militarismo, contro la guerra”.

Non basta la pausa di un quarto d’ora per rirpendersi da questo pugno allo stomaco. Si ricomincia il secondo set con “In The Flesh” che ci riporta ai tempi di “The Wall”: un Waters vestito da Pink-dittatore che spara sulla folla e la mascotte di Algie che galleggia sulle teste dei presenti a mostrare le scritte “Fuck The Poor” e “Ruba ai poveri per dare ai ricchi”. Nel frattempo sugli schermi passa il dato inquietante che le grosse aziende hanno accresciuto il loro patrimonio del 27% durante la pandemia. È questa la vita che vogliamo veramente? Ce lo domanda Roger Waters nel  singolo del suo ultimo album solista mentre ci vengono mostrati civili uccisi da raid aerei dei militari americani. Nessun responsabile ha pagato per quello che si vede in quei filmati. Tranne chi quei filmati li ha pubblicati prendendo così le parti di Julian Assange. Ma dov’è la quota di “The Dark Side Of The Moon”? Eccoci accontentati con una sequenza senza sosta di “Money”, “Us And Them” e “Brain Damage” suonate con disarmante intensità, cantate dal fide braccio destro Jonathan Wilson (eccetto l’ultima). Tutta questa bellezza accompagnata da altrettanta violenza. Una sensazione che è difficile scrollarsi di dosso, che rimane impregnata come fumo sui capelli.

C’è tempo per gli ultimi due brani in scaletta. Il primo, “Two Suns In A Sunset” – scelta particolare considerando tutto il repertorio a disposizione – mette in guardia sul pericolo nucleare al quale siamo esposti. Un pericolo troppo grande per lasciare che ci sfiori anche da lontano. L’annientamento non può mai essere una soluzione, per questo l’invito è far cambiare idea ai potenti. Curioso come sia l’unico momento in cui cita i Pink Floyd. Cita anche Giorgia Meloni: “Invitatela al bar a discutere di questo”, al fine di convertire i soldi spesi in armamenti per potenziare ospedali, scuole, strutture pubbliche. Prima di suonare il brano, legge un poema che scrisse proprio a Bologna nel 2018 a seguito dell’uccisione di un bambino palestinese di soli 14 anni. La lotta e il ricordo che corrono paralleli ancora una volta in un’esibizione in cui viene dato tutto, e la conseguenza dell’arma atomica si manifesta come un gigantesto “secondo sole”. Ecco quindi spiegata la distruzione iniziale.

Si torna al bar per l’ultima volta. Un brindisi con i compagni di squadra, che hanno messo in piedi un concerto tra i più memorabili della sua carriera solista. Ringrazia poi tre persone per quest’ultima esibizione: Bob Dylan che con la sua “Sad-eyed Girl” gli ha cambiato la vita, la moglia Camilla e il fratello maggiore morto improvvisamente lo scorso anno. Quasi impossibile per lui trattenere la commozione arrivato a questo punto. Così si tace, mette le mani sul piano e inizia a suonare il reprise di “The Bar”, terminando nell’outro “Outside The Wall”, mentre i musicisti raccolgono gli applausi di un pubblico in visibilio che sa di star salutando il suo idolo probabilmente per l’ultima volta.

Con questo This Is Not A Drill Tour, Waters si interroga sulla vita (che razza di tempo è quello in cui stiamo vivendo?) e sulla morte (quanto è fragile la nostra permanenza su questa terra?), se andare avanti o meno nella sua carriera, cosa vorrebbe lasciare oltre alla sua mastodontica discografia. Quello di Roger Waters non è un semplice concerto, è un viaggio nella storia della musica e nella storia del mondo. Una presa di posizione coraggiosa per difendere i più deboli. La messa a nudo delle proprie fragilità, una richiesta disperata di azione, un monito a non lasciare che ci controllino, perché uniti siamo più forti, mentre “separati, cadiamo”. Lasciare l’Unipol Arena non è mai stato così difficile. Un ultimo sguardo prima di vederlo andare via, quasi speranzoso. Poi però una frase continua a riecheggiare: “Questa non è un’esercitazione.”

Set 1

Comfortably Numb
The Happiest Days of Our Lives
Another Brick in the Wall, Part 2
Another Brick in the Wall, Part 3
The Powers That Be
The Bravery of Being Out of Range
The Bar
Have a Cigar
Wish You Were Here
Shine On You Crazy Diamond (Parts VI-VII, V)
Sheep

Set 2

In the Flesh
Run Like Hell
Déjà Vu
Déjà Vu (Reprise)
Is This the Life We Really Want?
Money
Us and Them
Any Colour You Like
Brain Damage
Eclipse
Two Suns in the Sunset
The Bar (Reprise)
Outside the Wall

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