NUOVE USCITERECENSIONITOP ALBUM

Slipknot – The End, So Far

Negli arcani maggiori la carta numero 13 rappresenta La Morte. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, la morte non è di per sé negativa, ma è da intendere più come una fine, un’interruzione del vecchio che lascia spazio a qualcosa che sta per nascere. Una band con oltre venticinque anni di carriera alle spalle come gli Slipknot conosce bene il concetto di cambiamento: partiti dal brutale quanto geniale esordio del self titled, passando per il rivoluzionario “Iowa”, attraversando sfumature più acustiche e melodiche in “Vol. 3: (The Subliminal Verses)” fino ad approdare all’ultimo e più sperimentale “We Are Not Your Kind”. Tutto questo mentre si modificavano line up (fra tutti i compianti Paul Grey e Joey Jordison), si creavano nuove maschere, nascevano nuove estetiche visive e il fulcro musicale si spostava dalle sezioni ritmiche alle chitarre, poi al DJing e, in tempi più recenti, ai riff di tastiere, andando di volta in volta a scuotere una fanbase tanto fedele quanto esigente, che avanzava pretese su come la band dovesse suonare, su quale fosse il loro “sound di appartenenza”, per spingerla a farvi ritorno a tutti i costi.

Adesso Corey Taylor e i suoi hanno bisogno di mettere un punto. Con “The End, So Far”, settimo titolo che si aggiunge alla discografia degli Slipknot, sembra ci sia la voglia di tirare le somme e al contempo spingersi un po’ più oltre quello che siamo già abituati a conoscere, trovando un equilibrio (quasi) perfetto tra l’introspezione dei lavori più recenti e la ferocia che li ha eretti a mostri sacri del metal contemporaneo. Non c’è nulla di rassicurante in questo nuovo capitolo della band, forse uno spartiacque in termini stilistici, che prelude certamente a un nuovo inizio. Decostruzione e costruzione sono temi costanti di tutto il lotto, a partire dall’emblematica “The Dying Song (Time to Sing)” che accosta due immagini pontentissime come le mani che attingono all’acqua, simbolo di vita, e un inverno nucleare che fa tabula rasa, con tremende bordate all’indirizzo dei potenti che gorvernano il mondo. La tempesta emozionale continua con l’indiavolata “The Chapeltown Rag”, primo singolo estratto che faceva sperare ad un ritorno alle origini in parte verificatosi, con un Corey Taylor ruggente che si scaglia contro l’ipocrisia dei tempi moderni (“everything is God online, and it’s as evil as it gets”) e vuole affrancare la band da ogni tipo di aspettativa (“all the ligatures are getting tight, like a style”) e asserire “Sono un urlo, sono la morte, sono la minaccia, sono spaventato”. E ancora la morte al centro delle tematiche del disco – “Medicine For The Dead” prelude che la morte è solo “un sintomo” di un cambiamento in corso  – mentre la pesantezza è il collante sonoro che unisce il caos metallico su di giri di “Warranty” alla rissosa “Hivemind”, scatenando urla primordiali, tumulti e altri espedienti sonori opera di Sid Wilson. La band si è evoluta così tanto da quando erano i ragazzi incazzati di Des Moines, le loro influenze e interessi si sono ampliati, ma suonano ancora unici nel loro genere.

Quella di The End, So Far è una ricerca musicale che nasce dall’arruolamento di Michael Pfaff alle percussioni dopo il licenziamento di Chris Fehn, e si stringe attorno agli storici Shawn Crahan, Corey Taylor, Craig Jones, Mick Thomson e Sid Wilson a dare coesione. Sono anche e soprattutto chitarroni di Jim Root a compiere una notevole progressione, capaci di essere magistralmente schizofrenici, acidi, acustici, eterei, spesso granitici, e non risparmiano nemmeno grandi assoli come in “Heirloom”, dove Root sembra rifarsi a un metal più tradizionale tipicamente anni ‘80 suonato a tutta velocità senza distorsioni. I vecchi fan degli Slipknot possono trovare conforto nel rapido assalto di “Hivemind” e nella devastante “H377”, una dimostrazione della grinta senza limiti della band. Addirittura in “De Sade” si strizza l’occhio agli elementi del progressive metal senza mai sofisticare troppo una formula che funziona per la sua brutale immediatezza, ma aggiungendo un’inaspettata sfumatura. “Adderall” e “Finale”, rispettivamente primo e ultimo brano della tracklist, incasellano l’album come prologo ed epilogo volutamente anticonvenzionali. Ma, mentre “Adderall” si presenta come un sogno spaziale, lugubre e stordito con tocchi di jazz, prog e ritmi costanti che introducono il tema della fine “shallow graves and deepest fears”, “Finale” rivela uno straordinario gusto per la composizione, sinfonie orchestrali, sfumature blues, corali sfarzose e angoscianti, a dimostrazione che i Nostri “psychosocial” hanno voglia di spingersi oltre quello che sanno fare meglio.

“The End, So Far” è un disco denso di significati e atmosfere, terribilmente divertente, suonato con mestiere e, indubbiamente, di qualità. A parte il sangue, lo splatter, la teatralità e il rumore, c’è sempre stato chiaramente molto di più nella capacità della band di scioccare – e ora sembra che la loro prossima svolta a sinistra potrebbe essere la più audace, perché la fine lascia sempre spazio a qualcosa di nuovo. Come avverte Taylor nella magistrale “Warranty”: “Non è per questo che siete venuti qui?

Tracklist

01. Adderall
02. The Dying Song (Time To Sing)
03. The Chapeltown Rag
04. Yen
05. Hivemind
06. Warranty
07. Medicine For The Dead
08. Acidic
09. Heirloom
10. H377
11. De Sade
12. Finale

Comments are closed.

More in:NUOVE USCITE

0 %