Articolo a cura di Claudio Albero
Dopo tre giorni di “riposo”, è tempo di inaugurare il secondo fine settimana dell’Hellfest 2022, contrassegnato dai primi accenni di maltempo che, in vari modi, caratterizzerà i quattro giorni che seguiranno. I sopravvissuti al primo giro di boa riusciranno a portare a casa la pelle? Oppure sono stati troppo fiaccati dalla fatica, trovandosi così costretti a rimandare mosh e prime file al prossimo anno? Come affermava un celebre cantautore, lo scopriremo solo vivendo.
Giovedì 23 Giugno – It’s time to say goodbye…
Come anticipato nel titolo, la presente giornata è da passare col fazzoletto in mano, e la ragione è presto detta: due pezzi di storia del rock sono al loro tour di addio. Questo significa che i presenti avranno modo di vederli per l’ultima volta, prima che queste band diventino solo un ricordo di cui parlare al passato. E chi siamo noi per non passare a tributare i giusti omaggi a due mostri sacri come Whitesnake ed UFO? Ma ci arriviamo con calma, non preoccupatevi.
L’apertura di questa nostra (seconda) prima giornata è contrassegnata da Phil Campbell & The Bastard Sons, il cui repertorio è interamente composto da cover dei Motorhead. Il buon Phil, si sa, deve molto del suo successo alla band britannica, ma vi facciamo una piccola anticipazione: i tributi a Lemmy non sono assolutamente finiti qui.
Subito dopo è il turno dei The Last Internationale, altra piacevole scoperta di questo Hellfest 2022. La band entra sul palco forte del suo rock distorto e dalle forti tinte blues, nonché dalla potente voce della sua cantante. Nonostante una carriera relativamente giovane, Delila Paz si dimostra perfettamente in grado di affrontare un pubblico già numeroso, senza perdere un grammo né di voce né di aggressività; lo stesso discorso si applica al resto della band, con particolare menzione al chitarrista e cofondatore Edgey Pires. Il loro set non è decisamente il più “pesante” tra quelli previsti in giornata, ma la loro esibizione lascia chiaramente intendere la luminosa carriera che attende il duo di New York.
Il tempo scorre ineluttabile e, in un battibaleno, arriviamo alla prima “fazzolettata” in programma. Il pubblico che attende gli UFO è perfettamente consapevole che sta per incrociare, per l’ultima volta, un pezzo di storia dell’hard rock che, con i suoi 50 e più anni di carriera, ha concorso a plasmare la musica che amiamo. Proprio per questa ragione, l’accoglienza tributata a Phil Mogg e soci è decisamente calorosa, come testimoniato dal boato che segue le prime note di “Mother Mary”. Siccome si parla di storia, il set odierno è incentrato sui dischi storici della band, senza dimenticare alcun classico: da “Rock Bottom” a “Too Hot to Handle”, passando per “Light Out”. La voce del buon Phil risente dei 74 anni d’età e, proprio per questa ragione, non regala una performance indimenticabile; discorso diverso riguarda il resto della band, capace di ricreare l’energia del proprio repertorio, con un Vinnie Moore a dir poco strepitoso nel suo ruolo naturale di solista. Il sogno proibito di chi vi scrive era un’ospitata, anche di pochi minuti, con Michael Schenker, ma probabilmente siamo incontentabili. La conclusione non poteva che essere affidata a quella “Doctor Doctor” che i più giovani avranno scoperto come intro dei concerti degli Iron Maiden, ma che rappresenta il perfetto commiato di una delle band più importanti del rock.
Prima di addentrarci nel secondo addio di giornata, è il turno di Steve Vai di calcare le assi del Mainstage 2. Il chitarrista di New York è un musicista che non ha bisogno di presentazioni, capace di rivoluzionare il modo di suonare la sei corde e spingere tantissimi (tra cui il sottoscritto) a comprare una chitarra. Sulla base di queste parole, la curiosità di chi vi scrive di assistere ad una performance di uno dei guitar hero per antonomasia era veramente tantissima. Lo show propone diversi pezzi di “Inviolate”, l’ultima fatica di Vai, e qualche escursione nella sua discografia meno recente; inutile sottolineare quanto l’axeman sia ancora un maestro indiscusso del suo strumento, snocciolando riff, fraseggi ed assoli di cui solo lui sembra capace, coadiuvato da una band di primissima caratura. Lo show scorre liscio come l’olio, concludendosi sulle note di “For The Love Of God”, unica vera hit dell’artista americano insieme a “Tender Surrender”; probabilmente insieme alle poche interazioni col pubblico, questa è l’unica pecca dell’esibizione: qualche classico in più non avrebbe guastato. Per tutto il resto, va da sé, non c’è che da togliersi il cappello.
Il rockettaro medio, si sa, è pronto a tutto, ma la domanda è d’obbligo: siamo pronti a vivere una vita senza i Whitesnake? Anche in questo caso, ai posteri l’ardua sentenza. David Coverdale e compagni si presentano sul palco sulle note di “Bad Boys” e subito due cose appaiono chiare: la formazione è pesantemente rimaneggiata, soprattutto rispetto al recente passato, e la voce di Dave ha veramente poco dello splendore dei bei tempi che furono. Per quanto riguarda il primo aspetto, la presenza di un solo chitarrista (Reb Beach è assente, causa malattia), per quanto del calibro di Joel Hoekstra, non sempre è sufficiente per garantire quella rocciosità di cui i pezzi della band hanno bisogno; la stessa Tanya O’Callaghan, per quanto la sua performance sia stata esente da sbavature, sembra quasi un rimpiazzo dell’ultimo minuto. Spostando il focus sul buon Coverdale, l’impressione è che, carisma a parte, faccia ormai molta fatica; al di là di eventuali problemi di salute (alla base della cancellazione di tutte le successive date europee del tour di addio) la presenza di Michele Luppi e di Dino Jelusick ha lo scopo di aiutare (se non proprio rimpiazzare) il frontman negli acuti più impegnativi. In ogni caso, lo show prosegue senza intoppi, con il pubblico che balla sulle note di “Fool for Your Loving” e “Crying in the Rain”, esaltandosi sull’assolo di batteria dell’immortale Tommy Aldridge. La conclusione è in pieno stile 1987, con “Here I Go Again”, “Is This Love” e “Gimme All Your Love”, ma è su “Still of the Night” che accade l’inaspettato: i Whitesnake vengono raggiunti da Steve Vai, che esegue l’assolo del pezzo con la sua immensa classe. D’altra parte, come sottolineato da David Coverdale in persona, “Once a snake, forever a snake!”. Inutile sottolineare l’entusiasmo dei presenti alle stelle, ma i grandi sanno benissimo quando è il momento di dire basta, onde evitare di diventare la caricatura di se stessi; ed è con questa consapevolezza che salutiamo per l’ultima volta Dave e soci, sapendo che ci mancheranno tantissimo.
Un altro appuntamento a cui non era possibile mancare era quello con gli Helloween che, dal loro ricongiungimento con Kai Hansen e Michael Kiske, propongono set prettamente incentrati su “Keeper of the Seven Keys” (I e II), per la gioia dei fan della primissima ora. Lo show in terra francese non fa eccezione e, con la tripletta “Eagle Fly Free”, “Doctor Stein”, “Save Us”, mette in chiaro quanto il gruppo tedesco sia ancora il re incontrastato del power metal. Dopo una performance maiuscola di Kiske, diamo il benvenuto a Kai Hansen, che mette in mostra il meglio di quanto da lui scritto per le zucche di Amburgo: parte un medley composto da “Metal Invaders / Victim of Fate / Gorgar / Ride the Sky”, per poi lasciare spazio a classici del calibro di “Heavy Metal (Is The Law)” e “A Tale That Wasn’t Right”. La formazione a tre cantanti da il suo meglio, consentendo a Kiske e Deris di alternarsi e duettare, per una sfida all’ultimo acuto. La conclusione dello show non poteva che essere affidata a quell’”I Want Out” che ogni metallaro conosce a memoria, e che ci lascia l’impressione di un gruppo in forma smagliante ed in cui il vecchio si mescola col nuovo, per la felicità di tutti, giovani e “un po’ meno giovani”.
Due band storiche dicono addio, ed un’altra lo dice e poi… ci ripensa! Come ben sappiamo, qualche anno fa gli Scorpions avevano annunciato il proprio ritiro dalla scene, con annesso tour finale, per poi rendersi conto che nessuno di loro aveva voglia di appendere gli strumenti al chiodo. Il gruppo tedesco non vuole proprio sentir parlare di pensione, ed il loro approdo sul palco, sulle note di “Gas in the Tank”, ne è la prova più lampante: l’ugola di Klaus Meine è quella di sempre e Rudolph Schenker continua ad avvincere il pubblico, con la sua inconfondibile Flying V. Neanche il tempo di prendere fiato che subito si torna indietro di circa 40 anni, con “Make It Real”, “The Zoo” e “Coast to Coast”; tuttavia, dopo “Bad Boys Running Wild”, è il momento di una doppia ballad: se era da un po’ che non vedevamo “Send Me an Angel” in scaletta, ascoltare “Wind of Change” in questo momento storico ha un sapore totalmente diverso. Il pezzo, si sa, è un inno alla pace con pochissimi eguali, ed un toccante video sui maxischermi alle spalle della band di Hannover ci fa capire quanto, ora più che mai, ci sia un assoluto bisogno di pace, tanto in Ucraina quanto nel resto del mondo. “Black Out” e “Big City Nights” fanno calare il sipario sullo show, ma solo per un attimo, perché non ci può essere un concerto degli Scorpions senza “Still Loving You” e, soprattutto, senza “Rock You Like a Hurricane”, eseguita con la speciale partecipazione di Phil Campbell che, insieme a Mikkey Dee, ha fatto parte di un pezzo di storia del rock che risponde al nome di Motorhead. La musica si conclude nel tripudio generale, ma le emozioni non sono affatto terminate: Campbell e Dee tornano sul palco, annunciando che, di lì a breve, il mai dimenticato Lemmy sarà omaggiato in un modo unico. Il rocker era un animale da palcoscenico, ed è quindi giusto che parte delle sue ceneri riposino proprio qui all’Hellfest, all’interno di una nicchia posta alla base dell’enorme statua a lui dedicata nell’area del festival; così facendo, chiunque potrà sentire la sua presenza e, perché no, brindare con a lui, conferendo all’evento un valore mistico che, a memoria d’uomo, nessun’altro evento simile può vantare.
Poche rock band avrebbero la capacità e l’attitudine di suonare dopo dei mostri sacri come gli Scorpions. Forse proprio per questa ragione, l’organizzazione del festival ha pensato di collocare, sul Mainstage 2, un gruppo come i Wardruna che, con il loro neofolk, si collocano su un piano completamente diverso dalla band tedesca. La quasi totale assenza di strumenti elettrici favorisce l’intimità della performance del progetto norvegese, che riesce a trasmettere tutto il suo misticismo e la sua spiritualità. La voce di Einar Selvik è ispirata come non mai, ed il suo approccio calmo, quasi colloquiale, riesce a tenere il pubblico in uno stato a metà strada tra l’ipnosi e l’estasi più totale. Le tematiche trattate dai brani dei Wardruna sono tutte collocabili dall’interno del folklore baltico, capaci di spaziare dalla religione pagana al ciclo della vita, ai suoni della natura ed all’avvicendarsi delle stagioni. Le melodie della band sono talmente avvolgenti che l’ora e un quarto di set vola letteralmente via, lasciandoci la voglia di assistere ad una scaletta più corposa e chiudendo la prima giornata del secondo weekend dell’Hellfest 2022.
Venerdì 24 Giugno – Pioggia, fango e… industrial!
Se il primo weekend era stato contrassegnato da un caldo torrido e senza sconti, il secondo è caratterizzato da giornate incerte, in cui era prevista un’alternanza tra sole, nuvole e pioggia; se giovedì abbiamo avuto la fortuna di godere di condizioni a dir poco perfette, oggi è giorno di pioggia, senza mezzi termini.
L’inizio della giornata è scandito dal wall of sound degli Stöner, ennesimo progetto di Nick Oliveri e Brant Bjork, che non fanno nulla per nascondere la loro proposta musicale. D’altra parte, stiamo sempre parlando di due ex membri dei Kyuss, e non stupisce quindi che il set comprenda anche l’esecuzione di “Green Machine”, direttamente proveniente dal repertorio di uno dei gruppi che ha plasmato lo stoner.
Abbandoniamo il tendone del The Valley e ci presentiamo al Mainstage 2, dove sta per avere inizio la performance dei Dragonforce. L’extreme power metal della band britannica lo si ama o lo si odia, ma è impossibile negare che l’avvento dei social network abbia ampliato notevolmente il bacino dei fan, che accorrono numerosi e si scatenano sulle note di “Highway to Oblivion”. Il set scorre a velocità supersonica, scandito da una costante doppia cassa, da ritmiche taglienti e dagli inconfondibili assoli al fulmicotone della coppia Li/Totman. Non mancano i classici che hanno reso celebre il quintetto, da “Valley of the Damned” a “Fury of the Storm”, senza ovviamente dimenticarci di quella “Through the Fire and Flames” che ha costituito la più ardua delle sfide su Guitar Hero. Lo show è di ottimo livello, con l’unica pecca dei suoni delle chitarre, che appaiono un po’ sottotono rispetto al sound da protagoniste assolute che dovrebbero avere.
Se il vostro cuore batte per l’industrial, poche band possono attirare la vostra attenzione come i Killing Joke. Il gruppo londinese, con il suo sound cupo, scandito da ritmi tribali e da una sapiente miscela di chitarre elettriche e suoni sintetici, ha contribuito all’evoluzione di questo genere, arrivando ad influenzare una miriade di band, tra cui anche gli headliner di giornata. Il quartetto si presenta sul palco accompagnato da “Love Like Blood”, con un Jaz Coleman che fa capire immediatamente di essere in giornata; l’istrionico frontman riesce tranquillamente ad esprimere la vocalità che lo ha reso celebre, spaziando tranquillamente tra growl cavernosi, parlato e melodie pulite dalla forte carica emotiva. Neanche il tempo di riprendere fiato che inizia il riff martellante di “Wardance”, su cui il cantante scatena una serie di balli e movenze da automa, senza però dimenticarsi delle urla ferali che caratterizzano il pezzo. Il set continua senza indugio, riuscendo a spaziare tra moltissimi dischi della band britannica e riuscendo a renderne la grandezza tanto agli occhi del pubblico presente quanto alle condizioni atmosferiche che, per omologarsi a tanta oscurità, decidono rendere plumbeo il cielo di Clisson, con dei nuvoloni carichi d’acqua che, di lì a brevissimo, inizieranno a riversare il loro contenuto sui di noi.
Dopo aver ricevuto un primo assaggio di ciò che il meteo ci avrebbe riservato tra qualche minuto, “Violent Revolution” segna l’inizio dello show dei Kreator. La band, si sa, è quanto di meglio il thrash metal teutonico abbia espresso in tutta la sua gloriosa storia, rappresentando una garanzia tanto in studio quanto dal vivo. Le urla di Mille Petrozza su “Hate Uber Alles” sono il giusto pretesto per il moshing più selvaggio, che prosegue imperterrito sulle note di “Phobia”. Con “Satan is Real” ed “Hail to the Hordes” si tira un attimo il fiato, ma è solo la breve quiete prima di una tempesta scatenata dai classici del quartetto. La sezione ritmica non ne sbaglia una, con Jurgen “Ventor” Reil che si conferma essere una macchina incapace di incepparsi, consentendo alla chitarra solista di potersi innestare in tutta la sua immensità. C’è qualcosa che non sia stato detto sull’uomo di Essen che risponde al nome di Mille Petrozza? Probabilmente no, perché la sua ugola continua ad essere la quintessenza della rabbia, di quella bestia che alberga in ognuno di noi. I riff della band sono talmente taglienti che la stessa pioggia non osa cadere al suolo, attendendo la fine dello show, che si conclude un poker d’assi del calibro di “Phantom Antichrist”, “Strongest of the Strong” (eseguita per la prima volta in assoluto dal vivo) e le celeberrime “Flag of Hate” e “Pleasure to Kill”. Ed ora, può ricominciare il diluvio!
Lo show dei Ministry segna l’inizio delle “ostilità meteorologiche” che le previsioni avevano messo in preventivo. La band di Chicago è una delle molte che, nel corso del festival, hanno mostrato solidarietà al popolo ucraino, solidarietà che, in questo caso, spinge Al Jourgensen e soci a trasmettere l’inno ucraino. È tempo però di fare sul serio e, quindi, iniziano le percussioni industrial di “Breathe”, accompagnate dai latrati laceranti e distorti dell’iconico frontman del gruppo. Il set si svolge con una pioggia che inizia ad essere incalzare, inzuppando fino alle ossa i presenti e formando delle distese di fango. Tuttavia, un clima del genere assume le vesti di un’enorme scenografia, conferendo ancora più enfasi ad uno show come quello dei Ministry. Dopo i suoni disturbanti di “Deity” e “Stigmata”, c’è tempo anche per “Supernaut”, un omaggio ai Black Sabbath, ovviamente sempre alla maniera di Jourgensen. La pioggia continua a battere, ma nessuno dei presenti sembra risentirne eccessivamente, così come la band, che prosegue imperterrita lo show fino alla sua conclusione, sulle note (o sui rumori) di “Alert Level” e “Good Trouble”.
Quando si assiste ad un set di Alice Cooper, non si è mai ad un semplice concerto, ma ad uno spettacolo a 360 gradi, dove la qualità delle scenografie va di pari passo con la qualità della musica. Questo Vincent Furnier lo sa benissimo, ed è proprio per questa ragione che, nel corso dei suoi 50 e più anni di carriera, ha sempre assicurato performance grandguignolesche e scioccanti, circondandosi dei migliori musicisti che la scena rock avesse da offrire. Il “Nightmare Castle” fa capolino, ed i cori di “Feed My Frankenstein” aprono le danze, che proseguono con un tris di classici da lasciare K.O. il più accanito dei fan: “No More Mr. Nice Guy”, “Bed of Nails” ed “Hey Stoopid”. A poco meno della metà dell’esibizione, è tempo di mettere in mostra le qualità della band, prima con un solo di Nita Strauss, che non fa assolutamente rimpiangere i suoi illustri predecessori, ed in seguito con un altro assolo del batterista Glen Sobel. Gli appassionati sanno benissimo che non c’è concerto in cui zio Alice non “muoia” almeno una volta, ed il frontman sa che la pena per chi delude un appassionato è la ghigliottina… ed è proprio una ghigliottina a comparire sul palco, decapitando il nostro eroe. Tuttavia, si sa che Alice Cooper non può morire, non quando ci sono ancora tutti questi colpi in canna, ed i proiettili in questione rispondono al nome di “Poison” (l’unico pezzo su cui la voce del cantante abbia riscontrato qualche problema), “I’m Eighteen”, “Escape” e l’immancabile “School’s Out”, che chiude uno show memorabile di un artista che sembra non risentire dello scorrere del tempo. D’altra parte, sappiamo che Vincent Furnier ha 74 anni, ma l’età di Alice Cooper è un quesito che è destinato a rimanere inevaso.
Eccoci arrivati al grande evento di questa giornata di festival, che si preannuncia di grandissima caratura. Trent Reznor, padre padrone dei Nine Inch Nails, è solito curare ogni dettaglio dei concerti della sua creatura, dai suoni alle scenografie, fino alle luci, e ci rendiamo conto di quanto ora affermato con “Mr. Selfdestruct”, che apre il set della band americana con uno sbarramento di luci bianche intermittenti, che impediscono praticamente a chiunque di vedere ciò che accade sul palco, interrompendosi solo nei momenti in cui Reznor canta e riprendendo subito dopo, rendendo un pelino più difficoltoso il lavoro dei tanti fotografi nel pit. “Wish” è la classica sferzata che tutti i presenti attendevano con ansia, mentre “Last” ci porta in territori decisamente più industrial, con ritmiche martellanti ed ossessive e delle lyrics urlate al punto giusto, che proseguono imperterrite anche sulla successiva “March of the Pigs”. Se “The Lovers” rappresenta come meglio non si potrebbe il modo in cui Trent Reznor intende l’industrial, con le sue suggestioni digitali quasi intime ed emotive, “Reptile” ci riporta con i piedi per terra, con le sue ossessioni claustrofobiche e sintetiche. Lo show ci riserverà altri estratti da “The Downward Spiral”, come “Heresy”, “Closer” e “Hurt”, che chiuderà una performance maiuscola, in cui nulla sembra lasciato al caso, ma dal “re dell’industrial”, non ci saremmo aspettati niente di meno.
Hellfest è un luogo particolare, dove è possibile assistere alle performance dei migliori artisti metal e non solo. È proprio in questa seconda categoria che è possibile collocare The Bloody Beetroots ed il suo synthpunk che lo ha reso celebre in tutto il mondo; purtroppo, in assenza di una band, pochi dei suoi classici verranno proposti nell’ora di dj set che ci attende, ma se lo scopo era quello di farci scrollare un po’ di fango da dosso, l’obiettivo può dirsi centrato al 100%. Il pubblico sembra per niente provato da una giornata piovosa, e lo dimostra ballando, pogando e facendo body surfing ininterrottamente, fino a che il sipario non cala definitivamente su questa seconda giornata, dandoci la possibilità di un cambio d’abito a dir poco necessario e settando il navigatore su Paradise City.
Sabato 25 Giugno – Benvenuti nella Giungla
È doveroso fare una premessa: chi vi scrive aveva già assistito ad una performance dei Guns N’ Roses, quando però della line up originale figurava il solo Axl Rose. Era il lontano 2012, ma il ricordo di quella serata rimane ancora oggi vivissimo: un frontman che sembrava la controfigura della versione dei bei tempi andati, ed una band composta da musicisti di prim’ordine, ma che non incarnavano per nulla lo spirito e l’attitudine della formazione di “Appetite For Destruction”. Potete quindi immaginare che la curiosità di assistere ad uno show della versione 2022 dei Guns, con tutti (o quasi tutti) i membri di quella line up storica, andasse di pari passo con un sano scetticismo. Ma ci sarà tempo per rispondere a tutte le domande.
Dopo esserci assicurati il tanto agognato cambio d’abito, attraversiamo le distese di fango create dalla pioggia di ieri ed arriviamo giusto in tempo per il set degli Eluveitie, che aprono le danze con “Rebirth”. Il folk della band è tra i migliori in assoluto, gli svizzeri lo sanno benissimo e scatenano tutta la loro classe sui successivi “King” ed “Inis Mona”, ottenendo una calorosa risposta dal pubblico. Il “parco strumenti” del gruppo, come i fan sanno benissimo, è tanto vasto quanto vario, e questo si riflette nelle loro orchestrazioni, capaci di comprendere sonorità affascinanti e mai banali. Aggiungete a quanto ora detto due cantanti carismatici ed ispirati come Chrigel Glanzmann e Fabienne Erni ed otterrete tutti gli ingredienti della “ricetta segreta elvetica” che, nell’arco di appena 45 minuti, riesce a stregare i presenti.
Le avanguardie musicali non sono mai caratterizzate da un repertorio di facile assimilazione, e quello degli Arcturus corrisponde pienamente a quanto ora detto, basta ascoltare “Evacuation Code Deciphered” e “Master of Disguise” per rendersene subito conto: riff di chitarra direttamente provenienti dal black metal norvegese, atmosfere sinfoniche e la voce pulita di Vortex a rendere il tutto ancora più onirico di quanto già non sia. Non mancheranno altri estratti de “La Masquerade Infernale”, per la gioia dei fan di vecchia data; lo show prosegue senza indugio, con il pubblico che sembra ipnotizzato dalle musiche cangianti della band, capace tanto di far pogare i presenti quanto di lasciarli nell’estasi più totale.
Come molti dei fan si saranno accorti, la distanza ravvicinata tra il primo ed il secondo weekend dell’Hellfest 2022 ha fatto sì che diverse band prendessero parte ad entrambe le tranche dell’open air. Se abbiamo già menzionato i Megadeth, adesso è il turno degli Airbourne di tornare nuovamente sul palco, mettendo in piedi uno show che è praticamente la fotocopia di quello dello scorso 18 Giugno, gag comprese, solo con qualche pezzo in più. Il che, ovviamente, non è assolutamente un male.
Se avete vissuto l’adolescenza a cavallo tra gli anni ’90 ed i primi 2000, è impossibile che i Nightwish non abbiano fatto parte della vostra colonna sonora. Quel periodo è stata l’epoca d’oro dei finnici che, dopo il travagliato addio a Tarja Turunen, hanno attraversato una fase turbolenta, fatta di alti e bassi, ritrovando stabilità con l’ingresso in formazione di Floor Jansen, forse l’unica persona capace di non far rimpiangere la frontwoman originaria del gruppo. La band si presenta sul palco sulle note di “Noise”, estratto da “Human. :II: Nature”, ma si capisce subito che i classici non mancheranno affatto; “Planet Hell”, “Dark Chest of Wonders”, la famosissima “Nemo”, ci mostrano un combo in splendida forma, ed una cantante che sembra capace di fare praticamente tutto ciò che le si chiede, riuscendo anche ad intrattenere un pubblico decisamente vasto. Della line up originale sono oramai rimasti i soli Tuomas ed Emppu, ma il loro mestiere è tale da mettere in piedi uno show intenso ed emozionante, capace di attirare l’attenzione anche di chi non è mai stato un fan sfegatato dei Nightwish. La cavalcata finale comprende brani del calibro di “Sleeping Sun”, “Ghost Love Score” e “The Greatest Show on Earth”, con cui cala il sipario.
Lo show dei Guns N’ Roses, inutile dirlo, era il più atteso della giornata e la folla oceanica assiepata nei dintorni del Mainstage 1 né è la prova lampante. La nostra curiosità va di pari passo con i dubbi espressi nell’introduzione di questa giornata di festival, e questi non fanno che rafforzarsi nel momento in cui Slash e soci entrano in scena, ed Axl intona “It’s So Easy” e “Mr Brownstone”, i primi due estratti da “Appetite For Destruction”. Il cantante si dimostra al sicuro sulle note più baritonali, così come sui falsetti più spinti e potenti, ma a risentirne sono tutte le tonalità comprese tra questi due estremi, in cui la voce di Axl si assottiglia in maniera vistosa, non riuscendo a brillare di luce propria come avveniva negli anni d’oro. Tuttavia, rispetto alla già menzionata esibizione del 2012, il frontman sembra decisamente un’altra persona, tanto nel fisico quanto nelle capacità vocali, e questo va a beneficio di uno show di ben due ore e mezza di durata. Come fa una band con appena cinque dischi all’attivo a riempire un set così lungo? Con delle cover, ovviamente! Si inizia con “Back in Black” degli AC/DC, si prosegue con “Slither”, in omaggio ai Velvet Revolver e, più in là, con “I Wanna Be Your Dog” degli Stooges; tuttavia, il pubblico ha fame di hit, ed i Guns non si fanno pregare, eseguendo “Welcome to the Jungle”, “Reckless Life”, “You Could Be Mine”, “Rocket Queen” e “Civil War”, dimostrando che Slash, Duff e soci non hanno affatto perso lo smalto, ma mettendo non poco in difficoltà il buon Axl, che se la cava con qualche affanno di troppo. La prima parte dello show si chiude con un poker di pezzi provenienti da Appetite, con la conclusione affidata a quella “Paradise City” su cui tutti stavano aspettando di scatenarsi. Alla fine della fiera, i Guns sono una di quelle band che tutti dovrebbero vedere dal vivo almeno una volta, anche a patto di chiudere un occhio sulle performance altalenanti di Axl Rose.
A chiunque tremerebbero i polsi nell’esibirsi dopo i Guns N’ Roses ma, se la tua band si chiama Blind Guardian, sai di poter contare sul calore di un pubblico fedele ed in trepidante attesa; e se Hansi Kursch, dopo un’intro a base di “Into the Storm”, “Welcome to Dying”, “Nightfall” e “Time Stands Still”, afferma che il gruppo eseguirà tutto Somewhere Far Beyond, abbiamo un validissimo motivo per rimanere saldi al nostro posto. Ascoltare la band tedesca è sempre un’esperienza dalla forte carica emotiva, soprattutto nel momento in cui questa decide di rispolverare il primo capolavoro della sua discografia che, dai riff serrati “Time What is Time” alla title track finale, scorre via che è un piacere. Fortunatamente, però, c’è ancora tempo per altri due classici, che rispondono al nome di “Mirror Mirror” e “Valhalla”, i cui cori riecheggieranno per tutta la notte e per buona parte della giornata successiva. D’altra parte, un grande show è come un marchio a fuoco nella mente dello spettatore, destinato a rimanere impresso nella sua memoria per molto, moltissimo tempo.
Domenica 26 Giugno – Fuochi di fine festival
Non sembrava vero, ma i nostri eroi sono arrivati alla giornata conclusiva, purtroppo quella “vera”, dell’Hellfest 2022. L’organizzazione è ben consapevole dell’impresa titanica compiuta dal pubblico, che è sopravvissuto per ben due settimane di fila, sfidando il sole cocente, il freddo delle notti di Clisson, la pioggia, il fango ed un titolo alcolometrico costantemente superiore ai valori di guardia; proprio per questa ragione, viene messa in vendita una speciale t-shirt per tutti i “sopravvissuti” a queste due weekend di musica. Chi vi scrive sente tutta la fatica di questo soggiorno in terra francese, ma sa di non poter indugiare: c’è da onorare l’ultima giornata di un’edizione irripetibile, con un headliner da sogno, c’è la cerimonia di chiusura, con tanto di fuochi d’artificio da presenziare e, perché no, magari qualche piccolo indizio da cogliere sull’edizione 2023 su cui speculare. Solo dopo tutto questo, saremo liberi di abbracciare i nostri compagni d’avventura, facendoci prendere dall’emozione e prendendo appuntamento per l’anno prossimo. Ma, ancora una volta, procediamo con calma, perché questa giornata finale ha tanto, tantissimo da darci.
L’ultimo giro di boa inizia sotto il segno del doom psichedelico degli italianissimi Ufomammut che, nell’arco di appena 45 minuti, riescono a stordirci col loro wall of sound, ricordandoci che la giornata è ancora lunga e piena di musica. Subito dopo è il turno dei Cult of Fire di incendiare (perdonate il gioco di parole) il palco del The Temple, con il loro black metal dalle sonorità mistiche e dalle atmosfere epiche. La band ceca, si sa, non si interfaccia praticamente mai con il pubblico, e punta tutto sul forte impatto scenico e su una performance chirurgica ed altamente emotiva, che riesce a tenere incollati tutti i presenti dall’inizio alla fine della performance, molto più simile ad una cerimonia (con candelabri, statue ed incenso compresi) che ad un classico concerto.
Con gli ultimi residui di incenso nel naso, e subito dopo aver celebrato degnamente l’ultimo pranzo in terra francese, arriviamo giusto in tempo per la conclusione dell’esibizione degli Avatar e l’inizio di quella dei Bring Me the Horizon. L’età media dei presenti nelle prime file è prevedibilmente bassa, con una maggioranza di adolescenti che, all’arrivo di Ollie e compagni sul palco, va letteralmente in visibilio. Dalle prime file, purtroppo, i suoni sono parecchio impastati, con la voce di Sykes a malapena percepibile, ma il pubblico non sembra risentirne eccessivamente, scatenandosi sulle note di “Can You Feel My Heart”, “Teardrops”, “Mantra”, “Parasite Eve” e “Shadow Moses” in rapidissima successione. Lo show diventa l’appuntamento ideale per tutti gli appassionati di body surfing, mettendo alla prova la prontezza di riflessi della security, nonché la cervicale degli occupanti delle transenne. C’è tempo anche per la ballad “DiE4U”, per poi chiudere in bellezza con “Throne”, con cui si concluda una performance energica e sfibrante.
Si passa all’altra sponda del Mainstage ed il muro di casse 4×12 sta a significare solo una cosa: “sua sobrietà” Zakk Wylde sta per salire sul palco, insieme ai suoi Black Label Society, per uno show a base di pinch harmonic, urla ferali ed headbanging forsennato. Con “Bleed for Me”, “Demise of Sanity”, “Destroy & Conquer” ed “Heart of Darkness”, la band da il benvenuto alla divisione francese della sua immensa fanbase, inaugurando una performance in cui nessuno risparmierà un’oncia di energia. L’axeman sfoggia un kilt visibile anche ad un chilometro di distanza e, con la sua sei corde dalla verniciatura a cerchi concentrici ed un’asta del microfono che non passa inosservata, dimostra un carisma da frontman consumato. “In This River” è, come sempre, il momento più intimo dello show, con tanto di dedica a Dimebag Darrell e Vinnie Paul, che riesce sempre a commuovere anche il metallaro più insensibile. Zakk sa benissimo cosa vuole il suo pubblico, e non esita a darglielo in dosi abbondanti, snoccialando la tripletta conclusiva “Fire it Up”, “Suicide Messiah” e “Stillborn”, che saziano la fame di distorsione in tutti i presenti, preparandoli alla calata dei Four Horsemen.
Sui riff di “Ghost Division” e “Stormtroopers”, ed accompagnati dalle roche (e, per la verità, un po’ zoppicanti) linee vocali di Joakim Brodén, abbandoniamo il Mainstage per avvicinarci alla transenna del The Temple. La ragione di questo spostamento è una: i Mercyful Fate stanno per salire sul palco, e noi non possiamo che rispondere al loro appello. La cerimonia viene aperta da “The Oath”, con la sua atmosfera maligna, i riff di Hank Shermann e, ovviamente, gli acutissimi falsetti di King Diamond, che si presenta sul palco sfoggiando una sinistra maschera da caprone, e sfoggiando un’ugola che sembra aver conservato tutto il fulgore degli esordi. Come di consueto, il palco è addobbato con un pentacolo rovesciato rosso scarlatto e sormontato da una croce capovolta che ricorda ai presenti che cosa accade se si guarda troppo a lungo nell’abisso. “A Corpse Without Soul” ci restituisce una band in forma fisica smagliante, capace di eseguire alla perfezione gli intricati arrangiamenti che da sempre ne hanno contraddistinto il sound e che ne hanno fatto la fortuna. Il pubblico risponde come meglio non si potrebbe, mostrando tutto l’entusiasmo per uno show atteso per quasi tre anni, ma desiderato da almeno 30. “Evil”, “Come to the Sabbath” e “Satan’s Fall” chiudono uno dei migliori show dell’Hellfest 2022, lasciando nei presenti la consapevolezza che l’aristocrazia del metal è sottoposta ai voleri di un solo sovrano: re Kim Bendix Petersen, meglio noto ai suoi sudditi come King Diamond.
Ce lo hanno insegnato sin da bambini: c’è sempre una prima volta, in tutte le cose. Nonostante una carriera di più di quarant’anni e milioni di dischi venduti, i Metallica stanno per calcare il palco dell’Hellfest per la prima volta in assoluto, trovandosi di fronte la quasi totalità dei 70.000 presenti all’ultima giornata di festival. Termina la canonica “The Ecstasy of Gold” ed il riff serrato di “Whiplash” scatena il boato del pubblico delle grandi occasioni. Nonostante i classici del quartetto della Bay Area siano presenti, la setlist odierna è caratterizzata anche da pezzi decisamente insoliti, da “Damage Inc.” ad “Harvester of Sorrow”, passando da “Wherever I May Roam” fino ad arrivare a “No Leaf Clover” e “Dirty Window”, provenienti rispettivamente da “S&M” e dal tanto vituperato “St. Anger”. Come sempre, James Hetfield è un animale da palcoscenico come pochi altri, sfoggiando tutto il suo inossidabile carisma e quel downpicking che l’ha reso uno dei ritmici per eccellenza del thrash metal; anche Hammett e Trujillo eseguono performance maiuscole, mentre il buon Lars Ulrich rappresenta la nota parzialmente stonata di un’esibizione, altrimenti, ai limiti dell’impeccabile. Il batterista di origini danesi tende, soprattutto nelle fasi iniziali dello show, ad anticipare molti dei suoi fill e, di conseguenza, costringe l’intera band ad accelerare pur di stargli dietro; tuttavia questi problemi, che hanno funestato molte delle performance passate dei ‘Tallica, stavolta sono limitati ad una manciata di pezzi, non arrivando quindi a compromettere l’intero concerto, che tocca le vette più elevate all’arrivo delle hit del gruppo, di pezzi come “Sad But True”, “For Whom the Bell Tolls”, “Seek and Destroy”, innanzi ai quali non si può rimanere immobili. Non manca un momento più intimo, scandito da “Fade to Black” e “Nothing Else Matters”, ma la conclusione dello show non poteva che essere affidata a “One” ed alla celeberrima “Master of Puppets”, capace di vivere una seconda giovinezza proprio in questi ultimi giorni, a quasi quarant’anni dalla sua release, grazie alla sua presenza in Stranger Things. Le fasi finali dell’esibizione dei Metallica sono accompagnate da delle fiammate coordinate provenienti dalle torri che delimitano l’area del festival e dai bar presenti al suo interno, dando ancora più enfasi ad uno show gigantesco, degna conclusione di un Hellfest che ha fatto la storia degli Open Air.
La musica finisce ed iniziano le celebrazioni conclusive del quindicesimo anniversario dell’evento, scandite da oltre 15 minuti di fuochi d’artificio, sulle note di “The Number of the Beast”, “War Pigs” e “For Those About to Rock”. La magnificenza della cerimonia di chiusura viene per un attimo interrotta dalla proiezione delle date della prossima edizione, prevista per il 16-17-18 Giugno 2023, e da una domanda che ci assale all’improvviso: che i tre pezzi sentiti durante i fuochi d’artificio fossero un’anticipazione degli headliner dell’anno prossimo? Un Hellfest 2023 con Iron Maiden, Black Sabbath ed AC/DC sarebbe un evento legalmente consentito? Gli interrogativi vanno di pari passo con i voli pindarici nelle nostre menti euforiche, ma l’unica cosa certa è che, di qui a breve, dovremo smontare la tenda ed fare i conti con il ritorno a casa. Alla fine della fiera, che cosa ci rimane dell’Hellfest 2022? Al di là della musica, delle vecchie amicizie, di quelle nuove, delle emozioni e dei lividi su parti più e meno nobili del nostro corpo, il festival francese ci ha dato la consapevolezza che siamo un passettino più vicini alla tanto agognata normalità, quella che la pandemia ci aveva tolto, e non potrebbe esserci notizia più bella. Ed ora, l’attesa è tutta per l’edizione 2023!