Nella Boston di fine anni ’80 non ti annoiavi. Ogni strada congiungeva ad un locale, ogni muro sorreggeva un manifesto, ogni angolo pulsava e fremeva di underground. La cultura artistica emergente scalciava come un toro imbufalito, tutti imbracciavano gli strumenti, tutti avevano il bisogno di pizzicare, premere, colpire, soffiare e far vibrare dinanzi ad un pubblico, come se fosse l’unica cosa importante. Ogni porta odorava o di birra o di musica. La maggior parte odorava di entrambe.

Mark Sandman lo potevi trovare lì, in quel catino gorgogliante di artisti, di ascoltatori e di club, a suonare, quasi ogni sera, anche più volte nell’arco della stessa giornata. Una mente musicale stratosferica, un’instancabile musicista, un sensibile artigiano e sperimentatore, nascosto dietro due occhi di ghiaccio ed una sigaretta penzolante dalla fessura tra le labbra, intento a scrutare brillantemente la platea e a trovare un modo per rendere l’alternativo ancor più smaccatamente alternativo.

I Morphine sono il più pregiato frutto della ricerca del frontman di Newton, risorti come una fenice dalle ceneri dei Treat Her Right – primo, storico gruppo di Sandman – e sbocciati nel music business con la brillantezza di quel fiore variopinto che si distingue nella monotonia di un’aiuola a bordo strada.

Tutto, di questa band, è un’eccezione, un particolare, un’unicità: tre – in alcuni momenti quattro – artisti che vogliono fare rock con strumenti più adatti a carezze jazz. Dana Colley al sassofono, Jerome Deupree e Billy Conway ad alternarsi periodicamente alla batteria, Mark Sandman alla voce e al basso. Un basso a due corde, solo le due centrali. “Less is better”, ma il “meno” è come se non si sentisse. A tratti pare un chitarrone folk, a tratti una stridula lap steel, a tratti un basso che di corde ne ha dieci. Blues e sensualità, malinconia alcolica e tenera felicità, dolore e via di fuga, veicolati dal cavernoso timbro di Sandman in un viaggio al crepuscolo su di un pick-up scassato, di motel in motel, con il braccio fuori e la testa che girovaga per conto suo.

È così che ci dipingiamo “Cure For Pain”, il capolavoro assoluto dei Morphine. “Good” aveva gettato a terra delle fondamenta importanti, ma ancora troppo timide e slegate – o meglio, ancora troppo vincolate ai propri generi di riferimento. È con il successore del 1993 che tutto si fonde, tutto si incarna in una figura precisa, tutto viene su naturale, come una sbornia da whiskey, come un orgasmo finito bene.

Il secondo capitolo della band di Boston tasta le ferite del suo frontman, le scruta con occhio cinico e tenta di brevettare una formula completamente nuova per un antidolorifico che sia funzionale, non assuefacente, liberatorio – il nome Morphine, per i più stolti, non è altro che un riferimento al Dio dei sogni: un percorso terapeutico che calca reminiscenze e tormenti, li colora con fatti, narrazioni e personaggi che oscillano tra il vero ed il reale, li trascina prima all’aperto, sotto il cocente sole del deserto, poi nella penombra di una disadorna camera d’hotel che odora di sesso, bourbon e confessioni sussurrate.

Il bagliore che si affaccia tra le fessure delle tapparelle, il mattino dopo, con la luce del sax di Dana Colley a cullare le dolci note di “Dawna”, qualche secondo prima che il plettro sferragli contro l’acciaio ed un nuvolone nero si faccia carico del roccioso riff di “Buena”, un mid tempo blues dallo sguardo torvo e dall’anima peccatrice. Mark Sandman parla con qualcuno nel semibuio, lo invita ad avanzare verso di lui, gli confida : «You see I met a devil named buena buena / And since I met the devil I ain’t been the same, oh no» in uno sproloquio che spurga sex appeal e sensi di colpa, con il sassofono che si accoda ai ritmi nelle strofe e si scatena negli intermezzi come una farfalla indemoniata, ammansito poi dalle candide trame di “I’m Free Now”, fino a toccare il brio dell’ipnotico blues di “All Wrong”, tra sfumature noir e provocante voluttuosità – «She had black hair / Like ravens crawling over her shoulders / All the way down […] She had a smile that swerved / She had a smile that curved».

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Photo Credits: Jim Steinfeldt

In simil maniera procede la barcollante danza di “A Head With Wings”, a quietare l’implicita tensione di una pacata, ma tormentata “Candy”. Il folk delicato di “In Spite Of Me”, gettato in pasto alla strada polverosa proprio nel bel mezzo del roadtrip, rimarca non solo le qualità compositive – e sperimentali – della band, ma anche una sorta di checkpoint all’interno della terapia, uno stop necessario e quasi forzato in acque calme.

Dura poco, poichè la tempesta torna a rombare su in cielo, l’atmosfera si elettrizza, le due corde riniziano a tremare dirompenti: “Thursday” sembra quasi un déjà-vu di inizio album, giro di basso marmoreo, sax impazzito, batteria tarantolata e l’ugola di Sandman che si rimette in moto a cantare la perdizione («One day she said / C’mon C’mon /She said why don’t you come back to my house / She said my husbands out of town /You know he’s gone till the end of the month »).

Un’incipit al pezzo più importante del plot, l’enorme title track, che si lascia scivolare sullo slide del frontman, rinverdisce il suo mood con un velo di speranza che è un po’ il leitmotiv della musica dei Morphine – «Someday there’ll be a cure for pain / That’s the day I throw my drugs away» – ed il riassunto della vita martoriata – e della conseguente voglia di reagire – di Mark Sandman. Da qui si rimescola un po’ l’umore dell’album, tutto si fa più spensierato, rilassato, dal rapido trotto rock ‘n’ roll di “Mary Won’t You Call My Name?” al soffuso invito slow rock di “Let’s Take A Trip Together”, fino a che la spirale ipnotica di “Sheila” si spegne, come un mozzicone in un bicchierino d’acqua, nelle meste atmosfere da ending credits di “Miles Davis’ Funeral”, ultimo step del percorso.

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Chiunque si sia imbattuto nel suono e nella storia dei Morphine, potrà affermare come il senso dell’alternativo acquisisca un valore veritiero, trasparente, coerente alla proposta musicale dei tre di Boston. Potrà, inoltre, dimostrare quanto “Cure For Pain” si rivesta di quella patina luccicante che distingue una gemma rara e introvabile da un pacco ricolmo di pietruzze. Lo riconosci, lo vedi subito che c’è qualcosa di diverso e straordinario nella musica dei Morphine, nel loro approccio schivo, imperturbabile, che scoppia poi, da un’istante all’altro, in una catarsi punk-jazz-rock fragorosa che buca gli schemi e li fagocita, seppellendo il convenzionale.

Mark Sandman era questo, un omone ombroso, un peccatore come tanti, un sopravvissuto alle sofferenze della vita, un buono che provava, nonostante tutto, a trovare una via di fuga per tutti. “Cure For Pain” è la medicina lasciataci dai Morphine, c’è chi la assume da poco – l’età è un fattore imprescindibile – c’è chi la prende dal lontano 1993 e chi, invece, ne fa un uso ancor più smodato da quel dannato 3 luglio 1999, quando Mark Sandman ha deciso di accasciarsi tra le braccia legnose di un palcoscenico di Palestrina, alla periferia di Roma. Lo stage che l’ha rimesso in vita, se lo è ripreso brutalmente, esattamente quando la terapia ha smesso di fare effetto su di lui. Per noi, invece, rimane ancora un analgesico efficace e, soprattutto, indispensabile.

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