Soltanto esaminando la cover che riproduce l’olio su tela “Incubo” (1797) del pittore svizzero Johann Heinrich Füssli, già si potrebbe desumere il contenuto di “Traum”, nuovo album del progetto Blut, successore dello scorso e complesso “Hermeneutics” (2020). Ne abbiamo discusso con le voci della band, Alessandro Schümperlin e Chiara Manese, che ci hanno svelato i numerosi dettagli del disco, dalla tematica junghiana dello stesso alle varie fasi della lavorazione di un prodotto capace di valicare i limiti del mero ambito sonoro. Due interlocutori sinceri e senza peli sulla lingua, che, tra molti sorrisi e qualche amara riflessione sulle condizioni in cui versa la musica attuale, lasciano trasparire una grande dedizione per l’arte in tutte le sue forme e linguaggi, per una lunga intervista da leggere sino in fondo.
Ciao ragazzi e benvenuti su SpazioRock. Come state? Visto che si tratta della vostra prima intervista sulle nostre pagine, potreste sintetizzarci la storia del progetto Blut, partendo magari dagli albori?
Alessandro: Tutto nasce il giorno dopo che gli Anthologies, il mio vecchio progetto che avevo con Silvia Gadina, Valerio Ferrari e altri musicisti, si sono sciolti; questo perché avevo comunque in canna dei pezzi per la prima volta composti interamente da me, essendomi occupato di batteria, basso e chitarre. Blut è nato di fatto come sfogo, perché mi dava noia lasciare quel materiale lì ad ammuffire e, quindi, ho detto ciao, prendo un po’ di persone, lo faccio diventare qualcosa di concreto. All’inizio, brutalmente, doveva essere una one man band da studio e da un album solo. E invece, durante le registrazioni del primo disco, stavo già scrivendo anche roba per il secondo. Con chi mi stava dando una mano allora, dunque, abbiamo deciso di coinvolgere altra gente tra i miei e i suoi amici e si tirò su, diciamo così, il primo scheletro di Blut come gruppo. C’ero io per quasi tutto, c’erano le due voci femminili Marika Vanni e Silvia Sciacca, c’era Davide Rigamonti alle chitarre, mentre il basso ce lo siamo divisi il sottoscritto e Giulio Capone. Abbiamo pubblicato il debutto, “Inside My Mind Pt. I”, in autoproduzione. Frattanto, recuperiamo un po’ di chiarezza. Alcuni affermarono che non potevano più essere parte della band. Matteo Colautti, che mi diede le registrazioni di batteria di alcune parti del primo album e di due canzoni del secondo, mi disse: “Guarda, io sto per diventare padre, non so quanto impegno dovrò dedicare alla paternità, quindi non voglio toglierti tempo”. Nel frattempo entrano altre persone e così esce il nostro secondo lavoro, “Inside My Mind Pt. II”. Cominciamo a fare un po’ di date live, poi, in mezzo, c’è stato un “Insight Your Mind”, che era un album di remix electro-dark, con alcune canzoni tratte dall’esordio e altre dal full-length successivo. Nel frattempo, stavo mettendo in piedi “Hermeneutics”, il nostro terzo LP. Nel mezzo, come nelle migliori favole, spariscono tutti, chi per un motivo, chi per un altro, e io mi ritrovo, alla fine del 2018, completamente da solo. Mi sento con Stefano Corona, che era un amico di vecchia data e con cui volevo dare già ai tempi una sferzata più elettronica al progetto Blut e intanto, magie delle magie, mi spunta Chiara Manese, ma non in mezzo ai piedi tipo fungo. All’epoca, infatti, chiamai Eleonora dei Deathless Legacy e gli faccio: “Ele, ho bisogno di una voce femminile, mi dai un nome?”. E lei mi fa: “Guarda, c’è Chiara, è toscana ma vive nella zona della Lomellina. In questo periodo, è facile che riusciate anche a vedervi”. Quindi, verso la fine del 2018, ci incontriamo. Lo ammetto, non ne avevo mai sentito parlare, ma avevo saputo da Eleonora che si trattava di una cantante lirica. Ci incontriamo, ci si parla, si chiariscono un paio di cose e Chiara diventa della partita. Dopo l’incontro con lei, vado a cercarmi i Kantica, perché Chiara mi aveva detto che cantava con loro. Effettivamente, mi diceva qualcosa come nome, l’avevo visto in diversi poster di serate, ma non li avevo mai sentiti. Poi, abbiamo avuto un incontro né bello né brutto, diciamola così, con un chitarrista della zona comasca, che mi ha dato, sulla carta, una mano per ri-arrangiare i brani. Di fatto, se vedo le partiture che ho fatto prima degli arrangiamenti e dopo, non c’era molto di differente. Iniziamo le registrazioni di “Hermeneutics” e pronti, attenti, via, il 24 gennaio 2020 teniamo il nostro ultimo live con quella formazione, ovvero io, Chiara, Stefano Corona e Marco Borghi. In quell’occasione facciamo anche sentire quattro, cinque pezzi del nuovo album e una settimana dopo tutti in casa causa COVID-19.
La fortuna non vi ha aiutato, direi.
Alessandro: Sì, tant’è che il release party di “Hermeneutics” lo abbiamo fatto via Facebook, tra l’altro con dei problemi con il social network stesso, perché, a un certo punto della diretta, ci bloccava l’audio. Era indubbio il fatto che stessimo mandando musica che non fosse di nostra proprietà, quindi abbiamo vinto questa bellissima incularella aggiuntiva e, nel frattempo, siamo andati avanti per un pezzo. Borghi ci ha lasciato, è subentrato Antonino Sidoti e, nel 2021, abbiamo pubblicato “Samonion’ Night”, che era, un po’ come “Insight Your Mind”, un album di remix e roba elettronica. In alcuni casi, c’erano persone che avevamo già avuto nel primo album di remix, vedi Emmiremus, l’ex tastierista dei Deathless Legacy, e Frater Orion, ovvero Andrea Falaschi, sempre degli stessi Deathless Legacy. Invece altri sono cambiati, come, a esempio, Richard Aevum degli Aevum. Poi, siamo arrivati allegramente con “Traum”, con un passaggio in un festival molto interessante che è stato il Dark Malta del 2022, che ci ha dato un buon feeling per quella che è l’attuale line-up, formata da me, Chiara alla voce, Antonino alla chitarra, Bruno Tortora al basso e Stefano Morelli alla batteria.
Una line-up finalmente stabile, dopo anni di tribolazione …
Alessandro: Sì, perché poi si finisce con il passare a essere come Jeff Waters degli Annihilator, che non fa mai due album di fila con la stessa line-up.
Chiara, qual è stata la tua reazione di fronte alla richiesta di Alessandro di entrare a far parte della band? Li conoscevi già?
Chiara: No, non li conoscevo. Poi ho scoperto che con Alessandro ci si conosceva, ma sotto un altro nome. Sarebbe una storia troppo lunga da raccontare. Comunque, Ale mi ha scritto su Facebook dicendo che cercava una voce per Blut e io dissi: “Senti, avete un video su YouTube o un link da mandarmi?”. Mi manda il link e io sentivo una voce simil growl, sporca, che poi ho scoperto era quella di Ale. Io gli dissi: “Guarda, scusa, ma io non canto in growl”. E lui mi ha risposto: “No, ma questo sono io, noi cerchiamo una voce femminile melodica”. Quindi il tutto era partito subito con un grande fraintendimento. Pensavo cercassero una pseudo Angela Gossow, invece assolutamente no, ma non avevo capito che fosse lui il cantante. Fantastico.
Alessandro: So mimetizzarmi bene (ride, nd.r.).
Chiara: No, è che non capivo, ci sta. Poi il progetto, comunque, mi piaceva, appunto ascoltando quelle che poi erano le canzoni vecchie. È anche vero, però, che quando sono entrata, negli album realizzati, “Hermeneutics” e “Traum”, il genere è cambiato notevolmente. Ripeto, anche quello che facevano nei vecchi dischi, con i quali mi sono avvicinata a Blut, mi attirava. Non avevo mai avuto una band di stile industrial, quindi per me era una cosa nuova e mi faceva piacere, perché in passato avevo avuto band power, symphonic, progressive, metalcore, di tutto, insomma, tranne che quel genere lì. E, siccome a me piace molto sperimentare, allora ho detto a me stessa di provare ed è andata bene. Benché “Hermeneutics” sia stato soddisfacente, ma anche molto sperimentale, su “Traum” mi sono espressa molto meglio, almeno quello per quanto riguarda la mia resa personale.
Pare che abbiate trovato solidità anche per quanto riguarda la vostra nuova etichetta, la greco-rumena Sleazy Rider SRL. Anche in questo caso si è trattato di una svolta positiva?
Alessandro: Sì, formalmente greci, ma si sono trasferiti come attività in Romania. Guarda, io parlo per me. Ho avuto una situazione abbastanza spiacevole con più di un’etichetta, sia attualmente che in passato. La cosa raccapricciante è che, come ho già detto durante un’altra intervista, a quanto pare il ghosting che si fa con l’innamorata, l’innamorato, l’amante, la moglie, il marito, è diventato il metodo normale di trattazione del prossimo da parte anche delle label. Quindi, etichette che ti chiedono di ascoltare il master perché ti cercano loro, poi glielo mandi e spariscono nel nulla. Non è questione di una sola etichetta, non lo fanno soltanto quelle italiane e non sono casi sporadici, ma si tratta di un meccanismo perverso. È abbastanza imbarazzante e vergognoso il fatto di promettere mari e monti e poi vai a vedere cosa c’è nel canale di scolo. Ti garantiscono la qualunque e poi, quando leggi bene il contratto, questa garanzia non c’è più, è una garanzia soltanto in virtù di alcune specifiche clausole.
Magari clausole scritte in minuscolo invisibile?
Alessandro: Guarda, io quello lo dico con un fare veramente da vecchio dentro, perché non nego che circa una quindicina di anni fa mi era venuta la voglia di metter in piedi un’etichetta e mi ero fatto dare un paio di dritte da Sandro Capone che, insieme al fratello Giulio, per un periodo di tempo hanno avuto una label. E lui mi disse: “Guarda, la prima cosa che ti consiglio di fare per aprire un’etichetta è non aprirla. Poi, ricordati sempre che in un contratto discografico l’inculata è bella lì, visibile, nemmeno nascosta”. Ho lasciato perdere.
Arguisco, dunque, che Sleazy sia stata onesta.
Alessandro: Quantomeno ha detto: “Ti posso dare dieci, ti do dieci”. Questo per ora è, non posso dire né che si sia comportata male né che si sia comportata bene. A tutt’oggi, ha fatto un qualche cosa di onesto, nel senso ha rispettato i patti stabiliti e per quanto concerne le due, tre clausole che aveva messo e che non ci sembravano molto simpatiche, abbiamo chiesto cortesemente di toglierle o di chiarirle in altro modo. Sono stati coerenti e lo hanno fatto.
Passiamo, ora, al nuovo disco “Traum”. Ascoltando le liriche ed esaminando con attenzione cover e booklet, emergono forti sia la tematica junghiana, base concettuale dell’album, sia un grande lavoro di ricerca artistica per ciò che riguarda il lato prettamente estetico. Cosa potete dirci al riguardo?
Chiara: Sì, praticamente è andata in questa maniera. Dal momento che il tema fulcro dell’album è il sogno visto da un punto di vista junghiano, c’è stata tutta una ricerca sulla produzione di Carl Gustav Jung stesso. Abbiamo cercato di andare a pescare, dunque, delle immagini di opere d’arte pittoriche che avessero a che fare con il sogno, alcune più famose, altre meno, e di riprodurle fotograficamente utilizzando i nostri corpi al posto dei personaggi o degli oggetti o degli animali che sono presenti all’interno di queste tele. È stato un lavoro faticoso, ma è stato anche molto divertente. È quella cosa creativa che ti impegna, però è anche simpatica. Ci siamo trovati in uno studio fotografico, abbiamo ricreato quegli stessi movimenti, quelle stesse sensazioni. Poi c’è stata una grande e ottima foto-manipolazione da parte del nostro retoucher Stefano Longo, perché noi abbiamo avuto sia questa figura professionale sia il fotografo Nicolas Giordano. Stefano ha anche creato tutti i fondali al computer, perché noi avevamo semplicemente uno studio con dei pannelli neri. Personalmente, non so quante persone del pubblico abbiano capito il significato dell’operazione, però fondamentalmente non me ne frega neanche niente. Bisogna che la gente si impegni un po’ di più a spremersi le meningi e a fare le proprie ricerche, quantomeno se è curiosa. Poi, se non lo è, va bene lo stesso. Se non altro, nella particolarità quasi cervellotica del nostro booklet, non abbiamo proposto i soliti draghi e spade che purtroppo si vedono ancora oggi, nel 2023. Perché passi che c’erano nel 1996, benché anche allora mi facessero cagare, ma oggi è assurdo. Tra le due cose, sinceramente, meglio avere una cosa originale, anche con il dubbio che non possa essere compresa e apprezzata.
Chi si è occupato dei testi nello specifico?
Chiara: Allora, i testi, sia in tedesco che in inglese, li ha scritti la stessa persona che ci ha scattato le foto, ovvero Nicolas, che, tra l’altro, si è occupato delle liriche di tanti cantanti e band. Le informazioni riguardo i temi delle canzoni gli sono state date dal nostro chitarrista Antonino, che è uno psicologo. C’è una canzone che riguarda l’incubo, una che riguarda il sogno erotico, un’altra che riguarda il sogno della premonizione, perché, appunto, ogni sogno è diverso, ne abbiamo tante tipologie e devo dire che le liriche di Nicolas sono davvero belle.
A questo proposito, è stato difficile cantare in tedesco, lingua, credo, a te ignota?
Chiara: Non è stato semplice. Per quanto riguarda il mio lavoro in ambito lirico, ho cantato opere in italiano, opere in francese dell’Opéra-comique, mentre in tedesco c’è stato qualcosa di Wagner, qualche lied di Schumann, qualche altro di Schubert, ma pochissimo altro e, quindi, mi ha dovuto veramente dare una mano Ale. Lui mi ha aiutato proprio lì in studio e anche nelle produzioni, era un po’ una pronuncia che alla fine andava anche bene, per carità, però diciamo che adesso il mio tedesco è molto più fluido. Anche perché, dopo il lavoro in studio, ho approfondito meglio per conto mio la pronuncia e quindi, ora, mi sento molto più a mio agio.
Rispetto a “Hermeneutics”, concept album sui tarocchi molto articolato e ricco di contrasti sonori finanche stridenti, “Traum”, benché conservi una certa complessità di fondo, appare più coeso e compatto nei suoi vari aspetti. Condividete questa impressione?
Alessandro: In “Hermeneutics” c’era l’intenzione, quanto meno la mia, di dare un’anima sonora a ogni tarocco, quindi con oneri e onori di fare dei cambi mostruosi tra un genere e l’altro. In questo caso, dal momento che abbiamo lavorato come band, c’è stata una minor invasività della mia malattia mentale sul pentagramma. Io ho composto una serie di brani. Antonino ne aveva degli altri, anche Bruno, il bassista, ne aveva portati alcuni all’ascolto di gruppo. Abbiamo deciso quali mettere e quali no, cosa aggiungere e cosa togliere già durante le fasi di ascolto, con una maggiore facilità di gestione per me, per Chiara, per chi canta cosa, dove e in che modo. Quindi, rispetto al passato in cui io facevo tutto e presentavo il lavoro già fatto, qui c’è stato proprio un lavoro di analisi dall’inizio alla fine e di intreccio delle diverse anime che ci sono in Blut. Chiaramente, l’album sembra più coeso. Un’altra cosa che ci siamo detti io e Antonino era di farlo uscire diretto, quadrato come una mattonella, bello compatto e via. E questo, tutto sommato, penso che si sia sentito.
Difficile dire a quale genere possa appartenere il disco, come da tradizione Blut, s’intende. Industrial, gothic metal, darkwave, addirittura sfumature progressive se penso a “Wie Geht Es Dir (Traum)”. Allorché siate obbligati a scegliere un brano rappresentativo dell’album, per quale optereste? E perché?
Alessandro: Io ho un trittico che considero l’anima dell’album, ovvero “Auspizium”, “Schatten” e “Wrong Soul”, perché hanno tutte e tre una malinconia particolare. Tra l’altro “Schatten” l’ho messa, ma se la gioca i punti con “Du Bist Nicht Da”. Pure in questo caso, c’è un discorso di malinconia nella canzone che mi è molto personale, anche con la doppiezza della mia voce sporca e quella di Chiara che entra a gamba tesa e che spezza in senso opposto. In “Du Bist Nicht Da, il fatto che io entri ruttando nel microfono, spiazza tantissimo, la maggior parte della gente non se l’aspetta e questo fa effetto.
Chiara: Per quanto mi riguarda, direi sicuramente “Seele”, una canzone bellissima come tema, ma anche come intreccio strumentale e che mi dà un grande spazio vocale, nel senso che posso spaziare veramente con un sacco di effetti e colori vocali tra le strofe, i ritornelli e lo special. C’è un assolo di chitarra fatto veramente da Dio e secondo me è una delle canzoni più belle della tracklist, anzi, per me è la più bella.
Altro aspetto interessante riguarda il lavoro vocale e il grande miglioramento tecnico e d’intesa raggiunto in “Traum”. In particolare, Alessandro, mi ha colpito molto la rotondità del tuo timbro e le diversi sfumature interpretative che riesci a conferire ai brani. Hai cambiato qualcosa nel tuo approccio al microfono?
Alessandro: L’altra settimana Maurizio Mazzarella di Giornale Metal, testata per cui scrivo, mentre mi intervistava mi ha detto: “Si sente che eri più incazzato mentre cantavi”. Lui sente una rabbia nella mia voce maggiore rispetto agli altri album, tu più rotondità. Fermo restando che nel mezzo, ovviamente, c’è stata un’evoluzione mia personale, grazie anche alla mia insegnante di canto che mi ha dato alcune dritte, per cui, come qualcuno ha detto, quando vai a scuola impari. Nessuno è nato imparato. Ho potuto alleggerire parecchia tensione rispetto al passato. Poi, quando abbiamo registrato, Chiara, mentre stavo io dall’altra parte della vetrata, mi dava le indicazioni e mi ha aiutato tantissimo. Quindi, probabilmente, questa cosa si è sentita un po’ di più e si è sentita meglio rispetto al passato. Ben venga. Poi, c’è anche da dire che, se in “Hermeneutics” abbiamo dovuto un attimino più rimaneggiare le voci, questa volta le abbiamo registrate direttamente nei Real Sound Studio, con strumentazione più come si deve e soprattutto con un signore ingegnere del suono dietro al mixer, ovvero Ettore Franco Gilardoni.
Chiara, per te, invece, cosa significa ogni volta adattare la tua impostazione lirica a un mondo musicale completamente altro?
Chiara: Allora, io è più o meno vent’anni che faccio metal e vent’anni che faccio lirica per lavoro. Diciamo che, quando ho iniziato, l’unica tecnica vocale che conoscevo era quella lirica e, quindi, usavo soltanto quella. Poi, negli anni, per conto mio, ho studiato anche la tecnica vocale moderna e c’è voluto del tempo per imparare e anche per creare le sfumature nel passaggio tra una tecnica e l’altra all’interno di una stessa canzone, perché ti posso dire che non è per niente facile. Infatti, la maggior parte dei cantanti lirici non riesce proprio, non ce la fa, ma non perché sono stupidi, non ce la fa con le corde vocali. Io, infatti, ci ho messo un botto di tempo ad arrivare a ora, che me la palleggio abbastanza bene. Penso di destreggiarmi abbastanza e se ripenso ai vecchi album che ho fatto con altri gruppi, nei quali avevo iniziato a fare un pareggiamento fra le due tecniche, e penso a quello che è “Traum”, ovviamente non c’è paragone. Il problema è stato la parte pop melodica, ma negli anni, niente, mi sono impegnata, mi sono fatta il culo e oggi sono abbastanza contenta.
Alessandro: C’è chi fa il lirico sapendo il lirico e c’è chi fa il lirico facendo finta …
Chiara: Ora va di moda il finto lirico. E non lo nascondono neanche. Ci sono state addirittura delle persone che hanno detto che la vera voce lirica nel metal è troppo e che il finto lirico è meglio. Cioè, siamo arrivati a questi livelli. Ad Alessandro, poi, in privata sede dirò chi è stato. Rimaniamo sull’anonimato, comunque.
Alessandro: Meglio l’anonimato. Visto lo standard medio mentale di certe persone, sono brutalmente prevedibili nelle reazioni.
A proposito dell’impossibilità di ingabbiare “Traum” in un genere preciso e alla densità concettuale di un disco comunque piuttosto orecchiabile dal punto di vista sonoro, credi che il pubblico italiano sia pronto a sfidare sé stesso nel tentativo di avvicinarsi a una musica davvero alternativa?
Alessandro: Personalmente ne dubito, perché il modus operandi di Blut dagli inizia a oggi è quello di una ricerca artistica un po’ particolare, ovvero il tentativo di innovare e quanto più possibile evitare di ripercorrere in maniera veramente vergognosa e a pappagallo la strada fatta da qualcun altro. Ma il problema più grosso, e anche qui parlo a livello puramente personale, è che vedo che in questo periodo storico lo standard è portare nel metal un qualcosa che negli anni ‘90 era già vecchio. Sempre senza fare nomi, senza dover dire questo, quello e quell’altro e additare, se guardi soltanto la parte puramente tecnica di missaggio e di mastering, ti accorgi che, nel metal che tira in Italia, riscontri le metodologie del pop e della dance pop anni ‘90, quindi con gli strumenti a un livello, la voce a sei, sette, otto, dieci metri più avanti, possibilmente femminile, ma non necessariamente, e con testi del tipo: “Pucci pucci pasticcino, andrà tutto bene. Anche se adesso c’è il nuvolo, tanto arriverà l’arcobaleno, verranno fuori i fiorellini, verrà fuori il sole da cui uscirà la locomotiva che fa ciuf ciuf con gli sbuffi rosa”.
Chiara: E con i draghi e le spade che dicevo io prima.
Alessandro: Giusto, avevo dimenticato. Ed è triste. Va bene tutto, capisco tutto. Però, se il metal era nato ai tempi come reazione a un uno standard che non era più piacevole, che era diventato un qualcosa di noioso, il vedere adesso che è diventato un conformarsi a quello che era il pop di vent’anni fa e spacciarlo per una novità, quando addirittura nemmeno nel pop si fa più quel mixaggio e quel mastering, ebbene, è imbarazzante. Fermo restando che se vai nell’estremo hai ancora la tua linea sonora che è una mattonella, un regolo che va sopra e sotto alla stessa maniera, non c’è dinamica, non c’è sfumatura, non c’è nulla, ma è una mitraglia che più volume c’è, meglio è. Sono cose già viste e già sentite, ma già viste e già sentite venti, trenta, trentacinque anni fa. E spacciarmele per novità semplicemente perché Mario Rossi o Gino Bianco trent’anni fa non esistevano e non sapevano cosa è successo allora, non ti fa la differenza. Mi stai riproponendo roba vecchia, vecchissima, stravecchia, smerciandola per nuova. Se fai roba vecchia perché hai deciso di fare roba in stile anni ’70 è un conto, ovviamente. In ogni caso, dubito fortemente che saremo particolarmente apprezzati dall’uditore medio. Poi, magari, spero vivamente di sbagliarmi, ma ultimamente, ogni tanto, lancio un occhio agli ascolti su Spotify e vedo che stanno aumentando di più le nazioni estere che ci ascoltano rispetto al bacino italiano, a livello puramente di numeri totali, beninteso. Penso che al di là delle Alpi, nell’Europa mediterranea e in America ci possano apprezzare più facilmente che non in Italia.
Alessandro, tu sei uno dei fondatori di Steampunk Italia e credo che i Blut, nel nostro paese, siano uno dei pochissimi esempi, sia a livello musicale che scenico, legato a questa particolare forma di fantascienza. Cosa puoi dirci in merito a questa passione, anche se in “Traum” tale aspetto appaia molto meno prevalente?
Alessandro: Beh, sì, ci sono state, che io sappia, almeno altre due realtà, ovvero gli Echotime, che lo avevano fatto soltanto a livello di immagini e non anche di palco, e i Poison Garden, che, invece hanno unito entrambi gli aspetti, anche se onestamente, li ho perso un po’ di vista. Poi, per altri esempi, devi recarti all’estero. Per quanto riguarda lo stempunk, si tratta di una fantascienza positivista, visto che l’ambientazione risale al periodo vittoriano, con la scienza che aiuta a risolvere molte cose e che dà una spinta a provare e sperimentare. Per me, con un album come “Hermeneutics” ci stava a pennello il mettere insieme dei personaggi a partire dalla band, è stato naturale, come è stato naturale fare l’accostamento con La Lega degli Straordinari Gentlemen di Alan Moore, e quindi vai che si va.
Chiara, tu conoscevi questo particolare universo prima di entrare nei Blut?
Chiara: Io non ne sapevo niente prima, ma proprio non sapevo nulla, non sapevo neanche il significato della parola. È stato carino, cioè mi è piaciuto, ho accolto bene la cosa. Diciamo che attualmente, con “Traum” e con gli ultimi live, abbiamo perso leggermente quella vena, perché è cambiato anche il discorso intorno, ma l’atmosfera steampunk, in generale, a me piace, è carina. Ho letto, poi, anche i libri di Ale e direi che è tutto molto affascinante
Alessandro, oltre che musicista e scrittore, lavori, come hai detto poc’anzi, anche per la rivista online Giornale Metal, un’attività che hai intrapreso anni fa all’interno di numerose webzine. Quale bilancio puoi tracciare in merito a qualità e obiettività di recensioni, articoli e via dicendo?
Alessandro: Ci sono delle situazioni che ho potuto notare di persone che non hanno né arte né parte, ma il gioco di andare contro il boomer della situazione è sempre di moda. Tu, che mi parli dei grandi anni ’80, hai 18 anni, come fai a parlarmi di un periodo che non hai vissuto giusto per dire che io sono vecchio? Gli anni ‘80 io me li son fatti tutti, mi sono fatto anche gli anni ’90, e ti posso dire quanto erano belli, ma con la coscienza di sapere che c’erano anche tutta una serie di cose altrettanto raccapriccianti dietro, perché non è tutto oro ciò che luccica. Ho ancora in testa un soggetto che una volta, circa dieci anni fa, mi disse. “Faccio una novità: mischio il rap con il metal”. Ma lo facevano già i Faith No More, i Rage Against The Machine, i Biohazard, i Body Count! Dai, su, un po’ di serietà, va bene raccontarsi la qualunque, ma fino a un certo punto. Poi, non è che chi scrive recensioni debba essere per forza un musicista, ma quando mi entri nel discorso di songwriting, missaggio, mastering, come hanno fatto le takes, o sei un ingegnere del suono o un fonico da live o, appunto, un musicista, altrimenti me la stai raccontando senza contezza delle cose. Ho visto delle recensioni, non soltanto dei lavori di Blut, beninteso, nelle quali in venti righe viene riassunto un album da un’ora: una cosa impossibile, e questo significa che o non l’hai ascoltato o non hai il vocabolario adatto per scrivere qualcosa di sensato. Faccio dei corsi da allievo della comunicazione e molti docenti ti dicono di non scrivere più di cinquecento parole, altrimenti l’utente medio in rete non mi legge. È preoccupante, dal mio punto di vista, quindi, per forza di cose, da un lato c’è una carenza di qualità di chi scrive, dall’altra c’è una carenza di attenzione di chi legge. Il problema di base è un altro, è il fatto che se ti devo fare la mappa cognitiva anche per leggere una recensione o per leggere un’intervista stiamo inguaiati, ma veramente inguaiati.
È un po’ presto per parlare di un vostro nuovo album, ma vista la presenza di una cantante lirica di professione come Chiara, non potreste buttarvi su qualche riduzione di un’opera wagneriana? Quale scegliereste? Sarebbe oltremodo interessante …
Alessandro: La risposta più semplice sarebbe L’anello dei Nibelunghi. Giochi l’asso di briscola con quest’opera, però non riuscirei a fare un lavoro del genere, devo ammetterlo, con tutta la pazzia che potrei avere. Non ho quel livello di arroganza, perché sotto quell’aspetto lì io mi fermo.
Chiara: Significherebbe, forse, de-sacralizzare Wagner.
Alessandro: Sì. Chiamiamola paura, anzi, forse decenza. In questo momento, comunque, ho messo giù un paio di batterie e un paio di linee di basso, devo raffinare un attimino. Antonino mi aveva detto che addirittura lui aveva già sette bozze pronte. In questo momento, lui è molto più prolifico di me, lo ammetto, perché, dopo otto anni di vari racconti, romanzi e album, ho sì ricominciato a scrivere, ma sono un po’ fiacco. Speriamo di riuscire a mettere mano, a breve, alle bozze di Antonino e vediamo cosa vien fuori per il prossimo futuro.
Per quanto concerne le prossime date live, qual è la situazione in casa Blut?
Chiara: Avremo una data live a novembre e un’altra a dicembre, per il prossimo anno vediamo, visto che siamo in cerca di qualcuno che ci possa rappresentare come booking. Senza, è impossibile muoversi.
Alessandro: Aggiungo semplicemente che noi, a tutt’oggi, siamo ancora con la Hades Management, ma, per una serie di situazioni tutt’altro che simpatiche e al di fuori della relazione che noi abbiamo con il proprietario della stessa, lui ha deciso di chiudere parzialmente l’agenzia di booking. Attualmente, gestisce soltanto alcune band di Malta, semplicemente perché, avendo anche lui un locale, può gestire meglio il cosiddetto scambio date, che sta diventando un leitmotiv sia per gli organizzatori di eventi sia per i proprietari di locali. Quello che noi abbiamo vissuto prima di incontrarlo e, quindi, la serie di ghosting che ti dicevo prima con le etichette, è fatta anche dai locali e dai promoter. Insomma, c’è stata questa situazione non molto simpatica, lui ci sta seguendo per le ultime fasi, sta cercando addirittura di darci una mano per il nuovo management, ma anche sotto quel frangente silenzio di tomba da parte di molti e lui stesso mi dice “Per fortuna che si dichiaravano amici miei, Pensa se non lo fossero stati”.
Pensi che queste difficoltà siano dei residui della crisi post-pandemica o che quest’ultima ormai si configuri più come scusante che effettiva realtà?
Alessandro: In alcuni casi lo hanno utilizzato come scusa, in altri no, quantomeno per l’Italia. In Germania, da cui ho ricevuto alcuni riscontri, tutte le piccole agenzie e i relativi voucher sono spariti, perché c’è una norma tedesca per la quale, se non vai al concerto di x o y, hai novanta giorni di tempo per dimostrare di avere il biglietto ancora inutilizzato e per richiedere indietro i soldi. Di conseguenza, tanti di questi dicono: “Se devo aspettare di avere i miei soldi dopo tre mesi che ho fatto un concerto, non ne vale più la pena”. Quindi chiudono. In altri casi, qui in Italia, ci sono state una serie di richieste di procedure burocratiche che sono state utilizzate da alcuni soggetti della pubblica amministrazione che vedevano già di malocchio certi eventi e concerti, mettendosi proprio di traverso, chiedendo nuove norme molto più restrittive rispetto al passato. Non a caso, noi abbiamo suonato quest’estate al Rock In Somma perché l’anno scorso la nostra presenza, auna settimana dell’evento, è saltata per una questione di burocrazia, visto che avevano preteso una determinata serie di documenti, andando sin troppo a cavillare. Operazione tutt’altro che simpatica e allegra. Poi, ripeto, ci sono quelli che con la scusa della pandemia, fanno risuonare quelli che l’anno prima non avevano potuto. E lecito e comprensibile. Un po’ meno quando vedi soggetti che non erano nei vecchi bill e che hanno suonato lo stesso. Insomma, la cosa diventa un po’ strana …
Ragazzi, grazie mille per l’intervista. Vorreste lasciare un messaggio ai lettori di SpazioRock e ai fan dei Blut sparsi per l’Italia?
Alessandro: Invito tutti i lettori di SpazioRock ad ascoltarci su Spotify , YouTube, Apple Music, di contattare noi e l’etichetta per comprare i nostri dischi, di venirci a vedere live il prossimo 4 novembre al Dedolor di Rovellasca in provincia di Como e l’8 dicembre sempre in Lombardia, ma per ora questa è una data ancora in sospeso. Se avete voglia brutalmente di averci nelle vostre città, non esitate a contattarci!
Chiara: Ciao ciao.