Photo credits: Athos Burez

Ok, scrivere un album sulla fine di una relazione è un po’ un cliché, dice J. Bernardt, ma durante la nostra conversazione concludiamo anche che i cliché, alla fine, sono una forma di saggezza popolare e che iniziare a comprenderli e ad apprezzarli significa in qualche modo diventare adulti, smettere di ribellarsi. “Contigo” – poi ci spiegherà anche il perché dello spagnolo – è la personale storia di Jinte Deprez e della fine della sua relazione di cui racconta ogni fase: un lavoro che trova e regala le parole per descrivere tutte le sfumature dell’esperienza della relazione e della rottura, dal “con te” (“Contigo”) alla separazione, alla liberazione.

Ciao Jinte, è un piacere averti di nuovo su SpazioRock! Come stai? Gli ultimi anni mi sembrano stati molto pieni tra i Balthazar e il tuo secondo album solista “Contigo”, che è uscito da pochissimo. 

Sì, mi piace molto fare cose diverse. Quando inizi a suonare in una band, dopo un paio di album ai quali lavori tutti insieme non capisci più dov’è il confine tra te stesso e la band. Credo che avere un progetto solista sia un bel modo di rimanere in contatto con se stessi come musicisti e autori. L’argomento di questo album poi è estremamente personale, ed è in questi casi che è ancora più bello avere un progetto solista, perchè avevo davvero bisogno di scrivere un album intero sulla mia disperazione (sorride, ndr). Sono situazioni in cui non vuoi dover spiegare queste cose a qualcun altro, arrivare a dei compromessi. Avevo davvero bisogno di scrivere questo album. È davvero un privilegio avere la possibilità di fare musica da solo, ma di avere anche la band quando, a un certo punto, ci stanchiamo dei nostri ego (ride, ndr).

Facciamo un passo indietro a “Running Days”, album meraviglioso che hai pubblicato nel 2017. Musicalmente è lontanissimo da “Contigo”. Come sei arrivato a queste ultime sonorità? 

Avevo bisogno di connettermi a un altro lato di me stesso con questo album. Ma al tempo di “Running Days”, sai, avevo già scritto tre album indie con i Balthazar, più spinti a livello sonoro. Volevo dimostrare a me stesso di essere in grado di fare qualcosa di completamente diverso, quindi ho messo da parte tutto ciò che usavo e che facevo normalmente, in termini di strumenti e approccio alla produzione. Ho messo da parte il violino e il basso e mi sono comprato dei sintetizzatori. Volevo proprio fare quel disco nel modo in cui si facevano in quel momento, ovvero da soli al computer. Era una risposta a ciò che avevo fatto fino a quel punto, poi avevo appena compiuto 30 anni, volevo sentirmi adulto, forte e produrre un po’ di musica elettronica (ride, ndr). Con il tempo il mio gusto musicale è diventato un po’ più analogico e romantico, quindi ho iniziato a sentire la mancanza della mia chitarra e di tutti gli altri strumenti che uso normalmente. Con questo album, anche per l’argomento e il modo in cui ne canto, non volevo reinventarmi o sorprendermi né mettermi alla prova.
Avevo davvero bisogno di un ambiente che mi facesse sentire al sicuro, e l’album è come se fosse un’unica colonna sonora che mi rappresenta come musicista. Contiene molti sentimenti diversi. Io nasco come violinista e volevo includere anche quella parte di me stesso. Non volevo nemmeno esprimere rabbia o dimostrare di essere forte nei confronti della fine della relazione che stavo vivendo.
Volevo provare a guardare al lato positivo della cosa. La differenza rispetto all’album precedente è che invece di fare qualcosa che fosse una reazione a quello che avevo fatto prima, è più una valutazione di chi sono io oggi. Questo non significa che non mi piace più la musica elettronica, semplicemente non era adatta a raccontare questa storia. Non è stato facile raccontare cose così personali, ma la musica mi ha aiutato, è stata come una colonna sonora sulla quale ho potuto cantare la mia storia.

Artwork J. Bernardt Contigo 3000px

Sembra davvero di guardare un film. Anche il finale, “Free”…

Titoli di coda!

È davvero evocativo come album. Ascoltandolo riesci davvero a costruire immaginari, emozioni.

Sì, credo la musica serva a questo. Abbiamo bisogno di un altro linguaggio per spiegare cosa sta succedendo, dare un senso al caos, al paradosso di tutto ciò che sentiamo. Non è stata una scelta quella di scrivere questo album, avevo davvero la necessità di portarlo fuori da me, ed è bello che tu abbia detto questo, perchè questo è il motivo per cui faccio musica, per spiegare in un modo diverso quello che succede.

Ma perchè lo spagnolo?

Intendi perchè non l’italiano? (ride, ndr) La risposta è abbastanza banale: è perché sto studiando spagnolo e sono stato spesso in Spagna durante la scrittura dell’album, quindi in un modo o nell’altro è finito all’interno dei testi, soprattutto nei cori “Contigo!”. Sai, è un album che parla della fine di una relazione, ma io ne canto il lato positivo, parlo di tutto quello che è stato “con te”, insieme. Quando ho dovuto scegliere un titolo per il disco ho pensato che fosse già lì, aveva senso, perché di fatto canto dei monologhi alla mia ex che parlano del tempo che abbiamo passato insieme.  

Come si sono sviluppati i due processi, quello di scrittura dell’album e quello dell’elaborazione della fine della relazione?

Di pari passo. Quando ho dovuto postare l’annuncio di uscita del disco l’ho descritto proprio come un passaggio dal caos puro a un disco di 40 minuti nel giro di due anni. Ed è proprio così. È stata pura crisi, caos e confusione, e ho usato la musica per cercare di far assumere un senso alle cose. A volte era la musica a mantenermi lucido, altre volte dovevo rimanere lucido per riuscire a scrivere la musica. Ho iniziato con “Matter of Time”, che è uno strano modo di iniziare, ma ha senso perché parla dello stare in una relazione. È stato abbastanza cronologico in realtà. “Mayday Call” invece parla proprio del giorno dopo, quando sei nel panico totale. Ho deciso di dare ad ogni emozione una canzone, per validarle. 
“Left Bathroom Sink”, per esempio, parla proprio di quel momento in cui tu ami ancora quella persona, ma devi lasciarla andare. Lo sai, ma non riesci. Allora ho scritto questa canzone a me stesso, che dice “I need to step away from you”. Mi ci è voluto molto tempo per riuscire a cantarla. È stato un processo interessante perchè io stavo vivendo tutta quella situazione personalmente, e il me musicista si ispirava alla propria vita, cercando allo stesso di aiutarmi a uscirne. Aveva tutto uno scopo terapeutico. 

C’è stata una parte particolarmente difficile da raccontare e da cantare?

Sì, allora, le parti più semplici da scrivere sono state quelle in cui ero calmo, in accettazione. Ma, per esempio, l’ultima canzone parla del paradosso, del fatto che sei distrutto, ma scegli di essere positivo e di pensare alle cose belle. “Left Bathroom Sink” è stata la più difficile da scrivere, perché è davvero sincera. Parla di quelle cose piccole e stupide, come del fatto che non ti immagini che a un certo punto quel lavandino in bagno sarà vuoto. Sono quelle piccole cose quelle che fanno più male. Quando scrivi canzoni su questi argomenti tendi sempre a renderle più romantiche, più drammatiche, a gonfiarle. Ma poi ti rendi conto che la cosa che ti fa più male è vedere quel piccolo lavandino in bagno che ora è svuotato delle cose che c’erano prima sopra. E non ti capaciti di come si sia arrivati a quel punto.

Come ti senti ora che l’album è finito, completo e là fuori nel mondo, riguardandoti indietro?

Penso “Oh merda, che cavolo ho fatto!” (ride, ndr). No, a parte gli scherzi, non ci ho pensato mentre lo scrivevo. Ho scritto questo disco perché ne avevo bisogno. Ma è stato bello perché mi sono sentito di nuovo un cantautore. Prima di iniziare a lavorare su questo album ero in una fase un po’ di blocco e ho iniziato ad avere dei dubbi. Alla fine per 15 anni sono stato perennemente in giro e mi sono chiesto se davvero avessi ancora bisogno di tutto questo. Proprio grazie al processo di scrittura di questo disco mi sono tornato a sentirmi un cantautore, ma volevo esserlo in un modo onesto e semplicemente scrivere questo album per me stesso. Ovviamente ora devo venderlo però (ride, ndr), è comunque un prodotto. È là fuori nel mondo e la gente può comprarlo. Quando mi viene chiesto come mi sento rispetto al fatto di aver toccato temi molto personali, rispondo sempre che mi sento bene. Qualcuno mi ha scritto dicendomi quanto si rivedesse in alcune cose che racconto, e questo è loro di aiuto nel trovare le parole o i suoni giusti che diano conforto. E mi dico, se questo è l’obiettivo finale di questo disco, non posso che esserne felice. Mentre scrivevo questo disco mi sentivo disconnesso dalla musica, dai miei amici, dal mondo. Quando le persone attraversano questo tipo di situazioni si sentono allo stesso modo. Sono molto contento che ora questo album sia di tutti e che il suo scopo possa essere questo.

(c) Athos Burez JBernardt Mayday Call
(c) Athos Burez

Dal punto di vista musicale, è un disco molto suonato rispetto al precedente.

Sì, c’è molta meno programmazione.

Come hai gestito questo aspetto rispetto alla volta precedente? Avrai lavorato con altri musicisti, produttori…

Sì, volevo proprio che fosse così. Il mio primo disco è stato prodotto interamente da me, è stato un processo estremamente solitario. Mi sono occupato di tutti gli aspetti, perché volevo mettermi alla prova, dimostrare a me stesso che non avevo bisogno di nessuno. Questa volta è diverso. Sapevo che avrei potuto lavorare da solo ma, come dicevo, mi sentivo molto scollegato, volevo riconnettermi alle persone. Il modo più semplice per farlo è stato rivolgermi ai miei amici, avendo tanti amici musicisti. Ho spiegato loro cosa stessi passando e cosa volessi fare, ho chiesto loro se volessero aiutarmi. Da un punto di vista umano è qualcosa che dà molto calore, quando ti dicono “Sì, certo, sediamoci, parliamone con una birra”.
Era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Avevo bisogno di qualcuno che tenesse le redini della cosa. Tobie Speleman si è occupato della produzione, si è fatto carico di tutto ciò che non volevo fare, come tutte le cose tecniche, le chiamate, ed è stato bello. Condividi tua visione e diventa qualcosa di più grande quando ne parli con qualcuno, quando si crea una “interazione musicale”, sai come si dice, “la magia della musica” (lo dice ironicamente, ndr), ma alla fine è tutto vero. Di solito alzavo gli occhi al cielo quando sentivo la gente parlare di queste cose. Ma scopri che è vero, soprattutto quando ne hai davvero bisogno. Sono davvero grato di aver lavorato con queste persone, sono felicissimo di non aver fatto questo disco da solo, perché ho imparato tantissimo da tutti loro. Mi hanno aiutato ad affrontare quel casino che stavo vivendo. Quando ascolto questo disco quello che sento è un gruppo di persone che si vogliono bene reciprocamente. Ed è esattamente quello che volevo fare.

Hai detto: “So che un disco sulla fine di una relazione è un cliché, ma sto iniziando ad apprezzare sempre di più i cliché”. Mi sono ritrovata molto in queste parole, perché io stessa, crescendo, affacciandomi all’età adulta, mi sono resa conto di quanti cliché siano, in realtà, estremamente veri. Ci sono altri cliché, oltre a questo, che hai scoperto essere fondati?

Assolutamente. Per esempio, mi è sanguinato il naso di recente, durante la notte, su delle lenzuola bianche. Mi sono messo a cercare i “consigli della nonna”, e hanno funzionato! C’è così tanta saggezza in questo mondo. Penso che crescendo smetti semplicemente di ribellarti alle persone che in teoria ne sanno di più. Da ragazzino o adolescente cerchi di costruirti le tue verità, le tue convinzioni. Vuoi scoprire chi sei, come essere umano. Ti ribelli a qualunque cosa. Ma crescendo, capisci che sono solo un sacco di cazzate, smetti di ribellarti e inizi ad ascoltare i consigli delle persone che hai intorno. Ed è qui che i cliché diventano anche un consiglio. Quando ti ci imbatti, non li metti più in dubbio e, invece, rimetti in discussione tutte le tue convinzioni, per poi alla fine ascoltarli. Penso che i cliché siano una sorta di saggezza popolare. Perché metterla in dubbio? So che può sembrare un po’ sentimentale, ma è una linea molto sottile, e sto iniziando ad apprezzarla. Mi sembra qualcosa di molto umano. Come è umano cercare di essere fighi e alzare gli occhi al cielo quando un adulto ti dice qualcosa, ma poi cresci e sei tu ad alzare gli occhi al cielo davanti a un adolescente, pensando “vabe’, ne riparliamo tra una decina d’anni” (ride, ndr).  

Hai annunciato un tour che toccherà l’Italia il 5 dicembre al Circolo Magnolia di Milano.

Sì, abbiamo già fatto qualche data. Non è un album semplice da suonare live, ma suona benissimo, sono davvero fiero della mia band. La cosa bella è stata vedere la reazione ai brani nuovi, che era ancora più entusiasta rispetto a quella riservata ai brani del primo disco. L’ho preso come un bel complimento. Davvero, sono felicissimo di andare in tour con questo disco. C’è ancora tutta quella componente ritmica di “Running Days”, ma credo che questa volta ci sia più spazio anche per il divertimento e l’emozione. Era proprio quello che volevo per questo progetto Quando arriveremo all’Italia avremo già fatto un sacco di concerti, quindi sarà bellissimo.

Fantastico. Grazie per il tuo tempo Jinte e a presto!

Grazie a te!

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