Tra oscuri bivacchi novembrini, emergono ombre di morte, battaglie e divinità innominabili.

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Cruciamentum – Obsidian Refractions (Profound Lore Records)

Sin dalla loro fondazione nel 2017, i Cruciamentum rivestono tutt’altro che il ruolo di band prolifica, vista la pubblicazione di un unico full-length, “Charnel Passages” (2015), incastonato tra due EP, “Engulfed In Desolation” (2011) e “Paradise Envenomed” (2017). Tre lavori, specialmente e inevitabilmente il debutto sulla lunga distanza, che lasciavano presagire, per il gruppo, una carriera di “successo” in ambito death metal, mai, però, spiccata davvero, e questo a cagione di motivazioni varie, non ultimo l’impegno come produttore, presso i Resonance Sound Studio, del chitarrista ed ex cantante Daniel Lowndes. Ora, a otto anni da quell’esordio cavernoso e monoliticamente vibrante, il quartetto anglo-americano, con il microfono in mano al bassista Chris Eakes e la line-up rafforzata dalla presenza dell’axeman Dan Rochester e del batterista Matt Heffner, tornano finalmente in scena brandendo orgogliosi il nuovo album “Obsidian Refractions”. Un disco più atmosferico e raffinato del predecessore, dalla scrittura a tratti persino leggermente progressiva, nel quale, oltre alle contorsioni, alle cupezze e all’intensità dei vari Dead Congregation, Incantation, Immolation, Morbid Angel e Vader, vengono incluse certe sperimentazioni dei Death di fine percorso e dissonanze di sapore voïvodiano. Un album, forse, meno impattante rispetto allo scorso LP, ma pur sempre tetro e minaccioso, che dimostra una maturità compositiva capace di affrancare il combo dal ristretto mondo dell’OSDM: welcome back!

Tracce consigliate: “Abhorrence Evangelium”, “Scorn Manifestation”, “Drowned”

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Ildskær – Blod & Jern (Vendetta Records)

Già insieme negli Í Myrkri, nel 2020 il polistrumentista Garðarsson e il singer, chitarrista e autore lirico Skóggangr fondarono gli Ildskær, esordendo lo stesso anno con “Den Rædsomste Nat”, platter incentrato sulla Seconda Battaglia di Copenaghen del 1807, durante la quale la marina britannica attaccò la capitale danese per requisirne la flotta affinché non cadesse nelle mani di Napoleone Bonaparte. Un concept che, oggi, si arricchisce di un nuovo e triste capitolo, dedicato alla Guerra dei Ducati (1864), conflitto in cui il Regno di Danimarca, dopo nove mesi di sanguinosi combattimenti, cedette l’intero Schwlesig-Holstein all’Impero austriaco e alla Prussia. Il duo di Aalborg, anche servendosi graficamente di un artwork che riproduce il dipinto di Wilhelm Camphausen “La Battaglia Di Als”, riesce a catturare,  in “Blod & Jern”, l’essenza evocativa di quel luttuoso scontro armato per mezzo di un atmospheric black metal dalle melodie accattivanti e da un pathos epico che rimanda a una visione romantica dell’eroismo bellico. Un approccio dinamico, in grado di alternare passaggi cadenzati a improvvise esplosioni di aggressività comunque orecchiabili, per un disco drammatico, scritto dalla prospettiva della sofferenza e filologico nel rendere giustizia alla portata di una tragedia più grande di quella che si potrebbe immaginare. Vivamente consigliato a tutti coloro che non si accontentano di un polveroso saggio storico o di un documentario della National Geographic.

Tracce consigliate: “Thyras Værn”, “Gjennem Ild Og Røg”, “Et Lidet Fattigt Land”

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One Master – The Names Of Power (Eternal Death)

Attivi sin dal 2002, gli statunitensi One Master sono rimasti per lo più confinati nell’underground locale, sfornando quattro full-length di buon livello, l’ultimo dei quali, “Lycanthropic Burrowing”, risaliva a sei anni fa. Una lunga assenza spezzata da questo nuovo disco “The Names Of Power”, titolo che rimanda all’idea arcana secondo cui conoscere il vero nome di una divinità può permettere di accedere al suo potere. Un concept album di natura occulta sul potere del linguaggio, dunque, che, rispetto alle abitudini degli scorsi lavori, tutti della durata media di una mezz’ora o poco più, sfiora i sessanta minuti di running time, necessari a sviscerare le varie ramificazioni tematiche del plot. Approfondimenti espressi, dal punto di vista musicale, attraverso un black metal di tradizionale scuola norvegese, molto vicino all’acuta violenza dei Gorgoroth di “Pentagram” (1994) e “Antichrist” (1996), ma che non si vergogna certo di inserire alcune sezioni in mid-tempo e qualche passaggio atmosferico, rivelando suggestioni di matrice locale ascrivibili all’operato dei primissimi Vrolok. Un sound complessivo capace di oscillare tra il cristallino, lo stantio e il cruento, marchiato dalla scorza hardcore delle linee vocali del fondatore e chitarrista Valder e che, pur non lasciando increduli per stile ed originalità, riesce comunque a tenere avvinti alla poltrona dal principio alla fine. Magnetismi di taglio urbano.

Tracce consigliate: “The First Names”, “The Solitary Names”, “The Final Names”

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Sadus – The Shadow Inside (Nuclear Blast Records)

Sono trascorsi  quasi quarant’anni dalla formazione dei Sadus, diciassette dal loro ultimo album in studio e sei da un enfatico post, collocato sui vari social media, che annunciava la conclusione definitiva dello storico progetto californiano. Appare quasi una sorpresa, dunque, il rilascio di un nuovo album degli statunitensi, oggi ridottosi a coppia dopo l’abbandono della nave di Steve DiGiorgio, il cui modo di imbracciare il basso fretless a là Cliff Burton/Jacob Pastorius rendeva il sound del gruppo originale e distintivo. In “The Shadow Inside”, le mansioni compositivo/esecutive diventano appannaggio dei membri rimasti, il chitarrista e cantante Darren Travis e il drummer Jon Allen, che, a dirla tutta, se la cavano piuttosto bene, nonostante il pesante vuoto in line-up. Anzi, il thrash metal ad alto tasso tecnico spruzzato di tradizione Bay Area, proto-death, sagaci soluzioni melodiche e granitiche soste in mid-tempo, aspetti chiave che caratterizzano questo sesto lavoro, possiede un’energia e un’efficacia tali da far impallidire “Elements Of Anger”(1997) e “Out Of Blood” (2006), i due scorsi full-length, invero non particolarmente memorabili. Ovviamente, non bisogna commettere l’errore di produrre dei paragoni con gli storici “Illusions” (1988) e “Swallowed In Black” (1990), dai quali, non a caso, l’artwork di Travis Smith riprende molti tratti trasfigurandoli in un’atmosfera nebbiosa, bensì calare il lavoro presente all’interno di un contesto diverso, dove spesso vecchi giganti dimostrano di avere, ormai, dei piedi d’argilla. E per una band che sembrava ultrasepolta, il risultato vale una nota di merito: chapeau!

Tracce consigliate: “First Blood”, “It’s The Sickness”, “Anarchy”

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Serpents Oath – Revelation (Odium Records)

I gentiluomini dei Serpents Oath non sanno cosa significhi oziare distesi sul divano, dal momento che “Revelation” è già il terzo album diffuso dal 2020, anno in cui vide la luce l’esordio “Nihil”, seguito nel 2022 da “Ascension”, entrambi i full-length pubblicati dalla Soulseller Records. Benché la diabolica copertina, che simboleggia la ribellione a Dio di Lucifero, rechi ancora il marchio artistico di Néstor Ávalos, questa volta il gruppo, oltre ad accettare la corte della polacca Odium Records, ha scelto, per incidere il disco, di abbandonare la Germania e Andy Classen e di affidarsi alle vicine cure produttive di un Yarne Heylen, bassista dei deathster Carnation, capace di conferire al sound nero dei connazionali belgi un taglio ruvido, pieno e vizioso. Con le chitarre di Baelus e Daenum che lavorano senza mai sovrastare le ferine linee vocali di Tes Re Oth, la band può sciorinare il proprio campionario black metal di ceppo svedese, tanto melodico quanto sferzante, all’interno del quale Dark Funeral e Watain si spartiscono la posta delle maggiori influenze, i primi nelle parti veloci, i secondi durante i passaggi in mid-tempo o nei balenii più orecchiabili. A ornare il tutto, un concept che, attraverso la descrizione delle fasi della trasformazione di un iniziato in un adepto delle Tenebre, affronta un viaggio di esplorazione spirituale inframmezzato da break di carattere ambient, esaminando i temi della rottura dei confini, della depersonalizzazione e della rinascita, con il fuoco e le sue diverse declinazioni elementi focali e simbolici del percorso. In altre parole, un platter godibile e dal songwriting compatto che, pur non offrendo nulla di eccezionale, conosce benissimo le regole del gioco. E le applica a dovere!

Tracce consigliate: “Blood Covenant”, “Purification Through Fire”, “Pandaemonium”

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