Assodato e confermato che l’artista del nuovo millennio deve sgomitare per uno spazio che appare ormai completamente sold out, ecco che alcuni di questi – fortunatamente e con coraggio, e forse anche intelligentemente – decidono letteralmente di rompere i noiosi argini di quel che richiedono il mercato e i social e sfondare con qualcosa di… forse sincero? Ed ecco quindi che Londra – che ricordiamo non essere città in grado di fermarsi – propone ancora novità sul quel che una volta aveva senso chiamare mercato discografico.

Tornando quindi alla bellezza del non saper definire o catalogare un artista, Ese Okorodudu entra in scena, imprevedibile capigliatura afro e Stratocaster in mano. Che sia in studio o che sia sul palco, freddamente (e pazientemente) verrebbe da elencare tutto quello che passa per la testa a lei e sicuramente passa per le orecchie a noi all’ascolto. C’è una forte presenza hendrixiana nel suo tocco chitarristico, c’è il soul, c’è tanta femminilità, c’è chiarezza nella comunicazione ma anche una buona dose di delicatezza, eppure ci sono anche i muscoli, c’è l’Africa, il ritmo, il sangue, il vento caldo, percentuali di reggae e di Giamaica, come anche di Inghilterra, a volte direttamente da Brixton. Il blues, tanto, come potrebbe mai mancare il blues, il vero filo conduttore e collante? Ese suona solitamente una Strato, ha anche un percussionista con lei sul palco che tanto ricorda l’intelligente lavoro di percussioni degli War di Eric Burdon e dei Santana degli esordi. Ese non canta da prima donna, canta quel che c’è da dire, lo fa bene, con sicurezza, sa quel che vuol far arrivare lì giù da palco, anche se spesso appare seria e rapita lei stessa dalla sua esibizione… ma poi sorride e le s’illumina il viso. Talento naturale? Forse, anche se lei dice di essersi fatta le ossa suonando per strada. Non sembra una che vuole piacere a tutti, ma lo fa con naturalezza e quel che accade va bene così com’è. La band, il collettivo Vooduu People la segue quindi con apparente facilità, nell’accezione più positiva del termine. Trasmettono quel senso di “family” come traspariva magari proprio dalla Family Stone di Sly – e probabilmente senza portarsi dietro le diatribe interne che furono.

EseOkorodudu

Dal vivo tale ensemble appare fluido ed ampio, la band – che sembra cambiare elementi a seconda del tempo e dello spazio, tutti pescati dal calderone della sua Vooduu People – segue Ese, a tratti la avvolge e a tratti si lascia condurre, ed entrambe le dinamiche avvengono con chiarezza ed efficacia ma mai con “bold moves” o alcuna voglia di esagerare. Anche quando tirano fuori i muscoli, sia Ese che la Vooduu People lo fanno con energia e stile, ma mai con insensata forza.

La incontro dopo un paio di suoi concerti qui a Londra, proprio per scambiare due chiacchiere e conoscere meglio il suo mondo. Lei non ci pensa un attimo e accetta. Ci vediamo a casa sua a Londra, ovviamente sul versante orientale della capitale, ma non così prevedibilmente nelle zone più variopinte e brulicanti, bensì in un angolo ben più quieto e “oltre”. Circondati di strumenti musicali “ripescati e riparati”, iniziamo a parlare e noto prontamente che Ese ha lo stesso modo di parlare di come suona la chitarra: chiara e sincera, eppure sempre piacevole da ascoltare. Il suo tono di voce non tradisce molto il suo modo di cantare, ne riconosco le sfumature. Ma anche un po’ lo sospettavo… Ese comunque non parla molto, la sua forma di espressione e comunicazione è la musica. Non parla molto di sé, anche se tende relativamente spesso a menzionare un passato che si contrappone, trasformandosi non senza qualche difficoltà, a un unico presente/futuro. Il suo album del 2019 (“Up In Smoke”) sembra essere il riassunto di quel che era stato fino a quel momento, con tanto di porta che si chiude – senza comunque alcun rumore, perché non sembra essere una persona che sbatte porte. È un concentrato di modi gentili, estremamente accomodante, di quegli individui che sanno stare con tutti – o forse la conosco troppo poco per dirlo? Magari non vede l’ora che me ne vada. Siede a gambe incrociate sul divano, in una stanza in cui si fa notare uno scintillante Rhodes – rimesso in sesto di recente – e poster cinematografici ai muri e album che sbucano da tutte le parti.

Improvvisamente mi propone quel che per lei sembra la cosa più ovvia da condividere con me in quel momento: farmi ascoltare il suo prossimo album, in anteprima. Anzi no, i prossimi due, subito si corregge. Perché sono entrambi pronti, manca qualche mossa finale col mastering, ma ci sono. Li ascolto in silenzio, mi permetto qualche commento qua e là, quando me la sento di interrompere e farle qualche domanda. Lei mi confessa che quella era una delle prime volte che anche lei li ascoltava in sequenza e ininterrottamente e voleva sentirne lei stessa l’effetto… E dopo i due album, con la sera che inizia a scendere, mi chiede se fossi interessato ad ascoltare anche la sequenza di demo che andrà a comporre il terzo album, in un futuro che credo non troppo lontano, a giudicare dalle intenzioni che avverto. Ese sembra quasi timida, anche se chiaramente non lo è, e quindi preferisce lasciar parlare la musica per lei. Questi tre album nuovi sono davvero diversi tra loro, spaziano chiaramente dal jazz del primo per finire nella Ese più nota – quella di “Up in Smoke” – col secondo album, che io trovo davvero bello, intenso, “heavy” nei suoni e nel messaggio, così bello che le consiglio spassionatamente di non fare aspettare il pubblico e di pubblicare direttamente quello! Lei mi dice che vuole tutti e quattro gli album della sua discografia in quella sequenza, perché ha un senso per lei. È un discorso personale, che prende nuovamente il passato e il futuro. Cerco quasi di convincerla, tanto ormai la conversazione su pubblico e aspettative è iniziata, ma lei trova il modo di glissare sull’argomento. Vuole espandere il suo bacino d’utenza, vuole davvero che la sua vena jazz sia evidente, e non offuscata dal preponderante blues della sua chitarra. Ecco perché quel Rhodes in camera, che effettivamente nel primo album (dei tre inediti), la fa decisamente da padrone, e tutto registrato in presa diretta o quasi in due iconici studi indipendenti come il LightShip 95 a Londra e il Real World di Peter Gabriel, non lontano da Bath.

EseEp

Più nel dettaglio, se è vero che il blues effettivamente riporta temi africani poi sviluppati negli Stati Uniti del Sud, ecco che Ese, fully British di origini nigeriane, porta in sé anche quell’anima nera, senza passare dalla Motown o dalla Stax, ma infrangendosi e mescolandosi direttamente con il British Blues e sporcandosi mani e intenzioni addirittura con il jazz… e quando nomino Hendrix quasi preferisce non parlare di Hendrix, scherzando dice di lasciarlo in pace. Ci tiene a precisare che però il nome “Vooduu People” è sia un affascinante riferimento alle sue origini africane che un chiaro aggancio alla “Voodoo Child” che tutti conosciamo. Per terra lì, tra i suoi pedali, un Cry Baby conferma la teoria.

Le chiedo quindi come sceglie chi fa parte della Vooduu People e lei ci tiene a precisarne per prima cosa la bravura – evidente, tra l’altro – di ognuno di loro ma di come per lei sia importante l’intesa sulle idee e sulle linee guida della musica, ben prima del mero valore tecnico. Effettivamente, rimanendo colpito da quelle che mi sembrano registrazioni in presa diretta, siamo d’accordo su un punto: con buoni strumenti in mano a musicisti bravi e navigati, ecco che non vi è alcun bisogno di produzioni e post produzioni – lo spettacolo è lì così com’è, basta solo metterlo su nastro. Mi piace l’idea di parlare di nastro in questo caso, perché il sound di Ese and the Vooduu People è tanto moderno nella chiarezza e nella composizione quanto è vintage nella forma e nelle intenzioni artistiche. Non è roba da playlist, non sono singoli impacchettati, ma si tratta di album veri e propri, che andrebbero ascoltati sul piatto che gira.

In uno dei suoi prossimi album appare una interpretazione a tratti quasi lisergica di “I Wanna Be Adored” degli Stone Roses. Ne esce uno scambio di battute interessanti, tanto sull’importanza e la bellezza di quel singolare album da Manchester, quanto sul significato di una frase come “I wanna be adored”, espressione che io ho sempre trovato forte e lampante, e che Ese considera come una fondamentale verità, da cui non ci possiamo nascondere, perché tutti vogliamo essere in qualche modo adorati, soprattutto quando si è su un palco – ed è giusto che sia così. Eppure lo dice senza alcuna presunzione o saccenza, anche in questo caso Ese mi conferma quella sensazione di onestà tanto artistica quando umana. Caratteristiche evidenti in qualsiasi forma musicale lei vada ad esprimersi, come se fosse una dote naturale, un dono. In fin dei conti Ese, in lingua Urhobo, significa proprio “gift”, dono.

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