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Quando erano partite le prevendite di questo show, i Måneskin avevano appena vinto Sanremo ed erano in procinto di pubblicare il secondo album. Niente fama internazionale, niente tour globale, Eurovision ancora una prospettiva all’orizzonte — sottovalutata da tutti, perché chi sarebbe mai andato a pensare che un giovane gruppo italiano, per giunta rock, avrebbe potuto raggiungere un tale successo in tutto il mondo con un festival non proprio eccellente a livello artistico?

Il concerto, inizialmente previsto per dicembre 2021, è stato rimandato per ben due volte (la prima ad aprile 2022, la seconda posticipata di un anno esatto). Da allora sono cambiate tante cose: vedere sui biglietti cartacei campeggiare ancora la foto promozionale di “Teatro D’ira” trasmette una certa nostalgia e, in qualche modo, anche una certa tenerezza. Per i Måneskin, all’epoca, Assago sembrava un grosso traguardo, ma due anni dopo, reduci da un tour che li ha portati dall’Europa all’America passando per il Giappone (e prossimamente negli stadi italiani), una venue del genere pare quasi star loro stretta.  

Non c’è nessun opener ad aprire le danze: solo un grande telo rosso a coprire il palco semicircolare, un alone di mistero che alimenta la fervente attesa dei fan, i quali a ridosso delle 21, fra qualche torcia accesa e i primi cori, sono sempre più impazienti. Scocca il quarto d’ora accademico di ritardo, buio, un boato: il telo rosso cala come un sipario per svelare Damiano David e soci sulle urla estatiche dei presenti. 

I quattro rimangono delle macchine da guerra dal punto di vista tecnico, non sbagliando un colpo e dimostrando una padronanza del palco incredibile per un gruppo così giovane. All’inizio della serata, tuttavia, sembrano aver messo il pilota automatico, non interagendo molto con il pubblico – al netto delle periodiche incursioni del frontman e di Victoria De Angelis sulla transenna, come da copione – né fra di loro. In parte, ciò può essere dovuto al fatto che le canzoni del nuovo album Rush! risultino ancora poco coinvolgenti per gli spettatori (che sulle gradinate si alzano solo con “Zitti e buoni”, tralasciando i due brani iniziali), ma in parte i Nostri potrebbero semplicemente essere stanchi. “Il prossimo pezzo è croce e delizia della nostra band, anche se alla fine lo amano tutti; dai, lo sapete anche voi di cosa stiamo parlando” commenta Damiano con rassegnazione, ad esempio, per introdurre “Beggin’”, la cover dei Four Seasons che li ha fatti conoscere oltreoceano. Arrivati all’ultima data di una triade milanese schiacciata in un tour lungo e impegnativo, del resto, a volte viene da chiedersi se i ragazzi possano essere costantemente in forma: come dicono loro stessi, “hanno solo vent’anni”, e la fama improvvisa può sempre avere insidie.

Con il susseguirsi dei brani, ad ogni modo, il ghiaccio sembra rompersi, e nella seconda metà in particolare lo show si fa sempre più travolgente sia per il pubblico che per la band. Spicca fra i quattro il chitarrista Thomas Raggi che, sebbene sia il più giovane della band (classe 2001), è già in grado di regalarci una serie di assoli di livello; ne sono un esempio lampante “For Your Love”, in cui Damiano, nel buio più totale, imbraccia un faro per dare spazio ed enfasi al compagno di band, e la successiva (nonché infuocata) “Gasoline”. Da apprezzare moltissimo anche la sezione acustica del live, in cui Damiano e Thomas compaiono su un palchetto situato in mezzo alla platea per un’emozionante trilogia in italiano — “Torna a casa”, “Vent’anni” e la cover dei CCCP “Amandoti”. Le luci si spengono sul duo per riaccendersi sul palco principale, dove la sezione ritmica della band, Victoria ed Ethan Torchio, ha modo di brillare per qualche minuto; arriva l’altra metà del gruppo, parte “I Wanna Be Your Slave” e ricomincia la festa.

“Vi devo dare una brutta notizia: questa sarà l’ultima canzone” mente Damiano dopo due ore di concerto, annunciando come “notizia buona” quella di far salire sul palco una schiera di fan presi dalle prime file del parterre. Mentre questi ultimi, prevedibilmente, volano come sciami impazziti su Victoria, a chi è più avvezzo al genere non può che sfuggire un sospiro divertito: d’altronde, la pausa prima dell’encore – quella in cui la band “sparisce” come se il concerto fosse realmente finito – è oggetto dell’umorismo di tutta la comunità rock sui social.

Passano infatti un paio di minuti prima che Thomas riappaia sul palco per l’ultimo dei suoi momenti solisti; chi aveva già messo il cappotto ed era sulle scale per l’uscita torna di corsa al proprio posto, giusto in tempo per un finale composto dalla ballad “The Loneliest” (che in versione live rende mille volte meglio della versione studio) e da un bis di “I Wanna Be Your Slave”. Una combo inaspettata, ma che chiude il live sorprendentemente bene.

Urge osservare, tirando le somme, come la demografia del concerto abbia compreso spettatori di tutte le età, da intere famiglie con bambini a compagnie di adolescenti a gruppi di amici sulla cinquantina. Che piacciano o meno, che li si trovi derivativi, commerciali o entrambe le cose, ai Måneskin va senz’altro riconosciuto un merito: quello di aver riunito sotto il segno del rock, dopo tempo immemore, intere generazioni. 

Setlist

Don’t Wanna Sleep 
Gossip
Zitti e buoni
Own My Mind
Supermodel
Coraline
Baby Said
Bla Bla Bla
In nome del padre 
Beggin’
Timezone
For Your Love 
Gasoline
Torna a casa
Vent’anni
Amandoti
I Wanna Be Your Slave
La fine
Feel
Mark Chapman
Mammamia
Kool Kids
The Loneliest
I Wanna Be Your Slave

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