i got heaven
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Mannequin Pussy – I Got Heaven

Marisa Dabice è sempre stata incazzata come una iena, ma ha saputo modellarla, la rabbia, convertirla, come una specie di energia rinnovabile, in qualcosa di curativo per l’anima, la sua e quella di chi ascolta: la parabola ascendente dei Mannequin Pussy, difatti, altro non è che la panoramica allargata della mutazione di questo sentimento, violento e brutale fino a “Romantic”, ruvido, ma ponderatamente scolpito in “Patience” e nel tanto atteso “I Got Heaven”, che fa capolino in un 2024 già bello ricco di uscite interessanti con un artwork che non spiega solo la superficie dell’istinto animalesco, fil rouge assodato del Mannequin Pussy sound, ma che ci sbatte sul muso l’eterno paradosso di una razza umana simile a una schiera di maiali, nella costante insicurezza di dover scegliere se abbracciare l’amore di chi ci accudisce o se iniziare a maturare l’idea di essere accompagnati, da quelle stesse mani, dentro il mattatoio.

Nonostante persegua un po’ gli svincoli sonori imboccati dal suo predecessore, “I Got Heaven” non è un disco meno schiumante d’ira: questo perché l’ammorbidimento dei suoni – non ruffiano, bensì funzionale – è esattamente il cavallo di Troia architettato dalla band di Philadelphia, entrare quatti quatti per poi sfondare tutto. Ed è incredibile come il risultato sia tanto cangiante, tanto omogeneo e fluido nell’ascolto, considerando anche il cambio di produttore (John Congleton) e la new entry Maxime Steen alla sei corde, stravolgimenti che paiono invece aver addensato il legame, artistico e umano, dei quattro, capaci di metter su il platter in due settimane.

“I Got Heaven” parla di una società sì agonizzante nei principi, ma che intravede una fiammella di speranza in un cambiamento ora molto più rumoroso. Marisa Dabice, a tal proposito, si espone polemica, conturbante, vigorosa, a dar benzina a questo desiderio di “riforma”, sputa rancore verso la chiesa e, in generale, verso un sistema che demonizza il borderline, che spara a zero sulla sessualità “non canonica”, che prova a mantenere vivi ideali che ci àncorano brutalmente a cinquant’anni fa.

Mannequin Pussy I Got Heaven 2 credit CJ Harvey@1400x1050
Photo Credits: CJ Harvey

Tutto questo compone il materiale esplosivo del proiettile scagliato dagli americani, di quelli levigati, studiati, perfetti nell’aerodinamicità di suoni che si aggrovigliano in una tracklist praticamente senza punti d’ombra, assemblata da quell’alt-rock odierno dal retrogusto grungy di “Nothing Like” e “Split Me Open” (Bully, Wednesday, Slow Pulp), dallo sporco folk-rock di “I Don’t Know You”, dalle scappatelle shoegaze che baciano il punk (“Sometimes”), dal fragore dell’hard rock che romba tra le sviolinate fuzzy e le voglie alt-pop di una potentissima title-track.

La messa a nudo totale di “Missy” Dabice, che si toglie i vestiti e, soprattutto, qualche sassolino dalla scarpa, fornendoci una visione della solitudine non come piaga, bensì come occasione di crescita: il saper vivere con sé stessi è realizzazione ed è parte integrante di quel processo di rinnovamento, di ribellione contro il mondo che i Mannequin Pussy professano per tutto il disco, che sia con i crescendo più pragmatici di “Loud Bark” – «Not a single motherfucker who has tried to lock me up / Could get the collar round my neck / Or find one that’s big enough» – o con le sfuriate hardcore di “OK? OK! OK? OK!” – con al microfono Colins Regisford – e di “Aching”.

Menzione speciale per “Of Her”, un’altra mazzata garage punk che incorona il vero firestarter di questa missione, ossia l’implicito passaggio di consegne da madre, ancora inevitabilmente legata ad una concezione antiquata, a figlia: la Dabice si prostra a colei che le ha permesso di fare tutto questo, a colei che le ha dato la possibilità di prendere il controllo della propria vita («I was born / Of her fire / Of sacrifices / That were made» […] «She gave me her control / Because she wanted to»).

Una carezza, uno schiaffo, un bombardamento: “I Got Heaven” è tutto questo, un album solidissimo che sorpassa anche il suo ottimo predecessore. Un anthem all’amor proprio, all’accettazione, al reale significato di sentirsi una comunità. Insomma, un dito medio sbattuto in faccia a tutto quello (e quelli) che ostacolano il mondo che vorremmo.

Tracklist

01. I Got Heaven
02. Loud Bark
03. Nothing Like
04. I Don’t Know You
05. Sometimes
06. OK? OK! OK? OK!
07. Softly
08. Of Her
09. Aching
10. Split Me Open

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