In una Roma sotto la morsa di Caronte va in scena la spettacolo apocalittico dei Muse. Mentre il caldo costringe la band a posticipare l’inizio dello show di quasi un’ora, circa in quaranta mila hanno sfidato una delle giornate più calde dell’anno per godere del rock adrenalinico del Trio inglese, passato per la Capitale “soltanto” nel 2019 con il Simulation Theory Tour, ma che quest’anno sceglie Roma per iniziare la breve leg italiana che li vedrà sabato 22 allo stadio San Siro di Milano.

Prima di loro ci sono i Royal Blood a “riscaldare” l’audience. Per loro un set abbastanza breve di circa un’ora con quasi tutti i loro pezzi forti: il grande rock di “Trouble’s Coming”, la ritmata e ballabile “Typhoons”, l’energia fuori misura di “Come On Over”. Suonano da paura (d’altronde non è facile far sembrare il basso una chitarra), traggono tanti elementi dall’hard rock inglese dei ’70 tipo Black Sabbath, sanno tenere la scena con disinvoltura, ma manca un po’ di movimento nella performance. Prima volta per il Duo inglese nella Capitale ma promettono di tornare, e a nessuno sembra dispiacere affatto.

Ma ora è tempo del piatto forte. Già dall’intro i Muse ci proiettano nel loro mondo fatto di ribelli che distruggono simboli del potere, tra cui il busto statuario del frontman, Matt Bellamy, che compare anche sulla copertina del recente “Will Of The People“. L’inizio è segnato proprio dall’energica title track, suonata dai Tre con indosso le maschere dei ribelli fatte da schegge di vetro, mentre sulle loro teste prendono fuoco, a tempo, le iniziali che compongono il titolo. Si preme ancora sull’acceleratore con la maestosa linea di basso che introduce “Hysteria”, ed è l’apoteosi dell’estasi, poi subito avanti col rock granitico di “Psycho”, in cui il cantante e chitarrista Matt Bellamy, il bassista Chris Wolstenholme e il batterista Dominic Howard dimostrano di non aderire alla filosofia “meno è meglio”. Sul palco oltre a loro un quarto musicista che fa la spola fra tastiere, percussioni e chitarra alla bisogna.

Ancora grandi classici con “Stockholm Syndrome”, ma già da qui si percepiscono i primi segni di cedimento della voce di Bellamy, sicuramente provata dalle alte temperature che sfiorano i trenta gradi persino alle dieci di sera. Che la stella dei Muse non sia più fulgida come in passato lo si capisce da una triade di pezzi: “Compliance” in cui Howard dà tutto se stesso ma la canzone non è all’altezza del resto del repertorio, penalizzando il live a causa della carenza qualitativa degli ultimi lavori. Segue una non emozionante “Thought Contagion” e “Verona” (dedicata ad una fan recentemente scomparsa), in cui serve sparare una pioggia di coriandoli sui presenti per strappare un sospiro.

È sui classici che il pubblico risponde con entusiasmo, quando su “Resistance” canta persino il riff come fosse il coro di qualche club calcistico. I Muse danno il loro massimo su alcuni dei pezzi più recenti: su “Won’t Stand Down” sono potenti e inesorabili, in “Kill or Be Killed” dimostrano che la nomination ai Grammy di quest’anno non è stata immeritata. Bellamy si accomoda davanti al pianoforte, illuminato da una luce sinistra, e fa risuonare le prime note della celebre Toccata e Fuga in re minore di Bach. Le sue mani si muovono con precisione e maestria, introducendo un’atmosfera inquietante. Le note si diffondono nell’aria, si trasformano in organo e la macabra e molto kitsch “You Make Me Feel Like It’s Halloween” prende vita mentre la maschera del personaggio animato alle sue spalle riflette i volti di Jason Voorhees, Freddy Krueger, Ghostface, della bambola assassina Chucky, di Saw L’Enigmista e di altri serial killer dell’immaginario cinematografico.

Ad introdurre “Madness” ci pensa ancora una volta Bellamy: “questa l’abbiamo cantata sempre qui dieci anni fa”, e la mente torna al live dvd registrato proprio allo Stadio Olimpico, con la differenza che, stavolta, Bellamy canta solo gli ultimi due ritornelli, mentre è costretto a riposarsi sul primo. Di quel romanticismo che caratterizzava i Muse non c’è quasi più traccia. Ora è tutto un rock preciso ma sopra le righe, stravagante e spettacolare. Ma lo spettacolo vero arriva con “Time Is Running Out” e la maestosa “Plug In Baby”, unico superstite di quel capolavoro chiamato “Origin Of Symmetry”, mentre nulla è stato conservato dal primo “Showbiz”. Sono questi i momenti in cui si riconoscono i grandi musicisti, sempre più trasformati nelle autoreferenziali superstar da stadio.

Anche se la voce di Bellamy sembra non godere più della brillantezza di una volta, le due doti da chitarrista sono invece sbocciate come dimostra nell’arabeggiante intro di “Won’t Stand Down” o nel solo di “Supermassive Black Hole”. Chiude lo show una rielaborata versione di “Knights Of Cydonia” con il tema de L’uomo con l’armonica di Ennio Morricone, dal film C’era una volta il West di Sergio Leone per due ore di rock serrato con pochissime parole, tanti giochi di luci, laser accecanti e 27 canzoni (sette dall’ultimo disco).

Nel nuovo mondo distopico in cui i Muse ci catapultano, tutto è incastrato alla perfezione, eppure le prime incrinature si vedono, non tanto nei concept, quanto piuttosto nelle scelte stilistiche e, purtroppo, iniziano a fasi vedere anche nelle esecuzioni. Se viene da chiedersi “ha ancora senso andare a sentire i Muse?”, la risposta rimane sempre positiva, ma si teme che questo possa essere il riflesso di una parabola discendente iniziata ormai diversi anni fa.

Setlist

Will of the People
Interlude
Hysteria
Drill Sergeant
Psycho
Stockholm Syndrome
Resistance
Won’t Stand Down
Kill or Be Killed (Felsmann + Tiley Reinterpretation)
Compliance
Thought Contagion
Verona
Time Is Running Out
The 2nd Law: Isolated System
Undisclosed Desires
You Make Me Feel Like It’s Halloween
Madness
We Are Fucking Fucked
The Dark Side
Supermassive Black Hole
Plug In Baby
Behold, the Glove
Uprising
Prelude
Starlight
Kill or Be Killed
Knights of Cydonia

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