Quando una label così trasversale come Prosthetic Records decide di mettere sotto contratto, sin dall’esordio, una band con soltanto un paio di EP nel curriculum, significa che quest’ultima possiede tutte le potenzialità per emergere in un ambito estremo pullulante di antagonisti di valore. Dopo il rodaggio in “The Eye Is The First Circle”, i Calligram di “Position | Momentum”, dunque, mostrano la capacità di ampliare i confini sonori del proprio corrosivo black/hardcore, convogliandone la furia tra passaggi atmosferici e qualche ardita sperimentazione, con un esito finale davvero apprezzabile. Il singer e autore dei testi Matteo Rizzardo ce ne ha parlato diffusamente, senza lesinare in confidenze e succosi dettagli.

Ciao Matteo e benvenuto su SpazioRock. Come stai? Volevo iniziare con una domanda che non amo fare, ma che in questo caso mi sembra d’obbligo, considerato che trovare un musicista italiano nella line-up di una band internazionale non è affare di tutti i giorni. Dunque, qual è l’origine dei Calligram?

Bene, grazie. Allora, I Calligram nascono dalle ceneri di un altro gruppo, più o meno intorno al 2011. L’attuale drummer Ardo Cotones era il cantante, Tim Desbos era pure in quell’occasione il chitarrista, poi c’erano altri due membri. Era una band che suonava un misto di death, deathcore e thrash metal. Dopo diversi cambi di line-up, Ardo è passato dietro le pelli, anche perché i batteristi non si trovano facilmente, sono merce rara, e col tempo hanno cercato di inglobare altri musicisti, prima Bruno Cambiaghi, poi io e infine Smittens. Io e Smittens siamo entrati in formazione grazie a Gumtree UK, un’app per annunci lavorativi abbastanza generica, ma molto utilizzata dai musicisti sia per cercare colleghi da inserire nella propria formazione sia per proporsi alle band stesse. Non ricordo se misi personalmente un annuncio oppure furono loro che lo fecero per primi, ma ci siamo trovati. E funzionò lo stesso per Smittens. È stato Internet, in qualche modo, a far scoccare la scintilla per quella che è l’attuale line-up, ormai stabile dal 2016 e che non credo cambierà. Non a breve, almeno.

E per quanto concerne il diverso background di ciascuno di voi? È stato complicato amalgamare le varie influenze in una proposta quanto più possibile omogenea?

Per quanto riguarda le varie influenze, la storia è molto semplice. Siamo tutti nati negli anni ’80, in un lasso di tempo che va dal 1981 al 1986, ed è interessante notare come, nonostante una provenienza da realtà politiche e sociali radicalmente diverse, apparteniamo comunque tutti alla medesima generazione. Il background musicale è trasversale, ovvero ciò che ascoltavo io quando avevo tredici anni è quello che ascoltava Ardo a San Paolo alla mia stessa età, quindi, in un certo senso, possono cambiare le attitudini, ma le influenze di base rimangono abbastanza uniformi per tutti noi. Io, a esempio, sono un grande fan del black metal, Ardo, oltre al thrash e al death, adora l’heavy metal classico che a me non fa impazzire, Tim ha esplorato a lungo il jazz, lo ha anche suonato e credo che questo si senta nel nuovo album. Bruno e Smittens, invece,  sono due anime punk, cresciuti con lo skate e l’hardcore, quindi diciamo che tutti noi abbiamo una conoscenza comune per quanto riguarda i vari musicisti e le varie storie musicali. Ognuno, poi, porta con sé quelle che sono le proprie influenze e passioni.

Il fatto di essere di stanza a Londra penso vi abbia aiutato a trovare una certa quadra. Credo sia difficile trovare una città musicalmente più stimolante, vero?

Londra è stata fondamentale, prima di tutto perché credo che solo una città come Londra permetta a una band così multinazionale di poter esprimersi al meglio. Qui si respira chiaramente un’aria molto, molto frizzante, la musica si può toccare con mano. Vai in un pub, in qualsiasi pub, e trovi sempre l’angolo destinato alla musica live. Mi è capitato in innumerevoli occasioni di assistere a dei concerti di band death metal e vedere il classico vecchietto al bancone a bere la sua pinta di birra senza minimamente battere ciglio, come se ci fossero due o più realtà capaci di accettarsi reciprocamente. Quindi sì, Londra ha giocato sicuramente un grande ruolo.

L’esordio dei Calligram, “The Eye Is The First Circle”, risale al 2020, un anno tristemente famoso per lo scoppio della pandemia. Quanto il lockdown, e la conseguente impossibilità di promuovere il disco dal vivo, ne ha danneggiato la diffusione su più larga scala? È stato un album passato quasi inosservato, purtroppo.

Sì, purtroppo è stato così. Per farti capire, diciamo che noi già a febbraio 2020 dovevamo partecipare a ben due tour come supporto, avevamo diversi festival organizzati in estate ed entro la primavera, quindi era tutto pronto per poter suonare e far sentire il disco a quanta più gente possibile. Quando pubblichi un album, quello che vuoi è suonare dal vivo e farlo sentire alla gente. Il lockdown, in questo senso, è stato un danno incredibile. Quel lavoro è uscito e, in qualche modo, è stato quasi abortito. Non ha avuto praticamente vita. È vero che, effettivamente, durante il lockdown la gente era a casa, magari in smart working e, di conseguenza, aveva più tempo da dedicare ai film, alle serie TV, e anche alla musica. “The Eye Is The First Circle”, però, non ha assolutamente ricevuto l’attenzione che ci aspettavamo, tant’è che la gente che viene tuttora ai nostri concerti non riconosce le canzoni, come se non le avessero non mai sentite. E questo è un peccato.

L’aspetto positivo riguarda la label, visto che sin dal debutto la Prosthetic Records vi ha dato un grande sostegno che continua tuttora. Come si lavora con loro?

Beh, quelli di Prosthetic hanno un po’ quest’atteggiamento di fregarsene, di non avere un’etichetta da seguire fedelmente, per cui, se ti presenti con un album che a loro interessa, indipendentemente dal genere, se li convince, lo pubblicano e lo producono. Sinceramente, possiamo solo dire cose positive su di loro, perché, a livello umano, sono persone fantastiche, ci hanno supportato fin dall’inizio e noi, di nostro, non siamo un gruppo difficile da trattare. Siamo dei cani ammaestrati, tutto quello che dobbiamo fare, lo facciamo tranquillamente, non siamo quel tipo di band che porta problemi di soldi. Il rapporto si è creato subito, in maniera molto naturale,  e ricordo che siamo entrati in contatto con loro quando avevamo realizzato la demo di “The Eye Is The First Circle”. Avevamo registrato tre, quattro canzoni in presa diretta e poi inviato il tutto a varie label che secondo noi potevano essere in qualche modo interessate a quel tipo di musica. Prosthetic ci rispose il giorno stesso o il giorno dopo, comunque molto rapidamente. E da allora lavoriamo con loro, c’è grande rispetto reciproco e sono ottime persone.

Passiamo a Position | Momentum”, il vostro nuovo album uscito lo scorso venerdì e il cui titolo riproduce un concetto della fisica quantistica. Ci puoi spiegare le motivazioni dietro questa scelta non così banale, che, tra l’altro, ha anche delle ricadute sulle tematiche dei brani?

Allora, il titolo, come hai detto tu, arriva dalla fisica quantistica, per la precisione è un paradosso che si riferisce all’impossibilità di conoscere contemporaneamente la posizione e l’impulso di una particella. Ho in mente questa idea da un sacco di tempo, perché mi ha sempre affascinato questa quasi condanna all’incompletezza e all’indissolubilità. Ce l’avevo in testa da anni, dal periodo dell’università. L’album, inizialmente, non doveva essere un concept, ma voleva semplicemente essere un disco che parlasse di violenza, di caos, di oscurità, senza particolari tematiche o connessioni. Una volta finiti i testi, scritti di getto oltretutto, li ho riletti e mi accorsi che ritornava molto spesso questa idea di incompletezza, questa sorta di elogio al caos. E a quel punto qualcosa è scattato, come un clic. E suonava bene. Ho presentato la cosa ai ragazzi e tutti sono stati d’accordo sin da subito. Dal mio punto di vista, è un approccio positivo, anzi, quasi positivista al caos, perché hai una base scientifica da cui partire, non c’è la solita lamentela, il solito pianto disperato del tipo “nulla ha senso, tutto fa schifo”. Per cui, sì, nulla ha senso, il caos è ovunque, ma perché non provare a celebrarlo, ad accettarlo? Tutto è nato così, spontaneamente.

Anche scrivere e cantare dei testi in italiano non è proprio usuale, anzi, possiamo dire che è una decisione audace in un contesto musicale nel quale la lingua inglese regna sovrana. Sei d’accordo?

Sì, siamo coraggiosi, ma anche qui è nato tutto per caso. Ai tempi del nostro secondo EP, “Askesis”, c’era una canzone nella mia lingua, “Della Mancanza”, scritta quasi per gioco e, dopo che l’ho registrata e prodotta, ho notato che in italiano, comunque, la voce scorreva meglio. È qualcosa di inspiegabile a parole, ma si percepiva la differenza di flow tra la canzone in italiano e la sua versione in inglese. Mi sono detto, quindi, che forse valeva la pena esplorare questo percorso e magari fare una scelta un po’ coraggiosa, cioè provare a vedere come potesse suonare ed essere recepito dalla gente un intero album in italiano. Abbiamo fatto così con “The Eye Is The First Circle” ed effettivamente finora nessuno si è lamentato, anzi, sembra che questo contribuisca a dare più personalità alla band. A parte rare eccezioni, band black metal che cantano in italiano non ne ricordo, a parte i liguri Spite Extreme Wing e pochi altri, si parla comunque di nicchia. Il fatto che la nostra lingua sia stata spesso utilizzata nel metallo nero per propagandare una certa idea politica di destra molto nazionalista, mi preoccupava, perché magari poteva suscitare nelle persone qualche collegamento di tipo patriottico, collegamento totalmente sbagliato nel caso dei Calligram, che oltretutto sono una formazione internazionale. Non ho trovato fortunatamente nessuno che la pensasse così, anzi, tutti hanno apprezzato questa scelta. Tim, poi, mi ha fatto notare che nel metal ci sono tante parole che ritornano ricorsivamente, tipo death o blood, e quindi è sempre la stessa solfa che gira. Credo che ritrattare determinati temi in un’altra lingua, in qualche modo porti una ventata di freschezza, qualcosa di davvero diverso, e questa sarà la strada anche del prossimo album.

La copertina del disco mi ha ricordato alcune cover di Amenra, Oathbreaker e Wiegedood, non tanto per il soggetto scelto, quanto per l’aura chiaroscurale che emana. L’intento era quello di suggerire anche con le immagini il concept al centro del lavoro?

Grazie, io adoro il collettivo della Church Of Ra, ho un senso di venerazione per loro. Per quanto riguarda la cover, la questione è stata molto semplice. Abbiamo contattato Deborah Sheedy, con cui avevamo già lavorato ai tempi di “Askesis”, il nostro secondo EP, e le abbiamo spiegato il tema attorno al quale ruotavano i testi. Le abbiamo detto di fare il suo, di lavorare seguendo le sue abitudini. Lei lavora molto spesso con queste figure umanoidi e sfocate, quindi le abbiamo dato massima libertà creativa. L’unica reference era il concept. Per il resto, le abbiamo concesso carta bianca e lei ha realizzato questa cover che, in un certo senso, rappresenta quell’ossimoro di cui ti parlavo prima: c’è questa persona che contemporaneamente non è una persona perché manca del viso. Dunque, che cos’è una persona senza il viso? È una figura o è lo sfondo? Non si sa più dove guardare, no? Sono tutti richiami all’impossibilità di cogliere la pienezza, in questo caso di un’immagine su una copertina.

La produzione è stata affidata alle mani esperte di Russ Russell, già in cabina di regia di At The Gates, Dimmu Borgir e Napalm Death. Siete riusciti a entrare subito in sintonia con un professionista di tale levatura?

Russ Russell è stata una persona fantastica sin da subito. Sai, si è creata una grande sintonia, come se fossimo amici da anni. Ha una cinquantina d’anni, ma ragiona come un trentenne, è molto alla mano ed è divertentissimo. Abbiamo passato ore, nottate intere ad ascoltare i suoi racconti allucinanti sulle varie avventure che ha avuto, visto che ha prodotto un’infinità di artisti. È stato quello che finora ci mancava, cioè un punto di vista esterno che contemporaneamente riuscisse a comprendere con esattezza cosa volevamo esprimere nell’album. Siamo andati in studio con un’idea un po’ vaga e lui ha capito le nostre esigenze meglio di noi stessi, tanto che siamo stati quasi sorpresi dall’ascoltare la versione finale del disco, perché era esattamente ciò che volevamo, ma senza saperlo. Se non avessimo stabilito con Russ un forte legame umano, sarebbe stato impossibile lavorare bene e creare qualcosa di sensato e di coerente.

Fondamentalmente, “Position | Momentum” è un album a metà strada tra black metal e hardcore, ma che non è estraneo a momenti più accattivanti, come nel caso di “Ex-Sistere”, un brano che, se non erro, stava per essere escluso dalla tracklist. Me lo confermi?

Confermo. “Ex-Sistere” è stata la prima canzone scritta per l’album, credo almeno un anno e mezzo fa. E inizialmente era una canzone a tutti gli effetti skate punk, quindi il giro di riff iniziale che senti, molto melodico, è la vibe del pezzo. L’abbiamo suonata live una volta. La gente aveva anche apprezzato, ma noi siamo una band che rimugina tantissimo su quello che fa, rimugina sempre, non è mai convinta di essere nel giusto. Ci sembrava troppo melodica, troppo poco coerente con ciò che volevamo avere. Qualche mese dopo, uscì il disco dei Turnestile e quell’album è stato in un certo senso quasi un’illuminazione, perché ci ha dimostrato come si possa fare anche skate punk, quindi avere ritornelli e melodie orecchiabili, e contemporaneamente picchiare pesante, senza corrompere le proprie idee sonore. Questo ci ha dato fiducia, abbiamo ripreso il pezzo, che nel frattempo era stato quasi del tutto dimenticato, e abbiamo apportato qualche piccola correzione. Ho cambiato modo di cantare in alcune parti e alla fine è diventata la canzone che è adesso; quindi è verissimo, stavamo per scartarla e per fortuna non lo abbiamo fatto.

Rispetto al debutto, la cui intensità era senza freni, in questo secondo lavoro dei Calligram è palese la voglia di provare a inserire qualcosa di nuovo. A tal proposito, la tromba nella parte centrale di “Ostranenie” rappresenta un po’ il simbolo di una sperimentazione destinata probabilmente a conoscere ulteriori sviluppi. Sei della mia stessa idea?

Non so dirti se nel prossimo album ci sarà più sperimentazione o meno. Posso dirti, però, che in questo album, per la prima volta dopo anni come band, abbiamo raggiunto una sorta di sicurezza dei nostri mezzi che ci permette anche di sperimentare in modo così estremo. Non sono molte le band che hanno uno strumento a fiato nei dischi. Siamo molto critici, e la possibilità di inserire la tromba nel brano è stata pensata per mesi. Analizzando la canzone, ci siamo resi conto che c’era una parte molto aperta, nella quale la presenza di una tromba cadeva a pennello; quindi, più che noi determinati a mettere uno strumento a fiato a tutti i costi, era la canzone stessa a richiederlo, e credo che questa sia l’unica via che ti salva dal diventare inutilmente barocco o posticcio. Sperimentare a caso non è il nostro proposito.

Altra novità riguarda l’aumento delle parti atmosferiche, che si vanno ad alternare alle sezioni più pesanti e cupe, un po’ sul modello delle formazioni del collettivo della Church Of Ra. Una trasformazione che reputi naturale e in qualche modo destinata a progredire?

Credo che sia parte del processo evolutivo della band, perché anche ai tempi di “The Eye Is The First Circle”,  e prima ancora, volevamo inserire delle variazioni. Noi siamo tutti fan dei Cult Of Luna e una cosa che io personalmente adoro di loro, e degli Amenra stessi, è la capacità di dare dinamismo alle canzoni, ovvero alternare in modo coerente soluzioni estremamente pesanti, estremamente oscure, con parti dalla natura molto rarefatta e in cui non succede quasi nulla, che, però, calzano a pennello tra due sezioni più massicce. E per anni abbiamo inseguito queste soluzioni senza riuscirci, perché andavamo a mille, sempre; quando scrivevamo pezzi un po’ più lenti, erano comunque veloci, non eravamo in grado di rallentare e questo, secondo me, era un limite, un grosso limite. Personalmente, non ascolto grindcore, ma quando capita, dopo un po’ mi stanco, soprattutto perché, per quanto uno possa amare pesantezza e furia, le cose, alla lunga, diventano monotone. Se, invece, riesci a dosare perfettamente i momenti di pausa, il ritmo si abbassa e dai respiro anche all’ascoltatore. Poi, quando ritorni a pestare duro, è chiaro che l’effetto aumenta, perché se da zero passi a cento anziché stare sempre a cento, percepisci tutto diversamente. Posso dirti, quindi, che ci saranno in futuro ancora sperimentazioni a livello di dinamiche, ma sempre in maniera coerente, senza esagerare.

Nell’album c’è spazio per un interludio strumentale, “Per Jamie”. È dedicato a una persona in particolare?

C’è un riferimento biografico, anche se il nome è fittizio. Tim ha scritto quest’interludio e l’ha voluto dedicare a un suo amico che ha avuto dei problemi in passato. Fondamentalmente, è un piccolo tributo. All’inizio doveva essere un tutt’uno con “Ostranenie”, non c’era la volontà di separare le due tracce. In pratica, si trattava di un unico brano di dieci minuti. Poi, però, visto che “Ostranenie” è diventato per forza di cose il terzo singolo, farlo durare dieci minuti, forse, avrebbe potuto creare qualche problema, considerando che la parte iniziale, a quel punto, sarebbe stata una suite un po’ sperimentale e fuori dalle righe. Così si è pensato di dividerle e, di conseguenza, ne è venuto fuori un intermezzo strumentale.

Per “Frantumi In Itinere” avete girato un video piuttosto convulso, nel quale voi stessi siete gli attori principali. Che ne dici di raccontarci un po’ il dietro le quinte?

Il regista è lo stesso di “Ex-Sistere”, ha questo stile molto frenetico, dal montaggio molto intenso. In realtà non c’era nessuno script di partenza, il video si basava semplicemente su di noi mentre facciamo cose strane. Ecco, volevamo fare un video che fosse disturbante. E che in un certo senso ci vedesse diretti protagonisti, dato che in quello precedente non apparivamo. È stato girato durante un sabato ed è stato estremamente divertente, perché, quando siamo tutti insieme, finisce per diventare una commedia dell’assurdo.

Canzoni come “Eschilo” e “Tebe”, alcune immagini inequivocabili che compaiono velocemente nel video di “Frantumi In Itinere”: la cultura greca classica è una tua passione?

Adoro la mitologia classica e gli studi su di essa sin dai tempi dell’università, mi piace inserirla nei testi. In questo caso, è anche congrua, benché in maniera molto generica, dal punto di vista del concept, perché i greci sono stati i primi a chiedersi che cazzo ci stiamo a fare qui e a interrogarsi sul senso della vita. Cerco, appena posso, di collocare questi richiami all’antichità dentro gli album, un po’ come il prezzemolo.

Matteo, le tue urla acide rappresentano una delle carte vincenti di Position | Momentum”. Hai studiato canto o sei autodidatta? E ci sono dei modelli a cui ti ispiri?

Mai studiato, sono partito da autodidatta in Italia a sedici, diciassette anni, provando qualche forma di growl, ma con risultati fallimentari, direi. A forza di provare, ho trovato una sorta di mio stile, tuttavia non saprei dirti qualche riferimento o modello, anzi, per molto tempo ho avuto molti complessi e non mi piaceva la mia voce. Facevo l’errore di compararla ai singer che ascoltavo e, visto che sapevano cantare, la mia voce, al confronto, suonava completamente diversa e mi ero convinto, quindi, che non andasse bene. Ci ho combattuto non poco. Qualche tempo fa, non riuscivo nemmeno ad ascoltarmi quando l’album usciva, è stato un percorso di accettazione molto complicato. Non riuscivo ad accettare il fatto che avessi una voce comunque diversa rispetto ai tanti cantanti che ascoltavo, e mi sembra di aver capito che questo sia un argomento che viene trattato pochissimo. Non ho mai letto interviste al riguardo, però, chiedendo in giro, mi sembra di capire che questo sia un problema di molti cantanti metal che non riescono ad ascoltare la propria voce quando utilizzano lo scream o il growl. Oggi, quando mi ascolto in una canzone, quindi con un sound prodotto, fa un determinato effetto, ma la voce isolata, che sia growl o scream, mi provoca comunque qualcosa di strano, non vomito come anni fa, ma è una sensazione particolare. Ricordo che un giorno Lewis Jones, il produttore dell’album precedente che, come tutti i suoi colleghi, lavora sulla traccia singola per gli effetti e i riverberi, mi chiese: “Vuoi rimanere qui o vuoi uscire? Perché so che molti cantanti non vogliono ascoltare la propria voce isolata”. Quindi non sono il solo, forse è una questione più comune di quanto si pensi.

In queste ultime settimane è scoppiata una questione sulla qualità della musica italiana, soprattutto mainstream, e sulle difficoltà di emersione di una proposta che sia davvero alternativa a quella di massa. Dal momento che vivi e lavori a Londra e, quindi, sei un osservare distante e imparziale, puoi darci le tue impressioni in merito?

So per certo che dalle mie parti c’è movimento. Il Venezia Hardcore Fest, per farti un esempio, raccoglie un sacco di gruppi indipendenti davvero fighi. Molti di loro suonano anche all’estero, quindi credo che a livello indipendente ci siano ancora molte realtà di valore. C’è ancora gente che dà filo da torcere al mainstream. Mi pare, però, che le nuove generazioni siano molto meno interessate a suonare e a creare musica. C’è questa cosa del SoundCloud For Artists, un piattaforma attraverso cui, praticamente, si può produrre e caricare un pezzo, anche di qualità scadentissima, e il gioco è fatto. Il caso della trap è emblematico: metti su qualcosa in rete e ti aspetti di fare il botto, non esiste più l’idea della gavetta. Noi abbiamo passato anni e anni a suonare davanti a zero persone, ma questo è un passaggio fondamentale, direi obbligatorio nella tappa di un musicista, perché ti permette anche di essere critico con te stesso, di capire come migliorarti. E mi sembra che le nuove generazioni, in Italia più che qui, perché qui questa cosa non la percepisco, non hanno la voglia di mettersi in gioco e di andare a suonare davanti a tre persone o di spendere soldi, tempo e fatica per creare qualcosa che sia oggettivamente degno di attenzioni. Si vuole tutto e subito. Mi è capitato di sentire qualche artista dell’ultimo Sanremo. Dal modo in cui cantano, sembra che mettano zero impegno, basta buttare fuori le parole, anzi, strascicarle, perché più strascicano e più sono fighi. E, infatti, le canzoni sono tre beat messi in croce avendoci pensato su, forse, venti per minuti al massimo e questo, dal mio punto di vista, è una profonda mancanza di rispetto verso il pubblico, perché, se uno paga per venire a vederti, è tuo dovere offrire uno spettacolo che sia quantomeno degno dei soldi che qualcuno ha messo per assistere al tuo concerto. Qui, invece, sembra che facciano a gara a chi se ne frega di più ed è una cosa molto fastidiosa. Se ci pensi, è sconfortante pensare che nel 1986 gli Slayer pubblicavano “Reign In The Blood” più o meno a vent’anni. Adesso il ventenne accende il proprio computer e con quattro codici si fa il suo beat, ci parla sopra in modo quasi da ubriaco e ci costruisce una hit. Questo lo dico non per fare il vecchio che si lamenta del fatto che le cose in passato fossero migliori, ma è un dato oggettivo che i veri artisti sono quelli che hanno avuto un percorso coerente, che hanno fatto tutte le tappe richieste per evolversi e per questo vanno rispettati. La gente, adesso, si interessa di altro, si rimpinza di trash o guarda se escono i meme in merito a qualche situazione particolare. La musica è l’ultimo dei pensieri.

Torniamo ai Calligram. In Italia suonerete al Frantic Fest nel prossimo agosto, ma è previsto un tour europeo a supporto dell’album tra il 2023 e il 2024?

Qualche giorno fa, abbiamo suonato con i Midnight e portato sul palco qualche canzone del nuovo album. La presentazione ufficiale di “Position | Momentum”, però, è stata venerdì, a Sheffield, dove siamo stati in compagnia di Balgurra, Mastiff e Beyst. Avremo, poi, sei date in Inghilterra e il Frantic Festival a metà agosto. Tra l’altro, io lavoro in una scuola e, di conseguenza, possiamo andare in tour soltanto quando le scuole sono chiuse. Fortunatamente, qui in Inghilterra le scuole chiudono molto più spesso rispetto all’Italia, quindi hai due settimane a Pasqua, due a  Natale, una a ottobre, una a febbraio, una a maggio, sei d’estate, con il risultato che le cose sono più gestibili. Saremo comunque in tour a ottobre, speriamo anche in Europa. Il fatto è che, finché non esce l’album, i promoter non desiderano assumersi rischi, quindi vogliono vedere prima come va, come reagisce la gente e dopo, in base al feedback che ricevono, decidono se chiamarti o meno. Dunque, dobbiamo aspettare qualche settimana per iniziare a organizzare il tutto.

Matteo, grazie mille per il tuo tempo. Potresti lasciare un messaggio ai lettori di SpazioRock e ai fan dei Calligram in giro per l’Italia?

Grazie per avermi dato dello spazio. Veramente spero di suonare in Italia un tour intero, il Frantic Fest deve essere soltanto il primo episodio di una saga molto, molto più grande. Sono convinto che dal 2024 sicuramente ci saranno diverse tappe in Italia. Ciao.

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