Quando era stata annunciata questa data, lo scorso autunno, i Polyphia avrebbero dovuto esibirsi in Santeria Toscana, a Milano. Solo poche ore dopo l’inizio delle prevendite, tuttavia, l’evento è stato spostato all’Alcatraz, causa ingente richiesta di biglietti: un colpo di scena senz’altro indicativo dell’interesse crescente che gli appassionati di rock stanno dedicando, da un anno a questa parte, a un gruppo così particolare e innovativo.

In effetti, già all’apertura porte è presente una folta schiera di fan che si fionda subito ad accalcarsi sotto il palco, occupando fin dai primissimi minuti una larga porzione del parterre. Quasi tutti molto giovani, quasi tutti molto esaltati, nonostante all’apparizione della band texana manchino due ore abbondanti; nel frattempo, verso le venti, a scaldare ulteriormente gli animi ci pensa Johan Lenox, opener fisso del gruppo per tutta la durata dei tour britannico ed europeo, che arriva insieme a due violinisti mascherati e a una terza figura dietro a un laptop. Nativo del Massachusetts, ha avuto una formazione classica per poi innamorarsi dell’hip hop grazie a Kanye West, come ci racconta fra un brano e l’altro. Dopo aver lavorato come producer, fra gli altri, per lo stesso Kanye, nel 2019 si è messo in proprio: la sua interessante proposta musicale unisce le sue due influenze principali, con vocals trap che si appoggiano a basi di archi e piano. A stupire particolarmente è il finale, composto da quindici minuti di set sinfonico, in cui l’artista abbandona il microfono per accompagnare gli altri musicisti alla tastiera. Il risultato è a dir poco emozionante e il coinvolgimento è fortissimo da parte del pubblico, che lo saluta con un minuto di applausi scroscianti. 

La venue milanese si riempie completamente durante la mezz’ora di cambio-palco che precede l’arrivo degli headliner. L’attesa si fa sempre più trepidante, i fan sempre più entusiasti. La catarsi collettiva giunge alle ventuno e un quarto: i Polyphia arrivano, si presentano come “America’s Band” e iniziano a suonare “Genesis”, già brano d’apertura dell’ultimo album.

Tutti e quattro i musicisti risultano eccezionali come da aspettative, offrendo una serie di performance quasi pedisseque alle versioni studio. C’è da dire che una scaletta composta interamente da virtuosismi tecnici risulta un po’ asettica rispetto alla norma: si sente la mancanza dei brani più eclettici di “Remember That You Will Die” — i quali, avendo quasi sempre dei featuring, non sono attuabili in un contesto live senza ricorrere a tracce preregistrate. Questo, in realtà, non sembra tangere il pubblico, che si lascia trascinare sempre di più dallo show; i fan delle prime file sono in totale visibilio per Tim Henson, che in assenza di un frontman al microfono funge da volto della band e idolo delle masse (“Tim, mio padre”, urla qualcuno dalla transenna). Lui, però, rimane perlopiù tranquillo e composto sulla sua pedana, headbanging accennati e sorrisi tranquilli – salvo per una smorfia di orrore nello sbagliare un’unica nota in tutta la serata –, lasciando il compito di interagire coi presenti al collega Scott LePage. Il chitarrista si diverte tantissimo a fare da mattatore, che sia per orchestrare crowdsurfing e wall of death, annunciare che il video del prossimo singolo “Reverie” verrà registrato proprio durante il concerto (“se volete essere in quel cazzo di video, voglio vedervi perdere la testa”) oppure urlare “Chi vuole un Happy Hippo?” quando qualcuno gli lancia la suddetta merendina.

Come da tradizione, LePage dichiara la (falsa) fine del concerto per introdurre “Playing God” a un pubblico ormai in estasi mistica. A giudicare dal fervore con cui tutti intonano cori durante la pausa ed esultano speranzosi nel vedere il quartetto di nuovo sul palco, viene quasi da chiedersi se ci credano davvero o se sia tutto parte del gioco. Ad ogni modo, l’attesa viene ricompensata con “G.O.A.T.”, singolo dell’album “New Levels New Devils” e ormai considerata dai seguaci della band una vera leggenda (non per niente il titolo è l’acronimo di “Greatest Of All Time”). A chiudere il set c’è “Euphoria”, dal secondo album “Renaissance”; fra le due canzoni si inserisce un intermezzo con la cover di “96 Quite Bitter Things” dei CRY, durante la quale un membro della crew irrompe sul palco per rappare una strofa e andarsene così com’era arrivato. Questa sì che è una sorpresa (ma non per questo meno gradita).

Per i Polyphia, che non suonavano in Italia dal 2017, è stato un ritorno nel Belpaese a dir poco trionfale; li aspetta un tour serratissimo (e ormai quasi del tutto sold-out) in America, nel Regno Unito e nel resto d’Europa. Ormai sulla cresta dell’onda e con un esercito di fan adoranti che aumenta in maniera esponenziale, la band texana sembra destinata a continuare la propria rivoluzione musicale ancora per molto tempo.

Setlist

Genesis
Neurotica
O.D.
Goose
40oz
Icronic
Champagne
All Falls Apart
Drown
The Worst
Reverie
The Audacity
Playing God
G.O.A.T.
96 Quite Bitter Things (cover)
Euphoria

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