Due rinvii, una giornata completamente depennata dalla lista, defezioni illustri (ho perso il conto delle t-shirt degli Emperor presenti…), ma alla fine il Rock The Castle, ormai confermatosi uno dei migliori festival italiani in circolazione, è finalmente tornato. Sempre, rigorosamente, tra le mura del Castello Scaligero di Villafranca di Verona, che dà il nome alla manifestazione, sempre pieno di un pubblico eterogeneo, fatto di blackster incalliti e metallari vecchia scuola, punk e sempre più bambini. Tolta qualche fisiologica imprecisione di Artisti, con la A maiuscola, ma con un bel po’ di anni e stanchezza accumulata sulle spalle, e un comparto sonoro che impiegava uno-due brani prima di ingranare e restituire suoni potenti e puliti, la parte puramente musicale è stata semplicemente impeccabile.

Ad aprire le danze la prima di due storiche band italiane, immancabili sia al Rock The Castle, che in contesti internazionali dove si vuol ribadire ai colossi del metal che anche il Bel Paese di assi nella manica ne ha eccome (soprattutto andando a scavare nell’underground death metal): i Sadist, giunti ormai ai 31 anni di attività, abbastanza da meritarsi un libro in uscita proprio in questi giorni (“Sadist: La melodia del male”, Tsunami Edizioni), che scaldano un pubblico ancora non troppo folto ma già gasato con una mezz’ora compatta di classici.

“Compattezza” è anche la parola chiave per descrivere l’esibizione di Grand Magus: il trio svedese sfoggia una prestazione tellurica e conquista il pubblico con qualche suo classico (pescando principalmente da “Iron Will”, 2008) e dei siparietti a base di birra Moretti e di sano campanilismo scandinavo, parlando della festa tipicamente nordeuropea del Midsommar e chiedendosi se anche “those idiots”, riferito ai vicini norvegesi e finlandesi, la festeggiassero. Gag a parte, superata qualche incertezza tecnica iniziale, i tre snocciolano 45 minuti di heavy metal compatto, ricompensati da cori finali da parte del pubblico che chiudono col botto un’ottima prestazione.

Garanzie arrivano poi dalla band successiva, la seconda di casa, ma rispettata in tutto il mondo, con cori a gran voce che scandiscono il nome dei Death SS già durante la fase di allestimento del palco, sempre “sobrio e minimale” (merito di enormi croci di alluminio). E “sobrio” è anche lo show di Steve Sylvester e soci, che rinunciano a qualche mega-classicone della band, ma ricompensano i presenti con scabrosi siparietti eroto-satanici, fumo e scintille, come ormai da loro tradizione. L’elemento shock è immancabile, ma ci pensa poi la musica e una solida prestazione a ricordare che gli oltre 40 anni di attività e il rispetto ormai su scala globale sono meritatissimi.

Spazio poi a una delle band più importanti in assoluto in ambito estremo, dei veri e propri padri del black metal, del thrash, di qualsiasi cosa abbia a che fare con una chitarra tagliente e corna mefistofeliche, le stesse che troneggiano sull’enorme bandiera piazzata sul palco con una delle immagini più iconiche del metal, sprovvista di qualsiasi logo: se ti serve leggere “Venom” su quell’icona presente sull’album che ha dato il nome a un intero genere, che cosa ci fai a un festival simile?

Contro ogni personale pronostico, dopo essermi dovuto ricredere di Mantas e co. che con i Venom Inc continuano a macinare date e album, ora è il turno anche della voce e frontman degli originali Venom, colui che ha conservato il nome e l’identità al termine di una lunga disputa legale. Il leggendario Cronos infatti, alla soglia dei 60, ha ancora l’energia di un diavolaccio, bravo sia urlare blasfemie impugnando il suo basso, sia a intrattenere il pubblico, godendo di ogni coro, ogni braccio alzato, ogni vittima del pogo e dello stage diving che partono di pari passo alla devastante opener del concerto, proprio quella “Black Metal” che accese la nera fiamma nei cuori di mezza Norvegia (e non solo) dando il La a un nuovo movimento, un nuovo modo di concepire la musica estrema. Ottima anche l’esibizione dei due membri scelti da Sir Conrad Thomas Lant per accompagnarlo in questa seconda, terza, quarta giovinezza della band, in particolare il folle batterista Danté, una vera scheggia impazzita, e uno spettacolo nello spettacolo, tra testate ai ride e due crash posizionati a un paio di metri di altezza. Qualche slot della scaletta viene concesso a brani dall’ultima produzione in studio del trio, ma non mancano inni come “Countess Bathory”, “Witching Hour”, e la conclusiva “In League With Satan”, immancabili.

Dopo il male incarnato dei Venom, una pausa dalla nera pece offerta dai bardi di Krafeld, i Blind Guardian: un pubblico sempre più numeroso (eravamo in migliaia, ma non abbastanza da riempire per intero le mura del castello scaligero) inizia a chiamarli a gran voce già dall’allestimento del palco, con baci e occhi lucidi alla vista di un’altra iconica copertina, quella di “Somewhere Far Beyond”. Il quarto album-capolavoro dei tedeschi compie infatti 30 anni, e per questo tour, inclusa la data del Rock The Castle, il tributo era doveroso: i 4 (+2, il tastierista Mi Schüren che accompagna live la band da più di 20 anni come session, e il bassista Johan van Stratum) lo suonano per intero senza sbagliare una nota, con un Hansi Kürsch sempre in gran spolvero, simpatico, mattatore, infallibile nella sua ennesima, mostruosa prestazione canora. I quasi 45 di musica, da “Time What is Time” a “Somewhere Far Beyond”, passando per chicche come “The Quest for Tanelorn” e l’immancabile “The Bard’s Song – In the Forest” cantata quasi per intero dal pubblico, scorrono meravigliosi e potenti, impreziositi però da qualche altro capolavoro di introduzione e di conclusione proveniente dalla sconfinata discografia dei nostri, che scaldano il pubblico con “Into the Storm” e “Welcome to Dying”, e gli danno la mazzata finale con “Mirror Mirror” e “Valhalla” giusto per ribadire che nonostante i 35 anni di attività sul groppone, i Bardi spaccano ancora il culo, anche dopo aver messo piede sul palco ancora caldo dello zolfo di Cronos e soci, anche dopo aver rimpiazzato i fottutissimi Emperor.

A chiudere le danze, una band di paladini di un modo oscuro e morboso di suonare l’heavy metal, anch’essi seminali tanto quanto i Venom, tanto per band più classicheggianti, quanto per le scene più estreme, e no, non solo per l’iconico face painting del frontman King Diamond. I Mercyful Fate tornano a calcare un palco insieme dopo 23, e dopo un’ora e mezza di live, concedetemelo un “Bentornati”. Si è sentita la mancanza di tutto questo, di gigantesche croci rovesciate luminose, delle scenografie esagerate che hanno richiesto un’ora di cambio palco, delle scale di finto marmo, dei caproni dagli occhi rosso sangue, del variegato guardaroba del Re Diamante. L’istrionico mastro di cerimonie tiene il palco con lo stesso carisma e la stessa verve di un tempo, ammalia tutti con il suo iconico, morboso falsetto, non sbaglia (quasi mai) una nota, ipnotizza col suo sguardo, i suoi denti digrignanti, le sue corone puntute, le corna, i teschi, il microfono di ossa, e infine, per il lungo encore di Satan’s Fall, con le vesti classiche, il nero mantello e il cilindro che lo hanno cementato nella mente di milioni di metallari in tutto il mondo. “The Oath”, “Melissa”, “Evil”, “Come to the Sabbath”, non manca nulla all’appello (forse, al massimo, qualche chicca da tirar fuori dal cappello, anzi, dal cilindro), ma guai a definirla una spompata manovra nostalgica. I danesi spaccano ancora, e anzi, sono pronti a tornare con un nuovo album previsto per l’anno prossimo, anticipato da un brano, “The Jackal of Salzburg”, ormai parte integrante della rinnovata scaletta. A dimostrazione che il Re Diamante non vuole ancora mollare il cartilagineo scettro.

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