Staind - Fallen
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Staind – Confessions Of The Fallen

Gli Staind, una di quelle band che ha avuto la fortuna/sfortuna di essere ricordata, ma non per il suo meglio. Ma forse è bene chiarirsi un attimo: successo? Ne han fatto a pacchi, questo è indiscutibile. Eppure un bel circolo di ascoltatori continua incessantemente a puntare il forcone verso la band di Aaron Lewis, affiancandola a Nickelback, Limp Bizkit e compagnia cantando – insomma, la tavola rotonda dei bersagli (musicali) gravitanti attorno all’inizio del nuovo millennio.

Perchè sono ormai più di due decenni che a sentire il nome degli Staind zompa alla mente di quasi tutti la nenia di “It’s Been Awhile” o il rituale acustico di “Epiphany”, come se quel piccolo gioiello di “Break The Cycle” fosse composto da due pezzi ripetuti all’infinito, smontati e riassemblati per decorare canzoni diverse, ma dal medesimo sapore di fondo. Molti si sono fermati alla punta dell’iceberg, ossia a quello che MTV dava in pasto alle masse in rotazione continua, senza esplorare il sound cupo, doloroso e malinconico dei quattro di Springfield, ritrovatisi con le tasche piene, ma con intenti iniziali, presupponiamo, ben diversi.

Ben dodici anni intercorrono tra l’omonimo settimo album del 2011 e l’ultimo “Confessions Of The Fallen”, per questo – e per tutto ciò che abbiamo detto prima – lo abbiamo aperto con le pinze, con la cautela di chi vuole a tutti costi risentirli tenendo conto dell’incombente paura di rimanere in qualche modo delusi.

Ma già dagli ottimi singoli qualcosa ha iniziato a riconferire vigore a vecchi fuochi spenti, vibes, sepolte dallo scorrere del tempo, che chi ha amato i primi lavori dei Nostri ha sentito riattivarsi quando “Lowest In Me” ha poggiato i piedi sui canali di streaming: killer track dell’album, posta in apertura a dichiarare un vivido viaggio cronologico a ritroso, a rimaneggiare quei campi alternative metal di “Open Your Eyes”, quel riffing granitico di Mike Mushok ornato di armonici artificiali – quanto gli (e ci) piacciono – pungenti come aghi conficcati nella pelle, quella voglia di Aaron Lewis di garantire alla melodia una parte da protagonista nella decadente mestizia del pezzo.

Riprendono tutto questo, gli Staind, lo conficcano nell’acida corporatura della rabbiosa “Cycle Of Hurting”, graffiata dai growl accennati del frontman che aprono al refrain, lo spargono nel chirurgico riffing di “In This Condition” e poi lo contaminano, con piccoli innesti elettronici – le basi timidamente pop-core di “Was Any Of It Real?” e di “The Fray” – un po’ sciapi e poveri d’inventiva, esattamente come le immancabili ballad “Here And Now” e “Better Days”, messe lì come a voler ricordare che, sì, tanti li conoscono per quella roba.

“Hate Me Too” e la conclusiva title track issano nuovamente il livello di attenzione di un album ovviamente non perfetto, anche a livello di produzione – sound non pulitissimo e molto compresso – ma d’altronde i capolavori non sono mai stati nelle corde degli Staind, che hanno sempre intavolato buonissimi album (“Dysfunction”, “Break The Cycle”) e qualche episodio sottotono (“Chapter V” su tutti). Ma “Confessions Of The Fallen” rinnova le buone idee germogliate nel predecessore e le inzuppa nell’atmosfera fumosa delle origini, risultando, forse, il disco più convincente della band post 2001.

Tracklist

01. Lowest In Me
02. Was Any Of It Real?
03. In This Condition
04. Here And Now
05. Out Of Time
06. Cycle Of Hurting
07. The Fray
08. Better Days
09. Hate Me Too
10. Confessions Of The Fallen

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