Heaven x Hell
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Sum 41 – Heaven :x: Hell

It’s so hard to accept
That you’re gone and that’s it

Ma come si fa a riassumere una carriera come quella dei Sum 41? Non è affatto un’impresa semplice. Dall’esordio nel 2000, il gruppo di Ajax, Ontario ha rimescolato le carte più e più volte, cambiando formazione, genere, sfornando dischi osannati da critica e fan e altri accolti meno calorosamente. Sono stati tra gli artisti più importanti del panorama pop punk di inizio millennio e negli ultimi anni sono tra le band più meritevoli per quanto riguarda la dimensione live. Dopo un quarto di secolo di vita, superati tutti i 40 anni – Tom Thacker addirittura ne compie 50 il mese prossimo –, hanno deciso di mettere la parola fine a quest’avventura; ma non prima di un ultimo disco e un’ultima mitica tournée.

Scegliere nomi notoriamente già usati è sempre un bel rischio, ma come ha detto Deryck Whibley: “I Black Sabbath lo hanno avuto per più di 40 anni”. E quindi, “Heaven :x: Hell” è il titolo dell’opera conclusiva dei canadesi, che però, a differenza del celebre omonimo, non presenta alcun cambio drastico di lineup: Frank Zummo alla batteria, Cone McCaslin al basso, Thacker e Dave Brownsound alle chitarre, Whibley a voce, chitarra e tastiere (e al comando della nave, potremmo dire, in quanto si occupa ancora una volta di produzione, mixing e direzione artistica).

È un disco che ha fatto parlare di sé per più di un anno, grazie a questa scelta, e ha continuato a far parlare quando è stata rivelata la copertina: tuttavia, le chiacchiere riguardo a quest’ultima non sono state affatto positive. In effetti, il final album dei Sum 41 si meritava qualcosa di più di quest’immagine, la quale personalmente ha ricordato, più che un dualismo biblico, Le Avventure di Sharkboy e Lavagirl – per chi non avesse colto il riferimento pop, basta una veloce ricerca per capire che non è un paragone di cui andare fieri.

Interessante il concept, o meglio, l’idea di base: un doppio album che racchiude entrambe le facce della medaglia. Un paradiso consacratore del loro passato pop punk e un inferno più vicino alle ultime produzioni, sprigionante chili di metallo. Insomma, ce n’è per tutti, per chi non riesce a scegliere, come se Whibley e soci fossero al tempo stesso mamma e papà, ma anche per chi ha amato solo una delle due versioni. Per fare paragoni con altri dischi recenti di gruppi punk storici, quest’operazione è più simile al ritorno degli olimpici che a quello dei salvatori.

Sum41Band
Foto: Travis Shinn

Si inizia con “Heaven” e per la precisione con “Waiting On A Twist Of Fate”: a quanto pare in paradiso gli altoparlanti risuonano musica hardcore al nostro arrivo. La sensazione iniziale – ma che poi viene confermata anche dal resto di questa prima parte – è quella di un vero viaggio nel tempo: se qualcuno ci cancellasse la memoria e ci dicesse che questo in realtà è il primo album dei Sum 41 rimasterizzato, noi ci crederemmo. I tempi di “All Killer No Filler” (2001) – ma anche di “Half Hour of Power” (2000) – vengono subito in mente anche con gli urletti di “I Can’t Wait” e dell’altra corsa hardcore “Johnny Libertine” (che cita i NOFX, punto di riferimento per Whibley a inizio carriera), ma anche con “Landmines”, il primo singolo estratto, di cui perfino il video è un esplicito omaggio alla loro scanzonata gioventù.

Di puro pop punk abbiamo ancora “Time Won’t Wait”, che potrebbe essere una hit mancante alla discografia dei Simple Plan, e le più moderne e malinconiche “Dopamine” e “Not Quite Myself” (quest’ultima meglio riuscita dell’altra, che scade un po’ troppo nel pop punk overproduced di cui oggi abbonda il mercato). Certe vibrazioni hard rock di “Bad Mistake” ricordano il (purtroppo) trascurato “Screaming Bloody Murder” (2011), mentre l’aggressività e l’assolo super metallaro di Brownsound avvicinano “Future Primitive” a “Does This Look Infected?” (2002) – da notare anche la frase “Maybe we’re all to blame”, riferimento al loro singolo estratto da “Chuck” (2004). All’appello dei dischi pre-rivoluzione manca solo “Underclass Hero” (2007), che infatti fa capolino nella conclusiva “Radio Silence”: purtroppo i canadesi hanno scelto la traccia più debole per accompagnarci all’uscita del loro paradiso, una ballad che manca di mordente e, al contrario dei brani precedenti, appartiene troppo al passato.

Usciti da “Heaven” con il sorriso in volto e magari qualche lacrimuccia trattenuta, “Preparasi A Salire” – sì, il titolo è questo – ci prepara alla discesa negli inferi con un intro che cresce ma che non parte davvero, anzi, rimane abbastanza contenuta e lascia il compito di esplodere alla successiva “Rise Up”, unico assaggio rilasciato di questo “Hell”. Diciamo che all’inferno i Sum 41 si sono stabiliti ormai da qualche anno e sanno come muoversi, avendo trovato la giusta combinazione di metal moderno (a tratti thrash) e punk rock – quest’ultimo soprattutto nelle linee vocali e in una certa attitudine generale. Questo singolo, come “Over The Edge” e “It’s All Me”, rimane nella comfort zone creata con gli ultimi “13 Voices” (2016) e “Order In Decline” (2019) e per forza di cose tutto funziona.

La band tenta di adattarsi un po’ di più ai dettami del metal commerciale moderno in “I Don’t Need Anyone”, che però non convince fino in fondo e suona troppo poco come loro, e in “House of Liars”, che invece grazie ai vaghi rimandi a “Screaming Bloody Murder” risulta meno estranea. Anche all’inferno continuiamo a viaggiare nei ricordi: “Stranger In These Times” ha di nuovo quel mix punk/metal di “Does This Look Infected?”, “You Wanted War” invece è senza alcun dubbio figlia del thrash metal di “Chuck”.

Poco prima della fine veniamo deliziati da una cover, prima (e a quanto pare ultima) volta che la band ne include una all’interno di un disco: la loro versione del classico stonesiano “Paint It Black” è fedelissima all’originale, è solo riverniciata di nero metallizzato – ma neanche troppo, in realtà. Diversamente dal lato angelico, la terra dei peccatori riserba per la fine una delle sorprese più belle: “How The End Begins” in qualche modo ha il compito di chiudere per sempre una discografia e ci riesce benissimo, con epicità, profondità ma soprattutto semplicità, poiché non serve esagerare per rendere al meglio.

Un doppio album forse un po’ troppo corto (55 minuti, 20 tracce), ma del resto la musica oggi va più veloce e pretendere sempre dischi di una certa lunghezza non è sostenibile per tutti gli artisti: ma poi, sinceramente, quest’opera è bella così com’è. Con tutta probabilità non diventerà un capolavoro, ma il suo compito lo assolve a pieni voti. Come recita “Dopamine” – citata a inizio articolo –, è difficile accettare che questa sia la fine, ma possiamo ringraziare i Sum 41 di averci fatto un ultimo regalo. Addio, The Sums.

Tracklist

01. Waiting On A Twist Of Fate
02. Landmines
03. I Can’t Wait
04. Time Won’t Wait
05. Future Primitive
06. Dopamine
07. Not Quite Myself
08. Bad Mistake
09. Johnny Libertine
10. Radio Silence
11. Preparasi A Salire
12. Rise Up
13. Stranger In These Times
14. I Don’t Need Anyone
15. Over The Edge
16. House Of Liars
17. You Wanted War
18. Paint It Black
19. It’s All Me
20. How The End Begins

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