Frank Zappa: come qualsiasi scoperta di qualsiasi artista, ogni zappiano, ogni zappafan ha la sua. Chi l’ha scoperto grazie al fratello maggiore, chi grazie al vicino di casa, chi grazie al compagno di scuola particolarmente ferrato in chimica e musica. Io lo scoprii con la collana in edicola dell’America del Rock, nel 1995. Molti, tra cui me, sono stati poi piuttosto rapidamente rapiti da tale morbo fino a rendere la musica di Zappa una colonna portante della propria vita, e non solo una colonna… sonora. Quindi, come i musulmani con la Mecca, ho deciso quest’anno (dopo aver assistito a innumerevoli concerti degli ex membri delle band del Maestro di Baltimora) di recarmi a Bad Doberan, nel remoto Nord Est delle Germania (dove non c’è fondamentalmente nulla) per assistere e, in un certo qual senso, prendere parte allo Zappanale. Un festival tanto su Frank Zappa quanto dedicato agli zappiani stessi, a quei freak (dentro e/o fuori) sparsi in ogni angolo della Terra. Trentaduesima edizione di questo Zappanale che si autodefinisce come il più grande festival zappiano del mondo. Non solo Zappa, come vedremo, in ogni caso.

Il festival inizia con i cancelli aperti per tutti i curiosi e tali curiosi si beccano l’orchestra della polizia di Berlino (che ti spiattella sia Zappa che quasi ci mancava che facessero la macarena), la Paul Green Rock Academy (una valanga di talentuosi teenager, capaci soprattutto nelle intenzioni – ne parleremo in seguito) e poi un paio di cover band zappiane che, come spesso accade in questi casi, scadono nel relativamente facile blues-rock e nell’ostentazione dell’imitazione – insomma bello se hai tanta birra da bere, ma le copie carbone lasciano il tempo che trovano. Per fortuna il vero spettacolo del primo giorno è la cosiddetta Zappa Town, la location del festival. Decine di opere artistiche, soprattutto larghi teloni e manifesti con l’effige di Frank, in tutte le salse, spesso e volentieri anche lavori degni di nota. Attorno al palco principale vi ci sono poi affissi tutti i manifesti delle passate trentuno edizioni: un’idea tanto semplice quanto significativa. L’intrattenimento migliore della giornata introduttiva, soprattutto per un debuttante come me, è la scoperta, l’osservazione e poi conoscenza di decine di fan della musica di Zappa e della cultura “orbitante” attorno ad essa. Tantissimi tedeschi e un mix di americani, inglesi, spagnoli e qualche italiano. Tanti, forse troppi, “baffi e mosca” ma anche tanti sorrisi, voglia di chiacchierare, facce stralunate ma contente, personaggioni della vecchia guardia e qualche nuovo arrivo. Quando vedo tutto questo penso che sia in fin dei conti impossibile essere soli al mondo, basta cercare bene e unirsi a chi ti somiglia, anche se vive in Nuova Zelanda. Ecco perché penso che lo Zappanale sia il festival degli aficionados di Zappa, più che dell’artista, e mi va bene. È comunque anche il festival della musica “fuori dalla norma”, e sarebbe bello si sapesse di più che non si tratta solo di cover band, anzi. Per inciso, ci saranno pure Jon Anderson (voce degli Yes) e Billy Cobham (batterista della Mahavishnu Orchestra).

Interessante la battaglia tra le t-shirt. Ognuno pare sfoggiare la più rara, infatti non ho visto nemmeno una con Frank seduto sul cesso: sarebbe troppo ovvia qui. Invece ho notato sia chi se l’è fatta in casa la maglietta, con tanto d’immagine su carta adesiva, che in lavatrice succede un macello. Oppure chi fa l’alternativo e ti piazza la maglietta dei Pink Floyd, dei Grateful Dead o addirittura dei Nirvana. A saperlo, me ne portavo una di Shakira – avrei fatto schiattare d’invidia tutti quanti. Tante persone anziane (orgogliosi di lasciar intendere che loro l’hanno visto sul serio Frank), e che hanno fatto la loro vita, e hanno tenuto la musica di FZ come ancora di salvezza, come qualcosa da sfoggiare con sé stessi e pochi altri. Il mondo alla rovescia, dove devi giustificare perché non sei. Eppure accettato così, al contrario. Affascinante, una forma di libertà di espressione questa “Zappa Town”, dove vedi pochissimi smartphone in giro e capisci che qui la gente è, e non appare e basta. Il festival è durato quattro giorni con musica che iniziava in tarda mattinata e terminava sempre a notte fonda.

Kuhn Fu

Il primo lampante esempio di come lo Zappanale non sia solo una questione zappiana. I Kuhn Fu (chitarra, basso, batteria, sax baritono, sax soprano e clarinetto basso.. più un cantato vago e travolgente) spiattellano uno show tutto riff ed entusiasmo. Tonalità minori e velocità, cavalcate che gli Iron Maiden sembrano Simon&Garfunkel a confronto, si potrebbero definite punk-jazz, ma in realtà io ci vedo anche tanto tanto rock n’ roll. Fanno due spettacoli (uno di mattina e uno ben oltre la mezzanotte) e quando ci scambio due chiacchiere trovo persone estremamente calme e socievoli che escono immediatamente dai personaggi mefistofelici che paiono vestire sul palco. Interessante come sia una band che non ha una vera base, se non per fini amministrativi. Vengono da tutto il mondo e vivono in città diverse. Vorrebbero semplicemente suonare più spesso, non bloccati quasi un sottile ostracismo verso queste band forse troppo eclettiche eppure cosi piacevoli a qualsiasi orecchio. Non serve sapere chi sia John Coltrane per godersi un loro show. Al massimo servono i tappi per le orecchie per non lasciarvici i timpani, mentre il leader Christian Kühn non riesce nemmeno lui a stare fermo, trascinato dalla sua stessa musica, o il contrabbassista Esat Ekincioglu viaggia scatenato sulle quattro corde. In tutta questa festa musicale, sembra quasi prevedibile vedere la sezione fiati darci dentro tra doppi soli di Koen Boeijinga (al sax soprano e alto… in contemporanea) e scambi di bombardamenti sonori tra Sofia Salvo al sax baritono e Ziv Taubenfel al clarinetto basso. Voto 8/10 – sinceri e potenti.

Paul Green Rock Academy

La contrapposizione è davvero lancinante, da un lato svariate tribute band zappiane, tutte uguali e con addirittura lo stesso repertorio, messe lì a salvaguardare l’animale in via di estinzione dello zappiano originale: brutto, sporco… e saccente? Non so quanto Frank avrebbe gradito. Ma dall’altro lato questa schiera di ragazzi compresa tra i 15 e 20 anni, la Paul Green Rock Academy, un esercito che ha un effetto devastante qualsiasi cosa facciano. Ogni sera un repertorio diverso di due ore, il secondo giorno un show interamente dedicato a Zappa, carico di canzoni tanto difficili quanto travolgenti. Incontro Paul Green, il loro direttore, nel backstage e mi complimento con lui, impressionato non solo dalla tecnica ma dal grip di questi ragazzi, lui ringrazia e si trova d’accordo proprio sulla parola “grip”. Poi quando parli con loro, tornano ragazzini, sono educati e ringraziano sinceramente. Il pubblico quindi si divideva tra chi ha trovato questi ragazzi come lo show più bello e significativo e chi pareva rimanere inamovibile sulla tradizione e baffi copia carbone. Per loro la Paul Green Rock Academy significa che è arrivato il momento di farsi da parte, che gli Anni Sessanta e Settanta sono finiti e che la musica non sono più capelli lunghi e baffoni, ma rimangono le intenzioni. Sia chiaro, non stiamo parlando di amici o Britain’s Got Talent…. sapete chi è Paul Green? E colui al quale si sono ispirati per l’iconico film “School of Rock”. La differenza è che lui ha creato un movimento e ogni anni trasforma ragazzi promettenti in degli esplosivi animali da palcoscenico. Voto 10/10 senza nemmeno pensare alle età, che altrimenti ci scappa la lode.

Napoleon Murphy Brock & Hamburg Jazz Trio

Una poco velata polemica arriva dal palco, forse (forse?) sul perché una “leggenda zappiana” come Napoleon Murphy Brock (vocalist nei più celebri album rock di FZ, nella metà degli Anni Settanta) sia in cartellone il secondo giorno e nel tardo pomeriggio. Pare sia stata una questione di decisioni prese all’ultimo momento. In ogni caso Napoleon, ormai vicino agli ottant’anni, quando si tratta di fare spettacolo balla e canta e suona quasi come il tempo non fosse mai passato, e come suo solito sempre con entusiasmo e sincero affetto verso chi lo apprezza e gli vuole bene. Lo show è un ben bilanciato mix di delicati momenti zappiani (parte addirittura con la leggera e sognante “Blessed Relief”) e brani della tradizionale canzone americana. Il travolgente frontman (che va ricordato fu scelto da Frank quasi senza una vera audizione) si fa accompagnare dall’Hamburg(er) Jazz Trio, bilanciato eppure sfavillante trio contrabbasso/pianoforte/batteria che, quando e relativamente spesso Napoleon ha bisogno di ricaricare le batterie, gli rubano meritatamente la scena. Tanta classe sia dal grande comandante che dalla sua preziosa ciurma. Voto 7/10.

Jon Anderson

Ancora sul palco la Paul Green Rock Academy per il piatto forte della terza giornata dello Zappanale: Jon Anderson, ex cantante degli Yes, colonna portante del prog britannico Anni Settanta. Il cantante, che se la passa decisamente bene (chioma ancora folta e camicetta sbarazzina) si lascia avvolgere dagli scatenati ragazzi dell’Academy. Il risultato è un show denso ed entusiasmante, mai lento e mai stucchevole, rischio sempre dietro l’angolo col progressive. Vengono proposti decine di brani del periodo d’oro degli Yes e ascoltarli dal vivo suonati e cantati con pressoché cristallina perfezione è stata una esperienza di qualità aggiuntasi a questo Zappanale: ballate prog, chitarre acustiche, due bassi Rickenbacker come è giusto che sia e tante melodie trascinanti e piacevoli. La sera scendeva e il main stage si chiudeva con vera classe per la giornata di sabato. Voto 7.5/10.

Bobby Rausch

Il clarinetto basso pompa aria e note, sembra una locomotiva a vapore, a tratti quasi un didgeridoo impazzito che lancia urla incendiarie. Alla sua sinistra una batteria minimale e semi elettronica, con tanto lavoro di cassa e rullante. Infine, sul lato opposto, un grosso eppure delicato sax baritono: alle melodie ci pensa lui, niente sconti ma nemmeno esagerazioni, la dose giusta per l’intero concerto. Questi sono i berlinesi Bobby Rausch (Lutz Streun in tuta da lavoro, Jurgen Meyer in divisa da rockstar texana, Oleg Hollmann – gentile ed elegante) e li incontro in serata, prima che il loro set chiuda il sabato, iniziando ben oltre la mezzanotte ma tanto sia nel mezzo del nulla nella campagna tedesca… chi vuoi che abbia da ridire. Mi tolgo il pensiero di sapere come mai “Bobby Rausch”, visto che nessuno si chiami Bobby nella band: la spiegazione non c’è e l’accetto, quasi me lo sentivo. Parliamo di come Berlino sembri essere la dimora perfetta per il loro genere, per questo jazz mescolato a ritmi da club, appunto, berlinese. Si balla parecchio durante il loro show, e loro non lo invogliano nemmeno tanto, loro pensano a suonare, il ballo e la voglia di muoversi, nonostante alla fine di una giornata di oltre dodici ore di musica, si manifestano spontaneamente sotto quel soffice bombardamento sonoro. Confessano che vorrebbero tornare a suonare in Italia e ovviamente di voler approdare in terra anglosassone. Penso sia solo questione di occasione giusta, band come i Bobby Rausch hanno talento, carattere e gusto. Voto 8/10

Banned from Utopia

A fronte della valanga di tribute band in tutte le salse, finalmente la sera di domenica presenta il piatto forte per lo stuolo di zappafans presenti nelle campagne dell’ex DDR. Ad esclusione dei due ottimi chitarristi, ben quattro membri originali in una delle formazioni guidate dal Maestro di Baltimora compongono i Banned From Utopia. Quel che ho fatto subito, per gustarmi con la mentalità giusta la loro esibizione, è stato pensare che quei quattro (Scott Thunes, Ray White, Chad Wackerman, Robert Martin) beh… loro erano stati scelti proprio dallo zio Frank per suonare la sua musica. Loro quindi, ne hanno sia una sorta di diritto che le capacità di pensare come Zappa avrebbe voluto l’esibizione. Lo show è ricco di grandi momenti di pura tecnica e approccio zappiano, volumi alti, montagne di melodie che s’intrecciano, e ritmi frenetici dalla batteria di Wackerman. I due chitarristi, l’hendrixiano Robbie Mangano e il ben più acido/moderno Jamie Kime non risparmiano spettacolo mentre Thunes al basso si scatena sia nel suo eterno girovagare per il palco (finché non gli si spegne il dispositivo wireless…) che nel suonare il suo manico in maniera che, da bassista, definirei deliziosa: sempre presente ritmicamente, non perde occasione di doppiare le linee di altri strumenti con un’estrema naturalezza. Gli si perdona il suo ben noto “caratteraccio” a fronte di tale maestria. Un vero piacere ascoltarlo, e dopotutto sono lui e Wackerman a tenere su lo show visto che gli anni passano per tutti e Ray White e Bobby Martin fanno più un lavoro di cuore che di tecnica vocale. Robert Martin è la voce che molti conoscono per la cover di “Stairway To Heaven” di Zappa, dal tour dell’88. Ray White è la voce solista in Doreen (da “You are what you is”, 1981) ed è proprio con tale splendida canzone che iniziano il loro set. È una questione di sentimenti, l’amore che si prova per l’esplosione di musica di un brano poco noto come Doreen. Tale brano rappresenta la migliore ragione per cui essere lì presenti, freak o meno, baffoni o personaggi curiosi tratti dalla sua strana discografia, la ragione fondamentale è la sua musica e il suo inarrestabile genio, percepibile ancora su ogni canzone. I Banned from Utopia fanno quindi il meglio che possono: dare la loro testimonianza live. Voto 9, perché lo fanno ancora.

RADZ

Non avevo messo in conto di parlare di questa band ucraina, come non avevo nemmeno previsto di divertirmi cosi tanto proprio con l’ultimissima band in cartellone. Iniziano ben oltre la mezzanotte e presentano uno show tanto rocambolesco quanto studiato in ogni dettaglio, dove mescolano brani di loro produzione con alcuni classici zappiani, tutto eseguito con gran voglia di divertire. Non credo infatti che mai più rivedrò gente di tutte le età ballare alle due di notte una frenetica versione del classico zappiano “Dancin’ Fool” – brano così ironico da essere perfetto per chiudere lo Zappanale. Voto 9/10 alla band per la cura di ogni dettaglio e soprattutto per aver voluto infilare nel mix, con tanto di immagini televisive, la voce originale di Frank… pochi attimi ma finalmente da brividi, quelli che forse erano mancati fino al quel momento proprio in tutto il festival.

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