Summer Breeze Open Air 2015
13/08/15 - Aerodromo dell’Aeroclub Dinkelsbühl, Dinkelsbühl, Germania


Articolo a cura di Stefano Torretta

Primo giorno (giovedì 13 agosto 2015)

Dopo la giornata introduttiva dove solamente i due palchi minori (Camel Stage e T-Stage) erano aperti, prende finalmente il via l’edizione 2015 del Summer Breeze con l’apertura dell’area dei due palchi maggiori (Main Stage e Pain Stage). Vi è grande attesa per le esibizioni dei Teutonic 4 (Tankard, Destruction, Sodom e Kreator) che dal pomeriggio fino a sera si alterneranno sul Pain Stage (i primi tre) per chiudere la sequenza sul Main Stage (i Kreator). Un’occasione estremamente ghiotta per tutti gli amanti del thrash metal di stampo tedesco.
Ad aprire le danze (e mai termine fu più calzante), ci pensano i Trollfest. La band norvegese si presenta sul palco come se fosse appena uscita da un film di Mad Max, sporca, vestita nei modi più fantasiosi, e soprattutto estremamente numerosa. Nonostante una carriera ormai decennale e sei album all’attivo, i nostri vanno a pescare esclusivamente nella produzione più recente, quella proveniente da “Kaptein Kaos” e da “Brumlebassen”. Solamente il brano conclusivo della loro setilist, “Helvetes Hunden Garm”, permette ai numerosissimi fan assiepati sotto il palco di fare un tuffo nel passato per giungere a dieci anni fa, al momento dell’esordio della band con l’album “Willkommen Folk Tell Drekka Fest!”. La musica proposta dai Trollfest è sicuramente un’energica sveglia per il pubblico del Summer Breeze: ritmi caraibici, polka, folk di tradizione scandinava, il tutto condito con quantità industriali di birra. Il livello di fiesta proposto dai norvegesi è sicuramente dilagante, tanto che non è difficile trovare spettatori impegnati in danze di vario tipo. La presenza di un numeroso gruppo di musicisti sul palco permette di creare un muro sonoro di non indifferente portata, anche se spesso l’utilizzo di così tanti strumenti contemporaneamente causa un fastidioso effetto di caos non organizzato, rendendo la musica alquanto inascoltabile. Ma questi sono i piccoli problemi in cui si incappa quando ci si tuffa senza pensarci due volte nel delirio festaiolo.
Cambio di palco e cambio nettissimo di registro. I Megaherz ad una prima occhiata potrebbero sembrare i fratelli più piccoli dei Rammstein: face painting, vestiti da banchieri, Neue Deutsche Härte, tutto il campionario in bella mostra. Andando a guardare invece le date ci si accorge che sono coetanei dei Rammstein e come loro pionieri di tutto quel movimento musicale tedesco. La caratteristica principale che distingue però i Megaherz dai Rammstein è un’apertura verso sonorità più delicate che permette alle loro canzoni di essere al contempo pesanti ma ballabili. Anche in questo caso la setlist va a pescare soprattutto nelle ultime due uscite della band (“Zombieland” e “Götterdämmerung”) con piccole puntate nel passato. Il pubblico sembra apprezzare estremamente questa proposta musicale tanto che affolla tutta l’area di fronte al Pain Stage. Risultato estremamente soddisfacente, vista anche l’ora non proprio favorevole.
Ed è tempo delle Sirens. Ed è anche tempo per il pubblico di fuggire in massa. A quanto pare gli spettatori del Summer Breeze non sono propriamente fan delle tre belle e brave cantanti, tanto che l’area davanti al Main Stage, capace di contenere un volume di persone notevole, rimane tristemente spopolata. Solo col prosieguo dell’esibizione si vedrà un po’ più di affluenza, ma nulla di clamoroso se confrontata con le due precedenti band. Kari, Anneke e Liv si alternano sul palco, cantano tutte e tre assieme, vanno a pescare nelle diverse carriere, soliste o in band, che hanno avuto e lo spettacolo risulta comunque vario ed accattivante, ma in molti momenti soffre di un tasso di mielosità troppo elevato (colpa questa di Liv e dei brani tratti dalla sua carriera). Anche la ridondanza di avere tre cantanti in contemporanea sul palco nuoce un po’, ma per fortuna le tre sirene cercano di suddividersi il tempo di visibilità. Fa molto piacere avere l’occasione di sentire brani provenienti dai tempi dei The Gathering o dei The 3rd and the Mortal e nonostante alcuni problemi tecnici con le chitarre lo show scorre via.
A ridare la giusta dimensione al festival ci pensa la Kyle Gass Band. Sebbene KG sia decisamente meno istrionico rispetto al suo sodale Jack Black, la proposta musicale è di tutto rispetto. Gli dei del rock ‘n roll sembrano apprezzare il suono di questi cinque folli, tanto che decidono di donare diverse nuvole che andranno a creare un’atmosfera più in linea con la luce smorzata presente nei club, luogo deputato all’ascolto dell’incrocio tra hard rock e blues proposto dai nostri. Gass, come al solito in canotta e pantaloncini corti da spiaggia, cerca di intrattenere il pubblico, ma la distanza da Black si sente tutta. Per fortuna la KGB ha un asso nella manica: musica, tanta musica, ottima musica. Che provenga dal loro unico album (ed interpretata dal cantante/chitarrista Mike Bray) oppure siano delle cover (Michael Jackson, Jackson 5, The Ides of March), l’interesse del pubblico (nuovamente in ampio numero) è sempre catalizzato verso il palco. Che sia per la melodia, per la voce di Bray o per i testi poco importa. Da brividi l’esecuzione di “Gypsy Scroll”, dove le condizioni meteorologiche della canzone rispecchiano quasi fedelmente quelle esterne del festival. Un concerto della KGB non sarebbe tale senza l’apparizione del flauto di Gass più e più volte. Missione compiuta, naturalmente!
Sotto il sole ben caldo del primo pomeriggio è la volta dei Corvus Corax. La formazione tedesca sul palco non passa affatto inosservata. Saranno i costumi antichi, il campionario di strumenti musicali che ricopre il palco o la musica neo-medievale da festival folk. Con 26 anni di carriera alle spalle, i menestrelli possono andare a pescare lungo tutta la loro storia, deliziando il pubblico con un perfetto best of. Pochi inserti vocali, tanta musica prelevata dal passato del continente europeo. Cornamuse, flauti, tamburi... l’antitesi alla tipica band del Summer Breeze è qui davanti agli occhi di tutti. Il pubblico si lascia trascinare in questo vortice di brani estremamente vivaci e ballabili, e soprattutto le prime file sono completamente coinvolte in questa festa da locanda medievale.
summer_breeze_2015_report_opeth_vÈ finalmente ora di scatenare la prima delle band thrash metal della giornata: i Tankard. Con oltre trenta anni d’esperienza alle spalle la band di Francoforte non ha più nulla da dimostrare, ed allora via al divertimento ed alla musica tiratissima. Lo show di Gerre e soci, strutturato più sui classici degli anni ’80 che sulla produzione più recente (e quindi un piacere da ascoltare per i fan di vecchia data) scorre via veloce e tagliente. Nonostante la violenza dei brani proposti Gerre si prende tutto il tempo che vuole per scherzare con l’affascinante camerawoman presente sul palco, tanto da arrivare a sollevarla davanti a sé in qualche modo per poter farle filmare il pubblico intento a scatenarsi nel pit... vecchio satiro scaltro! Considerata l’ora ed il caldo, il moshpit pieno ed iperattivo è la migliore testimonianza della capacità della band di riuscire sempre a caricare a dovere il pubblico presente.
I Die Apokalyptischen Reiter dal vivo sono sempre sinonimo di spettacolarità ed anche in questo caso non si sono affatto trattenuti. Setlist incentrata principalmente sull’ultimo uscito “Tief.Tiefer” e su “Riders On The Storm”, più qualche ripescaggio da “All You Need Is Love” e da “Licht”, alquanto sbilanciata quindi sulla seconda parte della loro carriera, ma comunque estremamente coinvolgente, con un Daniel “Fuchs” Täumel sempre pronto a trascinare il pubblico. L’unica nota negativa, di questo colorato combo, è l’abbandono da parte di Mark “Dr. Pest” Szakul del classico costume sadomaso con maschera. Forse la loro musica non ne risentirà, ma il disappunto negli occhi dei fan è sempre estremamente evidente!
Se i Tankard avevano già dato dimostrazione di cosa sia capace di fare una band di thrash metal tedesco, i Destruction tengono fede al proprio nome e portano ad un nuovo livello la devastazione fisica e sonora a cui sono sottoposti gli spettatori. A rendere ancora più rovente l’atmosfera ci pensano diverse fiammate provenienti dal palco, ma è soprattutto una setlist tutta giocata sui classici degli anni ’80 ad infiammare il pubblico. Purtroppo il fisico umano prima o poi arriva inesorabilmente ad un punto di rottura, e sia per la band, costretta a prendersi una breve pausa a dieci minuti dalla conclusione della propria esibizione, che per il pubblico, ormai incapace a continuare la propria distruzione in un pit ormai provato, è tempo di riprendersi. Prova decisamente magistrale per una band con trent’anni alle spalle ma ancora capace di far muovere fan di tutte le età.
Mentre finalmente il sole inizia molto lentamente a calare, le atmosfere cambiano completamente grazie all’esibizione dei Black Stone Cherry. Con un pubblico completamente rinnovato rispetto a quello presente durante lo show dei Destruction, gli americani danno fondo a tutta la loro discografia per portare sulle scene una setlist che catturi l’attenzione non solo degli spettatori di sesso femminile, riuscendoci in parte. Il coinvolgimento del pubblico è limitato solamente alle prime file, quelle dei fedelissimi, mentre il resto dei presenti segue solo in parte l’esibizione, in attesa di piatti più appetibili (leggi Opeth). Le stesse richieste del frontman Chris Robertson indirizzate verso il pubblico di mettersi a saltare cadono abbastanza nel vuoto, smuovendo solo poche aree più a ridosso del palco. Esibizione sicuramente ben riuscita, anche se vessata da tempi decisamente dilatati per colpa di continui assoli o di momenti strumentali che hanno spesso distrutto la struttura dei brani. Non una band da festival estivo sotto il sole a picco.
Se si deve invece parlare di una band che non ha problemi dovunque la si metta, si parla di Sodom. I tedeschi, pur andando a pescare a piene mani nel classico “Agent Orange” hanno comunque operato una scelta di brani che descrivesse bene tutta la loro carriera. Nonostante alcuni fastidiosi problemi con la batteria che andranno ad intaccare gran parte della loro performance, Thomas "Tom" Such e soci riescono comunque a mettere in piedi uno show di tutto rispetto, complice anche una temperatura più bassa che ha permesso ai fan nel mosh pit di scatenarsi senza troppi problemi. Sicuramente interessante la loro personalissima versione di “Surfin’ Bird”, distante anni luce dall’originale ma abrasiva come le migliori produzioni della band teutonica.
Con il sole ormai ben dietro il Main Stage, le temperature più basse, le ombre lunghe, gli Opeth possono finalmente fare la loro comparsa. Il vero mattatore della serata è Mikael Åkerfeldt, occhiali da sole da rockstar, sempre compassato anche quando impegnato a dire le peggiori idiozie, comicità scandinava ben poco compresa dal pubblico, ma sempre grande interprete della musica lunare degli Opeth. Scaletta quasi “tranquilla”, giocata più sulle atmosfere cupe che su quelle violente. Il pubblico non può far altro che rimanere ipnotizzato dalle note suonate dalla band svedese. Lo stesso Åkerfeldt sembra quasi trasfigurato, perso in un mondo lontano, impegnato a trasferire attraverso la sua chitarra sensazioni percepite in un lontano altrove. Spettacolo decisamente superlativo che ha lasciato il pubblico esausto emozionalmente.
Dopo una prova come quella degli Opeth è alquanto difficile poter fare qualcosa di meglio, ma i furbi organizzatori del Summer Breeze hanno piazzato saggiamente i Saltatio Mortis. La band di Mannheim riesce ad ottenere forse il pubblico più ampio dell’intera giornata. Complice, sicuramente, i festeggiamenti per i quindici anni di carriera, ma soprattutto il grande richiamo che hanno in Germania. I Saltatio Mortis ce la mettono tutta per rendere questo show memorabile. Fiamme e palle di fuoco, fuochi d’artificio, perfino due brani cantanti senza impianto luci, solo con illuminazione naturale proveniente da bracieri, per ricreare perfettamente l’atmosfera da taverna. Il loro folk metal medievale si avvicina pericolosamente al pop (e la voce alla Pupo del cantante Alea der Bescheidene aiuta molto) e la risposta del pubblico con cori da stadio, balli e duetti col cantante, è totale. In Italia un evento del genere si sarebbe tenuto in uno stadio, con un biglietto costosissimo e con una visibilità del palco per chi si trova nelle ultime file pressoché nulla. In Germania invece è tutto molto più alla mano, accessibile e, forse per questo, più soddisfacente.
Dopo una doppietta di gruppi di tale livello sarebbe quasi il caso di chiudere qui a serata, ma gli organizzatori rincarano ulteriormente la dose con l’ultimo gruppo thrash metal della giornata, i Kreator. A differenza degli altri loro colleghi storici Mille Petrozza e soci focalizzano maggiormente la propria setlist su produzioni più recenti, offrendo col contagocce i classici del passato. Modernità rappresentata anche dall’allestimento di schermi speciali sul palco per poter proiettare immagini e filmati connessi con le canzoni suonate. I ragazzi nel mosh pit non si risparmiano, ma per fortuna i Kreator offrono al pubblico brani più tranquilli durante i quali ci si può riprendere dalla fatica fisica. Sebbene non si direbbe a prima vista, i quattro tedeschi in fondo in fondo sono anche dei gran sentimentali, e tra una fiammata e l’altra si accomiatano dal loro pubblico sotto una nevicata di coriandoli.
Dopo questa lunga e folle corsa di emozioni, e vista anche l’ora ormai decisamente tarda, il pubblico presente all’ultima esibizione della giornata, quella degli Amorphis, è decisamente scarno e svogliato. Tanto svogliato da prendere perfino in contropiede un Tomi Joutsen ormai non più rasta (alquanto inguardabile) che perde un bel po’ di tempo sia sul primo brano che sul secondo della serata a cercare di ottenere qualche risposta dai presenti. Minuti buttati in apatia varia tra il pubblico e Joutsen che di certo non giocano a favore della professionalità della band. Anche un errore sull’attacco di un brano segna un ulteriore punto a sfavore della band finlandese. Ma dove pecca l’umana natura, la musica per fortuna salva in parte l’esibizione. I festeggiamenti per i 20 anni di “Tales From The Thousand Lakes” ci regalano una riproposizione fedele del suddetto album, alla quale si aggiungono anche alcuni brani provenienti da “Elegy”. Un bel salto nel passato, nel periodo più apprezzato dai fans della band. Peccato che in pochi abbiano potuto godersi questo spettacolo.

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Secondo giorno (venerdì 14 agosto 2015)

Risvegliarsi di mattina con una dolce pioggerella che colpisce delicatamente la propria tenda può essere anche piacevole per lo spirito, ma un brutto presagio per una lunga giornata all’aperto. Fortunatamente il sole si fa rivedere ben presto lasciando sperare in un’altra ottima sequenza di concerti.
A dare la sveglia all’ampio pubblico già accorso nell’area concerti ci pensano gli Any Given Day. La band tedesca composta da giovani e che suona principalmente per i giovani riesce a far smuovere fin da subito i fan presenti. Con un solo album all’attivo, danno praticamente fondo a tutti i brani disponibili, aggiungendo per l’occasione una gustosa cover della canzone “Diamonds” di Rihanna. La risposta dal parte del pubblico è estremamente sostenuta, con circle pit, balli e wall of death alquanto energici.
Il cambio di mentalità e stile con il gruppo successivo, gli Heidevolk, è talmente netto che la quasi totalità del pubblico si allontana dall’area concerti per venire rimpiazzata da altre tipologie di spettatori. La band olandese, sebbene costretta ad operare sotto i sole a picco di mezzogiorno, dà il meglio di sé, con brani che pescano in gran parte della loro produzione, soprattutto dall’ultimo parto “Velua”. Le lunghe e complesse canzoni folk metal perdono un po’ di fascino quando non si riesce a gustarle al buio di un club con una birra ghiacciata in mano, ma l’attrattiva delle composizioni è tale che riesce comunque a catturare l’attenzione del pubblico. Il fatto che tali brani siano cantati in olandese aggiunge carisma e mistero ma al contempo non permette di comprendere appieno le storie che vengono raccontate. Una band che merita di essere risentita, magari in un contesto più adeguato.
Chi invece non ha problemi di sorta sono i Kissin’ Dynamite. Estetica hair rock anni ’80, movenze ammiccanti, rock esplosivo che manda in visibilio il pubblico femminile. Nonostante lo slot orario non proprio favorevole la band fa decisamente sfacelo sia per l’aspetto visivo che per quello musicale. Tralasciando il non entusiasmante debutto del 2008 “Steel Of Swabia”, i cinque fotomodelli si concentrano sulla produzione più recente, con l’ultimo nato “Megalomania” in testa. Al di là dell’aspetto puramente estetico, la band sa come suonare e attacca il pubblico con cannonate di puro divertimento festaiolo, inducendo gran parte dei presenti a dimenarsi in balli più o meno azzeccati. Per essere un riempitivo dell’ora di pranzo sono quanto di meglio si potesse chiedere.
Per riprendersi da questo pieno di festa ed ormoni i Blutengel sono proprio quello che ci vuole. Questo duo electro goth pop, alquanto fuori luogo sotto il sole a picco del primo pomeriggio, investe il pubblico con una coltre di oscurità grazie a brani raffinati e tenebrosi. Nonostante lo slot completamente sbagliato il pubblico apprezza estremamente, si lascia coinvolgere dalle melodie ed esplode ogniqualvolta delle belle ballerine/mangiatrici di fuoco fanno la loro comparsa in scena. Come per gli Heidevolk, anche i Blutengel meritano di essere rivisti in un contesto più consono al loro tipo di musica.
Gli scozzesi Alestorm, invece, stanno bene dovunque li metti, purché abbiano a portata di mano dosi massicce di birra! Pienone di pubblico come solo gli headliner più famosi sanno richiamare, con pirati, spadaccini e marmaglia varia ad imperversare con armi di plastica sotto il palco. Se alla vitale (ed alcolica) energia trasmessa dalla band aggiungiamo un mosh pit che non si è mai fermato per tutta la durata dell’esibizione, raggiungendo con tutta probabilità i livelli più elevati di movimento e violenza, si può concludere che la festa che ci si aspettava è riuscita in pieno, merito della birra, delle canzoni e della simpatia della band (ed il loro telone, con due banane/anatre vince a mani basse il premio di banner più strambo della manifestazione).
summer_breeze_2015_report_bloodbath_vDalla birra si passa direttamente ai trip psichedelici da acido. I Kadavar, nuova rivelazione teutonica del rock anni ’70, si presentano al Summer Breeze più carichi che mai. Battendo i lidi della psichedelia e del rock primigenio, la band berlinese per quaranta minuti trasporta il pubblico del Summer Breeze nelle assolate lande di Woodstock del 1969. La fama che i tre musicisti si sono guadagnati negli ultimi anni è più che meritata. Show estremamente solido, che pecca un po’ troppo di staticità da parte della band ma che viene riscattato da un’ottima proposta musicale.
Graziati da una coltre di nuvole in tema con il genere di musica proposto, gli Ensiferum scatenano il pubblico con il loro viking metal estremamente melodico. A farla da padrone è l’ultimo parto creativo del combo finlandese, “One Man Army” e lo spettacolo è assicurato. Con un mosh pit sempre attivo, il pubblico si lascia trascinare dalla narrazione di gesta epiche. Non solo ambientazione folcloristica, però, ma anche una strizzata d’occhio ai Motorhead con la conclusiva “Two of Spades”, graziata dalla presenza sul palco di due avvenenti ballerine.
Dopo la vincente scorribanda dei finlandesi, l’area concerti si ritrova alquanto svuotata per l’esibizione dei Pyogenesis. È un vero peccato vedere che una band dal passato estremamente illustre sia finita così in basso nel cartellone della giornata, ma soprattutto che si sia ridotta a far giocare il proprio pubblico con i rotoli di carta igienica. Note sociali a parti, lo show proposto dal combo di Stoccarda è un gran bel salto nel passato, con una perfetta alternanza tra brani più lenti (non per nulla la band ha giocato un ruolo chiave nella creazione del gothic metal all’inizio degli anni ’90) ed altri più energici.
In attesa dell’inizio del concerto dei Sepultura, tutta l’area concerti viene chiusa per l’annuncio di un improvviso temporale che si abbatterà sulla zona per la successiva ora. La professionalità e la preparazione di tutto il gruppo che gestisce il festival si vede soprattutto in questi frangenti. Migliaia di spettatori vengono indirizzati alle uscite, mentre le varie attrezzature vengono messe in sicurezza. Nonostante la violenza del vento e del nubifragio, i danni nell’area concerti sono pressoché nulli, tanto che non appena il vortice di pioggia si è allontanato il festival può riprendere il suo corso senza altri problemi. È tempo dei Sepultura, quindi, e dei festeggiamenti per i 30 anni di carriera. Derrick Green (anche lui senza più rasta) scherza ad inizio concerto dicendo che si sta combattendo contro la pioggia, ma la band brasiliana (come già segnalato nel report del Metalcamp), stanno combattendo anche contro un nemico molto più insidioso: lo spettro dei fratelli Cavalera. Non è possibile che in un’esibizione commemorativa per i primi 30 anni di carriera, gli ultimi 20 vengano quasi completamente dimenticati, proponendo solo due canzoni (una da “The Mediator Between The Head And Hands Must Be The Heart” e l’altra da “Kairos”), mentre il grosso dei brani suonati proviene da quello scarso decennio quando nella band vi era ancora Max Cavalera. Sicuramente una gioia per i fan di vecchia data della band che possono ancora ascoltare quei classici intramontabili che hanno reso grande i Sepultura, ma un segno non propriamente positivo in merito alla salute del combo brasiliano.
Tralasciando l’esibizione agrodolce dei Sepultura, è tempo di gettarsi a capofitto nel metalcore dei Sucide Silence. Dopo la morte del loro cantante Mitch Lucker nel 2012 la band si è ripresa alla perfezione ed è riuscita a proseguire la carriera con il nuovo cantante Hernan "Eddie" Hermida. Buon riscontro di pubblico all’interno del Summer Breeze, continui rimandi da parte del frontman allo scomparso Lucker e dosi massicce di violenza sonora. A giovarne maggiormente sono i fans nel mosh pit che si possono scatenare senza remore, anche se l’esibizione della band californiana si segnala per il peggior wall of death di tutto il festival. A volte il troppo trasporto non dà i risultati sperati!
Cala la notte ed è tempo delle creature dell’oscurità! I Powerwolf fanno la loro comparsa all’interno di un palco completamente risistemato secondo la grafica dell’ultimo album della band, “Blessed & Possessed”. Pubblico estremamente corposo, che in numeri riesce a rivaleggiare con quello dei Nightwish della sera dopo (se non anche maggiore!). Attila Dorn e soci sono in grandissimo spolvero, e non può essere altrimenti nella loro Germania dove vengono idolatrati. Dorn si erge a gran maestro cerimoniale, coadiuvato dal tastierista Falk Maria Schlegel, e per tutta la lunga esibizione intrattiene il pubblico con divertenti siparietti pseudo religiosi. Ma se la parte d’intrattenimento funziona alla perfezione catturando l’attenzione del pubblico, quella musicale non è da meno. Setlist a pescare lungo tutta la loro carriera (tranne che da “Return In Bloodred”, fuori canone), ottima risposta da parte del pubblico, sempre partecipe. La vera anima dei Powerwolf è quella dal vivo. La comunione tra la band ed il pubblico è totale. Se la musica da sola basta a fare lo spettacolo, fa comunque piacere vedere alcuni elementi aggiuntivi, come le fiammate durante “Kreuzfeuer” o le luci luciferine che illuminano magnificamente Dorn.
Con il pubblico che si allontana in massa dall’area concerti tocca ai Bloodbath cercare di ripartire. La band svedese riesce comunque a richiamare un certo seguito e grazie ad una scelta musicale focalizzata non solo sull’ultimo “Grand Morbid Funeral” riesce a proporre uno show solido ed estremo, che però paga il fatto di ritrovarsi schiacciato tra due mostri come i Powerwolf ed i Trivium, lontani anni luce per tipologia musicale e seguito.
Con un album in uscita ad ottobre, i Trivium invadono il Summer Breeze con le loro scenografie giapponesi, con teschi luminosi in mezzo al palco ed il pubblico accorre in massa invadendo tutto lo spazio disponibile. Se in merito alla parte musicale non vi è nulla di negativo da segnalare, il vero fastidio inizia ogni qualvolta Matt Heafy apre bocca tra un brano e l’altro, dispensando ringraziamenti ai fan tedeschi in generale, a quelli presenti al Summer Breeze, agli organizzatori che li hanno portati lì, alle classifiche di vendita tedesche, etc. Ciò che all’inizio poteva sembrare una cosa carina, alla terza o quarta volta inizia decisamente a stancare, facendo sembrare il tutto un mega spot, magari organizzato dalla label della band, per ingraziarsi ulteriormente quella gallina grassa che è la nazione tedesca. Occasione sprecata per fare bella figura al di là della, indiscussa, capacità tecnica.
Ultima band anche per la seconda giornata di festival. Se gli Amorphis non avevano brillato eccessivamente la sera prima, anche i Cradle of Filth non hanno di certo lasciato il segno al Summer Breeze. Ad iniziare da un uso del fumo estremamente spropositato, tanto che parte della canzone d’apertura viene suonata da fantasmi invisibili che solo verso la fine del brano riescono finalmente a materializzarsi sul palco, a proseguire con un pessimo uso delle strobo che rende quasi impossibile guardare direttamente il palco, per concludere con un Dani Filth estremamente iperattivo sul palco (con il risultato di prodursi in ridicoli saltelli), bizzoso, poco divertente nel raccontare aneddoti comici. Sarà stata anche colpa di un pubblico ormai provato dalla giornata di pioggia battente o dall’ora tarda, ma questa esibizione del combo inglese non verrà di certo ricordata a lungo. Con queste premesse, l’aspetto puramente musicale passa in second’ordine, anche se la setlist proposta scava piacevolmente nel passato riproponendo classici di ogni periodo, coadiuvata dalla presenza sul palco di due belle ballerine/mangiatrici di fuoco.

 

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Terzo giorno (sabato 15 agosto 2015)

Una buona fetta di pubblico del Summer Breeze è sempre estremamente mattutina, così nonostante i pesanti nuvoloni neri che fanno presagire il peggio (anche se il sole non manca di uscire di quando in quando), riesce a godersi la prima esibizione della giornata, quella dei Serum 114. La band di Francoforte indirizza la propria musica verso un pubblico estremamente giovane. Fautori di un german rock che alla spensieratezza della musica unisce dei testi impegnati socialmente, non si fanno alcun problema a mischiarsi col pubblico, che sia il chitarrista a fare un po’ di crowd surf o che sia il bassista a correre nel circle pit.
Cambio totale di registro con i Majesty. La band di Lauda, patria del festival Keep It True, sebbene seguita da un pubblico alquanto sparuto si rende autrice di un’esibizione decisamente ottima, affidandosi a brani della propria produzione più recente, con alcune aggiunte dei classici. I brani presentati rendono decisamente omaggio a quell’heavy metal di cui i Manowar sono i paladini, ma la vena creativa dei Majesty è decisamente florida e non una pura copia.
Con i Be’lakor l’atmosfera del festival si fa eterea. Pubblico estremamente sparuto per questo combo australiano che, complice anche un manto di nuvole compatto a non far passare il sole, può incantare i presenti con un death metal melodico estremamente raffinato. Se la carica di violenza di certo non manca a questa band, il vero punto di forza sono i passaggi melodici, capaci di creare un’atmosfera sognante anche all’aperto in un festival estivo. Purtroppo il pubblico ha deciso di non premiare gli sforzi degli australiani disertando in massa la loro esibizione, ma i Be’lakor sono una band da tenere d’occhio, ottimi e creativi rappresentanti del Gothenburg metal.
Abbandoniamo le atmosfere più incorporee per ripiombare nella materialità del german rock degli Haudegen. I berlinesi sono perfetti per lo slot della pausa pranzo, capaci di passare dai testi più impegnati a quelli di pura evasione da festa della birra. Anche il sole ne approfitta per fare capolino e donare un’aura giocosa alla loro esibizione. I due cantanti con perfetto fisique da bevitori di birra sono intrattenitori nati ed il pubblico non può che farsi trasportare dalla loro energia. L’idea di sfruttare due voci (che nei cori si unificano acquisendo un effetto eco alquanto strano ma non fastidioso) funziona, anche se ne guadagna più l’aspetto puramente d’intrattenimento che quello musicale.
Se l’elemento festaiolo era già marcato con gli Haudegen, diventa predominante con i Betontod. Punk rock all’acqua di rose, ma estremamente coinvolgente, tanto che il pubblico assiepato nell’area di fronte al palco non smette per un istante di saltare e scatenarsi. Con una discografia di oltre venti anni alle spalle preferiscono comunque concentrarsi sulle ultime uscite. Variazioni caraibiche, coretti a cappella a chiudere le canzoni, il combo tedesco non perde occasione per trascinare il pubblico.
La lunga festa di questo sabato pomeriggio al Summer Breeze continua con gli Emil Bulls. La band di Monaco attira un pubblico vasto che non perde neanche un secondo per scatenarsi al suono del metal alternativo proposto dal combo: crowdsurf, circle pit e wall of death sono una costante durante tutta l’esibizione, e considerate le temperature altissime il richiamo della band è talmente forte da superare anche le limitazioni imposte dal clima. Crossover e nu metal molto rimaneggiati che reggono appieno la prova, dimostrando come la band tedesca abbia trovato una formula personale che rende ancora perfettamente attuali due generi in ampio declino.
Terremotanti e violenti. Questo il miglior commento per i Kataklysm. Pochissime pause, poche parole ma tanta musica. I canadesi hanno donato al Summer Breeze un’esibizione fatta di magistrale tecnica e di sanguinaria violenza, ovvero ciò che il numerosissimo ed iperattivo pubblico desiderava ardentemente da loro. Una quantità di crowd surfers tale da far impallidire tutte le altre band che si sono esibite al festival, circle pit inarrestabili e soprattutto wall of death tra i più violenti, questo il tributo donato dai fedelissimi davanti al palco alla band canadese. Un tributo meritatissimo e ripagato dal combo con una setlist al vetriolo, seppur giocata tutta su produzioni recenti.
summer_breeze_2015_report_hatebreed_vDopo un’esibizione del genere l’unico modo di poter proseguire è lasciare spazio ad una scheggia impazzita. Si facciano avanti i Knorkator! La band berlinese potrebbe trovare un termine di paragone nei nostrani Elio e Le Storie Tese, sebbene i tedeschi propongano un heavy metal virato verso l’industrial. Assistere ad un concerto della band berlinese è come effettuare un giro con l’ottovolante all’interno del cervello di un folle. Al di là dell’aspetto musicale (comunque estremamente solido e godibile), ciò che colpisce veramente è la componente comica, che siano i vestiti assurdi (dal completo da monaco orientale del tastierista Alf Ator al costumino striminzito in cuoio del cantante Gero “Stumpen” Ivers), o le idiozie che la band compie sul palco (tra giocare a volano, balli di gruppo o lanciarsi all’interno di una palla gonfiabile sopra il pubblico). Con una band del genere il divertimento è assicurato.
Dopo una tale dose di follia non c’è nulla di meglio, per riprendersi, di un po’ di sana oscurità! Spazio quindi ai Paradise Lost. La band di Nick Holmes (qui con lunga barba in vena di emulare gli ZZ Top) si presenta al Summer Breeze con una setlist in tema con la giornata che sta acquistando tonalità sempre più cupe. Evitando tutte le influenze electro gothic di qualche anno fa, gli inglesi si concentrano su quello che sanno fare, concedendo brani estremamente pesanti e cupi ad un pubblico in vena di lasciarsi trascinare. Considerato l’uso alquanto ampio di tastiere e cori femminili in playback, non sarebbe stato affatto male poter avere anche queste due piccole aggiunte in versione dal vivo, ma i brani rimangono comunque un gran bell’ascolto.
Se i Paradise Lost sono atmosfera e classe, i Cannibal Corpse sono brutale violenza sonora. Gli americani hanno deciso di non fare assolutamente prigionieri al Summer Breeze, quindi vengono bandite le chiacchiere inutili ed a farla da padrona è la musica, che assale in un muro compatto il pubblico presente. L’assalto sonoro è un qualcosa di veramente glorioso ed i fan assiepati sotto il palco non si perdono una sola nota. Gli spettatori vengono flagellati indistintamente dal muro di suono della band e dalla pioggia copiosa che a più riprese martella l’area concerti, ma non sembrano affatto curarsi di quanto succede attorno a loro, persi in un universo fatto di brutalità sonora e di movimento all’interno del pit. Il set scorre via veloce, tra classici delle origini ed estratti dall’ultimo album, ma il vero punto focale dell’intera esibizione è l’energia che si è instaurata tra la band ed il pubblico nel pit.
Ma i Cannibal Corpe non sono gli unici a conoscere il segreto di creare sinergie con il pubblico, anche gli Hatebreed possono dire la loro in questo campo. Nonostante la pioggia continui ad imperversare sull’area concerti, l’ampio pubblico presente è troppo intento a scatenarsi con la musica della band americana per accorgersene. Tra balli, circle pit e crowd surf l’ora a disposizione passa con estrema velocità.
Ci avviciniamo ormai alla conclusione di questa edizione del Summer Breeze, ma prima di farlo mancano ancora tre band di grandissima fama. Si inizia con i Dark Tranquillity. In ottima forma, il combo svedese passa in rassegna diversi momenti della propria carriera, focalizzandosi principalmente sul dittico di album più recenti (“Construct” e “We Are The Void”) ma non dimenticandosi del proprio passato, andando perfino a spolverare un brano dall’acclamato “The Gallery” o da “Projector”. Come per i Paradise Lost anche in questo caso si sente la mancanza di una corista sul palco, ma al buon Stanne l’inventiva non manca e sfrutta perfino le fan presenti in prima fila per far cantare loro alcune parti delle canzoni della band, con grande soddisfazione di queste che hanno anche potuto spupazzarsi il biondo cantante. I risultati su disco possono essere altalenanti, ma dal vivo la band riesce sempre a coinvolgere il pubblico con prestazioni all’altezza della fama guadagnata nell’ultimo decennio dello scorso secolo.
I Nightwish hanno bisogno di ben poche parole di presentazione. Lo spettacolo, teatrale e pirotecnico ancor prima che musicale, messo in scena dalla band in alcuni momenti sembra quasi che prenda il sopravvento sull’aspetto puramente sonoro. Le fiammate verso il pubblico e sul palco, i getti di fumo, hanno la brutta abitudine di trasformare il tutto in un volgare carrozzone da luna park. Fortunatamente la componente musicale cerca di riportare l’esibizione su lidi più concreti. La setlist focalizzata sui due album più recenti (“Endless Forms Most Beautiful” e “Imaginaerum”) gioca a favore di Jansen, ma anche i brani provenienti dall’epoca di Tara (“Stargazers”, “Ghost Love Score” e “She Is My Sin”) scorrono via in modo ottimale. Oltre all’aspetto carnevalesco della messa in scena, un altro punto a sfavore dei finlandesi sono le pause troppo lunghe tra un brano ed il successivo, con la cantante intenta a sproloquiare a più non posso, tanto che in diverse zone del pubblico serpeggia non poco fastidio nei suoi confronti.
Arrivati come di consueto all’ultimo gruppo della serata, l’area concerti si svuota considerevolmente ma, a differenza dei due giorni precedenti, i Venom non si fanno prendere impreparati e sono loro a condurre le danze, dando in pasto al pubblico rimasto uno show estremamente solido, giocato sulla dicotomia passato (“Black Metal” e “Welcome To Hell”) / presente (“From The Very Depths” e “Fallen Angels”). Nonostante l’energia creata dalla band e le imponenti fiammate di contorno, le condizioni climatiche continuano a subire un netto peggioramento, ma fortunatamente la band riesce a dare una degna conclusione al festival, con grande soddisfazione del pubblico che finalmente si è potuto godere una chiusura di giornata all’altezza delle aspettative.

 

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