Porterà al cinema anche parecchi appassionati di musica, l'opera ultima dei fratelli Coen: "Inside Llewyin Davis", infatti, traspone su pellicola la vita di Dave Van Ronk, cantautore forse ingiustamente dimenticato dai più, ma membro attivo - insieme all'amico intimo e compagno d'armi Bob Dylan - di quella combriccola di Greenwich che ha forgiato il folk statunitense degli ultimi 50 anni. In attesa della distribuzione del biopic nelle nostre sale (con le recensioni entusiastiche della stampa d'oltreoceano a rendere i cinefili ancora più impazienti) abbiamo già l'opportunità di mettere le mani sulla colonna sonora, cercando - anche se impossibilitati a sbilanciarci sulla resa dei pezzi all'interno del film - di darne una valutazione come album stand-alone.
Sotto questo punto di vista, i brani di cui è composto il disco si presentano come una eterogenea raccolta di classici dell'Americana riarrangiati, alleggeriti e affidati - cosa che può far notizia - alle voci degli stessi attori. Stupisce, per espressività ed emotività, la prestazione del protagonista Oscar Isaac: a spiccare, in fin dei conti, saranno soltanto le tracce che lo vedono al microfono. Su tutte, la delicata reinterpretazione di "Fare Thee Well - Dink's Song" (proposta anche in coppia con Marcus Mumford, co-produttore del disco insieme al pezzo da novanta T-Bone Bennett), o la breve ma intensissima "The Shoals Of Herring".
Sono purtroppo tante, però, le note stonate che compaiono in corso d'opera, e che trovano il culmine nelle vocals quasi teen-rock sparse sui violini della fin troppo patinata "The Last Thing On My Mind", che spiegano in modo abbastanza convincente perché la voce "occupazione" dell'anagrafica di Stark Sands reciti soltanto "attore" e non anche "cantante". Fa parecchio specie, poi, la comparsa di un Justin Timberlake che, accompagnato dalle godibili armonizzazioni della bionda Carey Mulligan, scivola in maniera agile dal "FutureSex" con cui ha venduto milioni di copie ai panni old-fashioned e al rarefatto romanticismo della love-song "Five Hundred Miles".
In generale, comunque, quel che pesa è una limpidezza del sound che scava un solco netto tra i brani della soundtrack e le genuine, a volte amabilmente stonate, spesso rauche voci di chi la nascita del folk non la sta recitando, ma la visse per davvero. Il classe 1932 John Cohen con la sua "The Roving Gambler", un giovanissimo Bob Dylan con un pezzo di repertorio ancora inedito, o lo stesso Van Ronk posto in chiusura con una registrazione live di un suo brano, sottolineano impietosamente come tutto il resto, plastificato e impacchettato alla perfezione, si riveli inautentico, come in fondo è destino di ogni ricostruzione Hollywoodiana.