Aussie invasion!

A nemmeno un anno dall’ultimo show a Milano, i Caligula’s Horse tornano in Italia, Paese in cui possono vantare un buon seguito, che li ha sempre supportati in tutte le fasi della loro carriera. Una carriera senza nessun passo falso, nonostante momenti non semplicissimi, che in nemmeno 15 anni ha portato gli australiani nell’elite del progressive metal mondiale e che mostra, nelle diverse pubblicazioni, una band che mantiene ben salde le sue fondamenta, mentre allo stesso tempo si concede il lusso di spostare e ricalibrare ogni volta mood e dettagli. Quello che ci aspetta al Legend Club di Milano è quindi un altro viaggio attraverso un caleidoscopio di emozioni positive e negative – ma in ogni caso ugualmente potenti.

Prima di partire con gli australiani però, tocca ai Four Stroke Baron e ai The Hirsch Effekt inaugurare effettivamente questo viaggio. I primi salgono sul palco quando il locale vede già un buon numero di presenti e ci mettono poco a conquistarli. I tre non sono totalmente nuovi da queste parti: proprio al Legend Club li avevamo visti nemmeno due anni fa e, come in quella occasione, la band si rivela fin da subito abile e apprezzabile, grazie ad un prog metal dalle ampie aperture melodiche e un interessante cantato, che in diverse occasioni sembra quasi fondersi con il resto della musica. Dello stesso filone, ma ben più imprevedibili sono invece i The Hirsch Effekt, che pur mantenendo le radici salde nel prog, non disdegnano continue incursioni in ambiti più melodici e più pesanti e veloci a seconda delle occasioni. È soprattutto il caso della conclusiva “Lifnej”, pezzo che riassume alla perfezione il sound dei tedeschi e che sta bene in piedi nonostante i passaggi senza soluzioni di continuità da cavalcate quasi hardcore a parti estremamente melodiche. Come per i Four Stroke Baron, possiamo sbilanciarci: era la seconda volta del trio in Italia, di sicuro non sarà l’ultima.

CaligulasHorseBand

Il locale è quasi completamente pieno quando arrivano le 22 e, in perfetto orario, si spengono nuovamente le luci per accogliere il quartetto australiano. Sam Vallen, Josh Griffin e Dale Prinsse salgono sul palco presentando l’intro di “The World Breathes With Me”, prima di essere raggiunti da Jim Grey, che prende immediatamente le redini dello show e ci conduce attraverso il viaggio compiuto dalla opener del nuovo “Charcoal Grace”. Saranno diversi gli estratti dall’ultimo album durante la serata: giusto celebrare l’ennesimo album di alto livello, che si differenzia però dal suo predecessore per un mood più dark e negativo, probabilmente frutto di un momento non semplice della band. Si tratta infatti del primo lavoro dopo l’abbandono del chitarrista Adrian Goleby, che i restanti hanno deciso di non sostituire, rimanendo quindi in quattro. Una scelta coraggiosa – forse un po’ folle sul momento –, ma a posteriori ci rendiamo conto di quanto i Caligula’s Horse siano riusciti a rimettersi immediatamente in carreggiata, prima con un album di ottimo livello e poi con esibizioni sempre chirurgiche, che mostrano come la band sia in grado di tenere perfettamente il palco anche in questa configurazione.

Basta quindi l’intro del singolo “Golem” per far saltare tutto il locale, prima che Grey prenda la parola per annunciarci come nel corso della serata band e pubblico viaggeranno insieme nel tempo, con pezzi che attraversano tutta la loro carriera. Voliamo quindi con la doppietta “Bloom”/”Marigold” – sempre da antologia –, viaggiamo negli articolati spazi di “Dream The Dead”, ci muoviamo tarantolati tra i violenti inserti quasi djent di “The Tempest”. La setlist, oltre a dare il giusto spazio al nuovo arrivato, celebra a dovere tutta la carriera della band anche con pezzi che non si sentivano da parecchio (come “The Hands Are The Hardest”) ed è molto apprezzabile vedere come la scelta dei brani si differenzi da quella dello scorso anno.

Ma oltre a proporre una performance perfetta dal punto di vista tecnico – e a quello i quattro ci hanno sempre abituato fin troppo bene –, scalda il cuore vedere le continue manifestazioni di affetto che Grey scambia con il pubblico, scherzandoci o illustrando le delicate tematiche che caratterizzano i pezzi. In ogni caso, non sono molti i frontman capaci di coinvolgere il pubblico così a dovere e questo è solo un altro dei motivi per cui vedere i Caligula’s Horse fa bene alle orecchie quanto al cuore.

I quattro si congedano con “Daughter Of The Mountain” dopo 90 minuti di pura emozione, al termine dei quali salutano il pubblico con il consueto entusiasmo. Ma tanto lo sappiamo, forse dovremo attendere più di nove mesi, ma siamo sicuri che anche questa volta si tratta solo di un arrivederci: dopo serate simili è molto semplice azzerare l’immensa distanza che si trova tra l’Italia e i suoi antipodi.

Setlist

The World Breathes With Me
Golem
Bloom
Marigold
Dream the Dead
The Hands Are the Hardest
The Tempest
Slow Violence
Oceanrise
The Stormchaser
Mute
Daughter of the Mountain

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