In questi ultimi mesi, e forse forse il discorso vale per l’intero 2023, sembra quasi che i Pink Floyd siano un gruppo contemporaneo e in piena attività e non, dati alla mano, una band il cui ultimo vero album è datato 1994. Peggiorando l’osservazione, una band il cui periodo di maggiore fama corrisponde banalmente agli anni Settanta. Ma quest’anno, tra Roger Waters in ulteriore tour e polemiche annesse, i Pink Floyd con cofanetti ed edizioni speciali per i cinquant’anni di “The Dark Side Of The Moon”, e ancora Waters con la nuova versione dello stesso, e poi i fans che impazziscono nel bene o nel male tornando spesso ad atteggiamenti da scuola superiore, i tweet al vetriolo e rancori mai sopiti. E poi ancora Waters con i brani della lockdown sessions freschi dall’anno precedente, Nick Mason con la sua band dedicata ai primi Pink Floyd e cover band varie che ci danno dentro… insomma, qualcuno ha capito al volo che quale miglior momento per spiattellare un documentario zeppo – a detta loro – di roba inedita sull’ei fu siccome immobile straordinaria figura di Syd Barrett? Che a margine non andrebbe solo ricordato per aver essenzialmente fondato i Pink Floyd, ma anche come importante personalità della musica psichedelica e dei suoi funzionamenti, soprattutto dal lato più squisitamente britannico della storia.

Insomma prendo ‘sto biglietto (ventidue sterline, grazie) per assistere a questa sorta di (mini) tour della pellicola, in varie sale di America e Nord Europa. La data della mia proiezione è il venti settembre e nientepopodimeno che al cinema della Battersea Power Station che, per chi non lo sapesse perché ancora ancorato al suo mondo di sogni e maiali volanti, è stata tramutata in una porcheria di negozi di marche di design, moda e abbigliamenti vari. Un abominio, l’ennesimo assolo di consumismo che sta portando l’umanità intera al gran finale. Nell’antica fornace di Londra Ovest vi ci hanno lasciato giusto un muro decorato di accozzaglie culturali inglesi (ottimo per farci la foto su Instagram) e qualche macchinario originale. I maiali – del capitalismo – l’hanno conquistata e ora fuori puoi prenderti pure un Aperol Spritz. In ogni caso, arrivato sotto un diluvio universale, scovo il cinema tra tutti quei negozi. Penso, mentre mi ci avvio, che magari questo film su Syd riporterà tutti i fan dei Pink Floyd (sia quelli veri di Roger Waters, che quelli distratti di David Gilmour) a fare la pace, magari asciugandosi i lacrimoni guardando le immagini del povero geniale disadatto, manco l’avessero conosciuto di persona. Minato l’ambiente e il mio mood, e le conseguenti aspettative, iniziano le proiezioni.

BarrettFloyd

In tutto ciò, la sala è extra lusso, poltrone relax con tavolino chic e visuale tipo anfiteatro. Le presenze in sala contano parecchie teste canute. Ma piacevolmente noto qualcuno ancora giovane, o quantomeno più giovane di me, e questo va sottolineato. Il cinema, inoltre, è pieno solo per metà. Un flop, considerando l’iconica location. In sala, però troviamo anche produttore e regista.

Penso al titolo, che brutto titolo. Che titolo “vuoto” – titolo che viene da una canzone apparentemente rivolta da Barrett a Waters e compagni tutti per fargli capire (come?) che ormai la sua mente fosse andata (altrove) e non c’era più verso di rimettersi in carreggiata. Concetto triste, perché pure realtà di come andarono i fatti… ma banalizzato se non trattato con cura.

Dura ben novantaquattro minuti e, non affidandosi a nessuna trovata dal punto di vista della sceneggiatura o della trama, il film la mette proprio sul documentario più schietto: si parte dall’infanzia e si arriva alla morte, anno per anno o quasi. Una sola “creazione” sta nel rappresentare Syd bambino/ragazzino/studente/adulto con degli attori che lo immergono in situazioni lisergiche e introspettive, ma tali momenti durano poco e sono poco sviluppati: io avrei spinto maggiormente su quelli, almeno avremmo visto qualcosa di nuovo. Dando per scontato che solo un fan piuttosto accanito sarebbe andato a spendere ventidue sterline per tale pellicola, la stragrande maggioranza delle immagini epoca sono già viste e riviste. La musica è ovviamente bellissima, sono i Pink Floyd! Ma, ecco, già i documentari musicali tendono ad essere facilmente noiosi (mi ascolto un paio di album e faccio prima, penso spesso) ma questo – farcito da troppe interviste – forse esagera. Ecco, le interviste. Hanno intervistato decine di amici d’infanzia, conoscenti, ex-fiamme, dirimpettai, maestri di scuola, compagni di università di Syd e qualche medico e/o scienziato per la solita spiegazione sugli effetti dell’LSD. Tutti in ogni caso che dicono che era un tipo divertente, un bravo ragazzo, un po’ strano, che poi s’isolò, che si vedeva sin da subito che avesse qualcosa di speciale. Ma dai? Ha fondamentalmente fondato i Pink Floyd, una delle più grandi band della storia della musica. Ulteriori interviste a personaggi della musica (l’unico che spicca è Graham Coxon) che manco mai l’hanno conosciuto, giusto per allungare un brodo già bello annacquato. Qualche aneddoto vero (soprattutto dalla sorella, come quando Syd si fece Londra-Cambridge a piedi, che era rimasto al verde) e qualche più interessante osservazione dai vari ex compagni Mason, Gilmour e Waters. Roger Waters la mette sull’enigmatico alla fine, chiudendo con un pensiero sui ricordi e su come questi facciano parte dell’ego di una persona. Ci sto ancora pensando a quello che aveva voluto dire, boh, e magari spero di aver capito male io.

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La figura di Barrett, alla fine del documentario non ne esce né arricchita né ridimensionata: quello che si sapeva di lui viene tutto confermato e, credo spontaneamente, ci si potrebbe chiedere quanti Barrett esistono ancora e mai sbocceranno dal punto di vista commerciale e se mai il mondo dell’arte ne potrà beneficiare di uno nuovo. Retorica, ma è la pellicola che ti porta a tale banalità. Materiale inedito quindi? Pochissimo. Qualche foto del celebre incontro nel 1975 durante la lavorazione di “Wish You Were Here”, qualche bella foto di famiglia, qualche foto in più con i Pink Floyd da giovanissimi (apparentemente fornite direttamente da Nick Mason). Ci hanno messo dieci anni per produrlo, completamente indipendente (chissà perché). In dieci anni ci si poteva inventare qualcosa, penso – e sbadiglio. La figura di Syd Barrett è gigantesca, è come Van Gogh, non sarebbe (stato) difficile.

C’è anche un breve momento per una chiacchierata/talk con gli ospiti in sala, post proiezione e un tale in terza fila dichiara di averlo visto già tre volte, e che ogni volta ci trova qualcosa di diverso – e avverto una sensazione di disagio. Produttore e regista – che parlano di loro e non di Syd Barrett – chiedono se c’è tempo per altre domande, permesso accordato ma nessuno ridicolosamente ha niente da chiedere perché stiamo tutti già a pensare se tornare col bus o prendere un taxi, lì fuori, nel nuovo regno di Zara – che ha il suo più grande negozio del mondo proprio ora incastonato con la Battersea Power Station. Ecco quello fa schifo, e penso a sessant’anni prima, che io purtroppo non c’ero, ma c’era Syd Barrett, giovane e bello, che illuminava di colori la fantasia dei giovani inglesi, e i Pink Floyd a seguire.

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