Dopo la sua edizione più grande ed ambiziosa, Hellfest torna ad una formula classica: quattro giorni di rock, metal, hardcore punk e qualsiasi altro genere che un headbanger possa desiderare. Ancora una volta, il festival di Clisson si propone come quella cornucopia dell’abbondanza capace di accontentare veramente tutti. Proprio sulla base di quanto ora scritto, ci accingiamo a descrivere cosa è stato per noi Hellfest 2023, segnato da clamorosi ritorni, diverse nuove entrate e, purtroppo, anche da qualche addio. Come di consueto, la pioggia ha accompagnato parte della nostra esperienza ma, fortunatamente, non ha impedito il corretto svolgimento dell’evento.

Primo giorno

Dopo esserci riforniti di vettovaglie per affrontare il primo giorno di festival, sul Main Stage 2 si presentano gli I Prevail che, con il loro metalcore dalle mille influenze, riescono a diffondere una corposa dose di energia in un pubblico che reagisce più che positivamente. “Bow Down”, “Body Bag” e “Self-Destruction” riescono anche a scatenare i primi accenni di moshpit, ma è con la cover parziale di “Chop Suey!” e di “Raining Blood” che il gruppo americano attira l’attenzione di tutti, chiudendo il set con “Gasoline”, uno dei loro cavalli di battaglia.

Il tempo di fare un piccolo, grande tour nella Hell City e di visitare il Sanctuary (il nuovo, immenso ed affollatissimo punto vendita dedicato al merch ufficiale del festival) ed è già il momento dei Generation Sex di calcare le assi del Main Stage 1. La band, formata Billy Idol e Tony James dei Generation X e da Steve Jones e Paul Cook dei Sex Pistols, propone al pubblico un repertorio ovviamente composto dai classici di entrambe le band; da “Your Generation” a “King Rocker”, passando per “Black Leather” e “Pretty Vacant”, concludendo con due classici che ogni rocker conosce alla perfezione: “God Save The Queen” e “My Way”, proveniente dall’età dell’oro del punk. Anche in questo caso, nonostante i segni del tempo inizino a farsi sentire, il pubblico risponde come meglio non si potrebbe; d’altra parte, non capita mica tutti i giorni di imbattersi in così tante leggende viventi!

Come ogni appassionato dell’Hellfest sa, non si vive di solo Main Stage, in quanto la qualità dei bill dei palchi minori è tutt’altro che secondaria. Sulla base di quanto ora scritto, potevamo mai perderci lo show degli Harakiri for the Sky? Ovviamente no. Il post-black metal della band austriaca fa immediatamente presa sul pubblico che, in pochi istanti, è letteralmente rapito, in uno stato di trance che durerà fino all’ultima nota; tutto questo è stato possibile non solo per la performance maiuscola di Matthias Sollak e soci, ma anche grazie ad una location più chiusa, capace di favorire uno show più intimo e, di conseguenza, dei suoni decisamente più avvolgenti.

Tornando a parlare di supergruppi, non è possibile non menzionare gli Hollywood Vampires. Ci eravamo già imbattuti nel 2018 nella band di Alice Cooper e Joe Perry, composta da membri della band del cantante statunitense e capace di vantare Johnny Depp come chitarrista e, in questo caso, anche cantante. Se le nostre precedenti impressioni erano state piuttosto tiepide, le cose qui vanno in maniera leggermente migliore: la band appare più rodata e, di conseguenza, si concede delle licenze in più, facendo esordire Depp non solo come chitarrista ma, come detto in precedenza, anche dietro al microfono. Il risultato? Così e così. Se con “People Who Died” l’uomo dai mille volti sembra arrancare, sui pezzi successivi le cose vanno meglio, tanto dal punto di vista vocale che da quello dell’outfit, in un primo momento totalmente fuori tema rispetto agli altri membri del gruppo. Dal punto di vista musicale, sia Cooper che Perry sono due animali da palcoscenico, capaci di sprigionare un carisma con pochi eguali; tuttavia, ancora una volta, il grosso dello show è basato quasi unicamente su cover, tanto proveniente dal repertorio di Zio Alice (“I’m Eighteen” e la mitica “School’s Out”, che chiude lo show), quanto da altri artisti. Se nel primo caso le cose funzionano bene, altrettanto non può dirsi quando la band si cimenta con “Baba O’Riley” dei The Who o con “Heroes” di David Bowie. Anche stavolta, quindi, ce ne andiamo con un bel po’ di amaro in bocca.

All’imbrunire, arriva il momento del primo, grande nome dell’Hellfest 2023: stiamo ovviamente parlando dei Kiss. Come i più informati sicuramente sanno, la band è al suo tour di addio e, come Paul Stanley ha ricordato verso la metà dello show, tra circa 6 mesi calerà il sipario su uno dei gruppi più celebri della storia del rock; inutile dire che stasera rappresentava l’occasione ideale per assistere ad uno show con pochissimi eguali. Il riff di “Rock’n Roll” dei Led Zeppelin e l’immancabile speaker annunciano che la “hottest band in the world” è lì, come testimonia il riff di “Detroit Rock City” ed il conseguente boato del pubblico presente. Il gruppo di New York sa che questo sarà il loro ultimo concerto in terra francese e, proprio per questa ragione, non lesinano energie e classici della loro immensa discografia. “Shout It Out Loud”, “Deuce”, “War Machine”, il rock anthem “I Love It Loud”, scorrono lisce come l’olio, anche se, ad un occhio (ed un orecchio) più attenti, qualche acciacco è percepibile. Le voci di Paul e Gene non hanno più la potenza dei bei tempi andati, e lo stesso frontman è un po’ più statico rispetto alle ultime esibizioni, rinunciando alla quasi totalità dei suoi numeri funambolici come, ad esempio, venire trasportato da un carrello sulla torre del mixer e, da lì, suonare “I Was Made For Lovin’ You”. Tuttavia, al netto di qualche piccola sbavatura, il concerto prosegue senza sosta, con tanto di break per gli assoli di Tommy Thayer ed Eric Singer, in formissima come sempre. Non mancano all’appello né l’assolo di basso di Simmons (con annesso sangue di scena) né i coriandoli finali di “Rock and Roll All Nite”, a cui si aggiunge la celebre ballad “Beth” (eseguita da Singer al piano) e da “Makin’ Love”, vera chicca di una scaletta nutrita come poche. Alla fine della fiera, nonostante lo scorrere del tempo abbia fatto parzialmente sentire i suoi effetti, i Kiss sono ancora capaci di mettere in piedi uno show con pochi rivali, a dimostrazione del fatto che più di 50 anni di carriera non si fanno per caso, e che gli anni passano, ma la musica resta.

La scelta sulla chiusura della prima giornata ricade sui Katatonia. La curiosità di vedere all’opera il combo di Stoccolma, reduce dall’ottimo “Sky Void of Stars”, era notevole e, quindi, non potevamo esimerci dal presenziare il palco dell’Altar. Sarà stato per il luogo più chiuso, sarà stato per l’ora tarda, sarà stato per la proposta musicale radicalmente opposta a quella dell’headliner, ma tutti i presenti sono rimasti letteralmente immobili, letteralmente rapiti dalle melodie decadenti del gruppo. Il grosso della scaletta ha attinto dall’ultimo disco rilasciato (con “Atrium” e “Colossal Shade” che hanno aperto le danze), ma non potevano mancare pezzi proveniente dai capitoli precedenti della discografia del gruppo, che chiude il set con “Evidence”, proveniente da “Viva Emptiness”. La sensazione è quella di trovarsi davanti ad una band maiuscola, capace di far viaggiare tutti i presenti con la forza della propria musica, mettendo in piedi uno show intenso e senza l’ombra di una sbavatura, in cui la voce di Jonas Renkse e la chitarra di Anders Nyström sono salite in cattedra, facendo capire di cosa sia capace il doom metal. A conti fatti, non potevamo chiedere una chiusura migliore per la prima giornata dell’Hellfest.

Secondo Giorno

Dopo aver riempito i nostri zaini di provviste, troviamo gli Elegant Weapons che hanno appena iniziato il loro set sul Main Stage 1. Come avvenuto anche con Hollywood Vampires e Generation Sex, anche in questo caso ci troviamo davanti ad un supergruppo, costituito da Ritchie Faulkner (Judas Priest), Ronnie Romero (Rainbow), Dave Rimmer (Uriah Heep) e Christopher Williams (Accept); la band è impegnata nel tour di “Horns for a Halo”, il loro primo album e, proprio per questa ragione, la scaletta è piuttosto ridotta. Nonostante un heavy metal decisamente orecchiabile e decisamente old school, il quartetto, forse anche a causa del poco rodaggio, non riesce a lasciare il segno.

Il tempo di assentarci per qualche ora e, sul Main Stage 2, troviamo i Motionless in White che, con il loro metalcore dalle forti sfumature industrial, stanno infiammando il pubblico in attesa dei main event di stasera. Nonostante una formula forse non esattamente nuova, i ragazzi di Scranton riescono, in un set di circa 50 minuti, a svolgere egregiamente il loro lavoro, grazie all’energia ed alle melodie di pezzi come “Disguise”, “Voices”, “Cyberhex” ed “Eternally Yours”, che chiude uno show valido e di impatto.

Pochi minuti di attesa e fanno capolino dei veri e propri veterani del festival francese: stiamo parlando degli Alter Bridge. “Silver Tongue” apre uno show che, in pochi istanti, riesce a fare presa su tutti i già numerosi presenti; “Addicted to Pain”, “Ghost of Days Gone By” e “Cry of Achilles” sono la cartina tornasole di una band in stato di grazia, con il duo Kennedy – Tremonti che giganteggia. Il cantante, con il suo inconfondibile timbro vocale, non sembra accusare alcun tipo di calo, mentre l’axeman riesce a tessere melodie ed assoli con la medesima maestria. Il chorus di “Come To Life” viene cantato da praticamente tutti i presenti, così come quello di “Isolation”, con “Metalingus” che chiude uno degli show più memorabili di questa seconda giornata ma, come di consueto, i big di giornata devono ancora dire la loro.

Dopo aver assistito ad un loro incontro con la stampa, è il turno dei Papa Roach di salire sul palco. La band statunitense, dopo aver plasmato tanto l’alternative quanto il nu metal, ha fortemente cambiato il suo stile musicale, aggiungendo molti elementi hip hop alla propria formula. Quanto ora detto è ravvisabile nel momento in cui il gruppo introduce “Broken Home” con le prime strofe di “Lose Yourself” di Eminem, ed eseguendo “Still D.R.E.” di Dr. Dre. In entrambi i casi, Jacoby Shaddix sembra trovarsi perfettamente a suo agio, così come avviene con i classici della band come “Getting Away With Murder”, “Broken Home” e “Last Resort”. La summenzionata evoluzione del sound del gruppo è chiaramente ravvisabile, ma lo show messo in piedi dal combo è di assoluto livello, con una sezione ritmica che non sbaglia un colpo ed il frontman che non risparmia una goccia di sudore, coinvolgendo il pubblico ad ogni occasione. L’ospitata di JP “Rook” Cappelletty (batterista di Machine Gun Kelly) in “Born for Greatness” è uno dei momenti più alti del set, che si chiude con un boato da parte del pubblico.

Il sole inizia a calare e questo significa solo una cosa: gli attori principali stanno per entrare in scena. E dove potremmo mai collocare i Def Leppard, se non tra le pietre miliari della storia del rock? Il tempo di far finire “Heroes” di David Bowie e gli inglesi salgono sul palco e, dopo “Take What You Want” e “Let’s Get Rocked”, iniziano a snocciolare i classici che hanno decretato il loro successo planetario: da “Animal” ad “Armageddon It”, passando per “Foolin'” e “Rocket”, regalandoci anche qualche chicca come “When Love and Hate Collide”. Se il grosso della scaletta proviene, come è ovvio, da “Hysteria” e “Pyromania”, non sono mancati estratti anche da “Diamond Star Halos”, l’ultimo lavoro dei Leppard che, da un punto di vista strumentale, sono e rimangono ineccepibili. L’unico membro che sembra aver maggiormente accusato lo scorrere del tempo è Joe Elliot che, pur offrendo una prova solidissima, evita alcuni degli acuti più impegnativi. Nonostante questo, però, il set procede senza intoppi, riuscendo ad emozionare il pubblico nel momento i riflettori si spostano su quel monumento alla forza di volontà che risponde al nome di Rick Allen (e sul suo assolo di batteria) e quando, sulle note di “Hysteria”, viene mostrato un video collage con tutti i momenti più eclatanti della carriera della band, includendo, come è giusto che sia, anche il compianto Steve Clark. La conclusione del set è affidata alla tripletta “Pour Some Sugar on Me”, “Rock of Ages” e “Photograph”, che costituisce il giusto commiato di una band di cui, nonostante lo scorrere del tempo, non riusciamo mai ad averne abbastanza.

Rispondete con sincerità: qual è stata la vostra espressione facciale quando avete letto il nome di Machine Gun Kelly sul cartellone dell’Hellfest 2023? Se avete aggrottato la fronte in segno di perplessità, sappiate che non siete stati gli unici. Nonostante il festival francese sia sempre stato conosciuto per le sue ampie vedute musicali, a molti l’accostamento era sembrato quantomeno azzardato, ricordandoci quasi quando, nel lontano 2010, Le Vibrazioni furono messi come gruppo spalla degli AC/DC, con risultati disastrosi. Tanti anni sono passati, l’audience è completamente diversa e, quindi, immaginavamo che il risultato finale potesse essere diverso… poveri stolti! L’artista statunitense si presenta in cima ad un’enorme montagna di cubi d’acciaio e, chitarra in braccio, inizia ad eseguire la sua scaletta, composta esclusivamente da pezzi degli ultimi tre dischi, quelli della svolta “punk rock”, per intenderci. I musicisti di cui MGK si circonda sono di primissimo livello, tra cui spicca JP “Rook” Cappelletty, capace di passare con disinvoltura da parti di batteria acustica di rara aggressività ad altre in cui, invece, si destreggia con pad elettronici; tutto questo perché, come vi spiegheremo a breve, il periodo rap/trap del cantante non è del tutto tramontato. Ciò che non sembra funzionare a dovere è proprio Machine Gun Kelly, le cui interazioni col pubblico rasentano lo zero ed il cui atteggiamento da rockstar capricciosa inizia ad infastidire i presenti, che non mancano di manifestare il loro disappunto, soprattutto nei momenti in cui l’artista abbandona lo strumento ed inizia a rappare, con tanto di autotune a palla. Nonostante la scaletta, nell’insieme, non sia affatto sgradevole, richiamando non poche sonorità dei Blink-182, la chiusura senza alcun saluto continua ad infastidire, mentre il l’outro affidata ad un videoclip di un brano del suo periodo trap è la goccia che fa traboccare il vaso, scatenando bordate di fischi degne del raduno nazionale dei vigili urbani. Nonostante una proposta musicale tutto sommato buona, siamo di fronte alla peggior esibizione di questo Hellfest 2023… per ora…

Diciamocelo senza troppi peli sulla lingua: i dubbi relativi alle performance live dei Motley Crue sono emersi sin dall’annuncio del loro tour di addio, ed vertevano quasi tutti sulle condizioni di Vince Neil. Già noto per essere il membro meno in forma della band, nei mesi scorsi erano circolati diversi video dei suoi live, in cui la resa del frontman andava dal disarmante all’agghiacciante. Tuttavia, il cantante aveva affermato di star seguendo un rigido programma per rimettersi in forma, e chi siamo noi per non dare credito alle parole della voce dei Crue? Tuttavia, dopo un breve video introduttivo, arriva la doccia più fredda di tutte: la realtà. John 5 fa partire il riff di “Wild Side”, la band fa il suo ingresso sul palco e tutto sembra filare liscio… fino a quando non partono le linee vocali. Nonostante sia decisamente dimagrito, Vince Neil non sembra riuscire a star dietro al resto della band che, una canzone dopo l’altra, riesce sempre a portare a casa il risultato. Se su “Shout at the Devil” le cose sembrano migliorare un po’, raggiungendo anche una soglia di accettabilità su “Live Wire” (che scatena una notevole ondata di bodysurfing), su “Looks That Kill” i problemi di Neil fanno di nuovo capolino. La band viene raggiunta da Machine Gun Kelly per l’esecuzione di “The Dirt”, pezzo della colonna sonora dell’omonimo biopic e, ancora una volta, MGK viene sommerso dai fischi di cui abbiamo parlato prima, lasciando il palco in fretta e furia. Dopo una medley composto da classici del calibro di “Smokin’ in the Boys Room”, “Helter Skelter”, “Anarchy in the U.K.” e “Blitzkrieg Bop”, è il momento della power ballad “Home Sweet Home”, a cui fanno seguito i due classici “Dr. Feelgood” e “Same Ol’ Situation”, che ci mostrano un’altra amarissima verità: l’uso di basi pre-registrate che, in buona sostanza, riproducono in tutto e per tutto la voce di Neil, che neanche si preoccupa di accennare un labiale per mascherare la situazione. Con “Girls, Girls, Girls”, “Primal Scream” e l’immortale “Kickstart My Heart”, cala il sipario su uno show che, sotto molti aspetti, è stato duro da mandare giù; perché, se è vero che il tempo è impietoso con tutto e tutti, è altrettanto vero che altre band molto più “di lungo corso” sono riuscite ad attestarsi su livelli molto più alti di quanto non abbiano fatto i Saints of Los Angeles, che conservano parte del loro carisma da icone del sesso, droga e rock’n roll, ma che hanno perso una larghissima fetta del loro impatto, scenico e sonoro. Cari Crue, dirvi addio è difficile, ma forse è meglio così.

Sempre a proposito di addii, adesso è il turno dei Sum 41 di salutare un pubblico accorso lì solo per fare festa con loro un’ultima volta ancora, ed i ragazzi dell’Ontario non hanno nessuna intenzione di deluderli. Dopo un’intro a base di “T.N.T.” degli AC/DC, è “Motivation” ad aprire le danze, a cui segue “The Hell Song” a strettissimo giro di vite. I presenti, ovviamente, rispondono come meglio non si potrebbe desiderare: con applausi, boati e, ovviamente, con quel moshing che non dovrebbe mai mancare in un concerto punk. Deryck Whibley rimane un frontman con pochi eguali, capacissimo di coinvolgere il pubblico senza mai farne calare l’attenzione, pescando a piene mai dai classici della discografia del gruppo (“We’re All to Blame”, “Underclass Hero”, “Fat Lip” e l’immancabile “Still Waiting”) e senza disdegnare qualche cover del calibro di “Sleep Now in the Fire” dei Rage Against the Machine ed una “We Will Rock You”, eseguita alla “Sum 41 maniera”. Lo show si conclude con la già menzionata “Still Waiting”, che chiude un concerto, la seconda giornata del festival francese: la band mancherà sicuramente a tutti noi.

Terzo giorno

Dopo due giorni tutto sommato “temperati”, sin dalle prime ore del mattino le temperature si alzano, e non solo per quanto riguarda la musica. Sabato 17 giugno è stata decisamente la giornata più calda dell’appuntamento in terra francese, in cui si sono sfiorati i 30 gradi, costringendo l’organizzazione ad attivare tutte le fonti d’acqua, così da far refrigerare chiunque ne sentisse la necessità.

Dopo una prima parte della giornata passata a seguire conferenze, troviamo i Riverside sulle assi del Main Stage 1, con il loro prog rock che, in poco tempo, riesce a fare presa sul pubblico. Il loro sound riprende, sotto tantissimi aspetti, quello dei Porcupine Tree, uno dei main act di giornata e, nonostante un set di 45 minuti, riesce a fare presa sull’ascoltare, che probabilmente vorrà approfondirne la discografia.

Neanche il tempo di riprendere fiato che, dal lato opposto, è il turno dei Beast in Black di dare fuoco alle polveri e, con il loro power metal aggressivo, l’impresa riesce con successo sin dalle prime note. La voce di Yannis Papadopoulos è tagliente, acuta e abrasiva, così come la coppia di chitarre è affilata come non mai, ricordandoci un riffing a metà strada tra Judas Priest, Primal Fear e Accept; aggiungete a tutto questo un corposissimo tappeto di tastiere e sintetizzatori ed avrete ottenuto un’idea di quella che è la proposta della band finnica: un assalto frontale che, però, strizza sempre l’occhio a delle linee melodiche quasi AOR. La scaletta attinge in egual misura dai tre dischi del gruppo che, grazie a pezzi di grande impatto come “Blade Runner”, “From Hell With Love”, “One Night in Tokyo” ed “End of the World”, riescono nel loro intento di scaldare un pubblico che, fondamentalmente, non chiede altro.

Se Il Main Stage 2 è praticamente tutto incentrato sul power più melodico e sinfonico, il palco opposto vede approdare band decisamente più sperimentali e “particolari”, ed i Puscifer rientrano appieno in entrambe le definizioni. La band di Maynard Keenan e Carina Round si distingue sin dalla sua entrata in scena, con una mise totalmente in smoking nero, interpretando il ruolo di agenti segreti americani in viaggio per identificare forme di vita aliena. Durante i 50 minuti di set, questi bizzarri “Men in Black” non mancheranno di prodursi in tutta una serie di siparietti a dir poco esilaranti, con Maynard e Carina ugualmente sugli scudi, senza ovviamente dimenticarsi della musica. “Fake Affront” è il modo perfetto per calarsi nelle atmosfere elettroniche e industrial del combo, così come “Postulous” è il perfetto prosieguo di quanto detto poc’anzi. La cura maniacale con cui è stato realizzato lo show lascia esterrefatti, con una band composta quasi unicamente di polistrumentisti che sembrano quasi macchine, ma macchine capaci di generare atmosfere sognanti e lisergiche, con le voci dei due cantanti a condurre il gioco. Nonostante il caldo infernale, lo spettacolo fila liscio fino alla sua conclusione e, volendo essere sinceri, non possiamo nascondere che forse il gruppo avrebbe meritato una collocazione diversa, con un minutaggio maggiore.

I Puscifer ci hanno portati nell’Iperuranio, ma gli Arch Enemy ci assestano una serie di colpi capaci di riportarci subito con i piedi per terra. La band svedese, come è naturale che sia, concede la maggior parte dello spazio in scaletta a “Deceivers”, l’ultimo disco pubblicato, piazzando ben cinque pezzi da esso provenienti. Il gruppo è oramai una macchina da guerra perfettamente oliata, in cui ogni membro conosce perfettamente il proprio ruolo ed è capace di brilla di luce propria; se Adrian Erlandsson è un martello pneumatico incapace di accusare la fatica ed Alissa White-Gluz è una frontwoman praticamente inappuntabile, la coppia d’asce Amott – Loomis riesce a rendere alla perfezione tutti quegli intrecci che da sempre contraddistinguono gli Arch Enemy. Va da sé che c’è spazio anche per materiale proveniente da album precedenti, senza dimenticarci di quel “Doomsday Machine” che, ancora oggi, è uno dei dischi più adorati del gruppo, omaggiato con due pezzi del calibro di “My Apocalypse” e “Nemesis”, a cui è affidata la chiusura di uno show senza grosse sbavature e che fa il suo dovere.

Saremmo dei bugiardi se ci fossimo professati non incuriositi dallo show di Porcupine Tree. Le ragioni sono tante e tutte ugualmente valide: come ben sappiamo, la band era calata in un silenzio assordante da oramai 12 anni, in cui Wilson e soci avevano dato spazio ai loro progetti solisti, senza accennare minimamente alle sorti della band che, quindi, era stata ritenuta sciolta. In secondo luogo, l’Hellfest rappresenta l’unica data in terra francese del gruppo britannico che, tramite le parole del suo fondatore, ha motivato la scelta fatta sulla base della maggior “apertura mentale” del festival; aggiungete a quanto ora detto la curiosità di sentire dal vivo l’ultimo “Closure/Continuation” e potrete facilmente immaginare quante persone fossero assiepate sulle transenne del Main Stage 1. Nonostante un set di 1 ora e 10 minuti (trascorsa, su espressa richiesta del gruppo, in totale assenza di cellulari), la band propone una scaletta composta da nove pezzi, di cui quattro provenienti dal loro disco più recente ed altri estratti da dischi come “In Absentia”, “Deadwing” e “Fear of a Blank Planet”. Wilson, Harrison, Barbieri e soci si dimostrano ispiratissimi, con il frontman capace di avvincere, con poche e semplici mosse, un pubblico già in adorazione mistica. La qualità tecnica è ovviamente altissima, con una menzione particolare per John Wesley, chitarrista e seconda voce capace di reggere il paragone con i summenzionati mostri sacri. Il set riesce a regalarci chicche come “Open Car”, eseguita per la prima volta dal lontano 2010, la lunghissima (ma bellissima) “Anesthetize” e “Trains” che, con il suo intenso momento acustico, chiude un set a dir poco maestoso. Forse a chi non batte il cuore per il prog rock potrà aver trovato un po’ troppo prolisso lo show ma, guardandoci i volti estasiati tutti intorno a noi, possiamo affermare di essere in presenza di una delle migliori esibizioni di questo Hellfest 2023.

“L’Hellfest val bene una messa”: ok, forse la citazione non sarà esatta, ma i Powerwolf la vedono esattamente così e, proprio per questo, iniziano la loro “messa metal” sulle note di “Faster Than the Flame”, che presenta tutte le caratteristiche del sound dei tedeschi: ritmiche serrate farcite da melodie a base di organo e strumenti etnici, il tutto condito da continui riferimenti cristiani e folkloristici. Attila Dorn si rivela essere il solito frontman sornione e comunicativo, capace di catalizzare su di sé l’attenzione del pubblico, ma senza per questo oscurare il resto della band, sfoderando una voce baritonale e roca quanto basta per evocare le atmosfere medievaleggianti della band, come testimoniato dalla terremotante “Amen & Attack”. Non mancano ovviamente le hit del gruppo (“Armata Strigoi” e “Demons Are a Girl’s Best Friend” su tutte), così come pezzi più rari come “Bête du Gévaudan”, eseguita in un perfetto francese che, pochi istanti prima, il frontman aveva detto di conoscere poco o nulla. Il pubblico, va da sé, risponde alla perfezione, a suon di headbanging e moshing e, dopo un piccolo break sulle note di “Agnus Dei”, la band cala la tripletta finale, composta da “Sanctified With Dynamite”, “We Drink Your Blood” e “Werewolves of Armenia”, chiudendo un show decisamente convincente.

Quando si parla degli Iron Maiden, si parla di una delle band heavy metal per antonomasia, di quelle che hanno plasmato il genere che noi tutti amiamo. Tuttavia, sappiamo altrettanto bene che il tempo non fa sconti a nessuno, neanche alle leggende; la notizia dei problemi recentemente riscontrati da Nicko McBrain è finita sulle webzine di mezzo mondo, affermando che anche su quello che sembrava il più solido dei muri è apparsa una crepa, e non si sa quanto sia riparabile. Sulla base di quanto ora scritto, è comprensibile quanto anche (e soprattutto) i fan di lunga data della band inglese fossero pervasi da un mix di trepidante attesa e preoccupazione per i loro beniamini. Dopo l’intro a base della celeberrima “Doctor Doctor”, è tempo di tuffarsi a capofitto nell’album che i Maiden intendono celebrare in questo tour: stiamo parlando di Somewhere in Time, da cui provengono i primi due pezzi della serata, “Caught Somewhere in Time” e “Stranger in a Strange Land”. Subito dopo è il turno di omaggiare a dovere “Senjutsu”, da cui proverranno ben cinque pezzi della scaletta, di cui “Writing on the Wall”, “Days of the Future Past” e “The Time Machine” tutti in rapida successione. Fino a questo momento, la band sembra tenere botta, smentendo le voci che circolavano sulle condizioni del batterista; tuttavia, se “Can I Play With Madness”, “Heaven Can Wait” ed “Alexander the Great” procedono senza intoppi, su “Fear of the Dark” ed “Iron Maiden” si sente che qualcosina non quadra: i pezzi sono sensibilmente più lenti, consentendo al batterista di tirare il fiato e di semplificare alcuni del fill più intricati e, al tempo stesso, più iconici di quei brani. La stessa sorte tocca allo stacco di rullante che introduce “The Trooper”, saltato a pie’ pari, e lo stesso riff iniziale di “Wasted Years” (che chiude lo show), non appare subito riconoscibile, grazie ad una corposa quantità di bpm in meno. Lo spettacolo offerto, badate bene, rimane di una qualità assoluta, come solo gli Iron e pochi altri sanno regalarne; cambi di scena, diverse versioni di Eddie sul palco, fuochi ed effetti speciali in quantità: nulla è mancato all’appello. La stessa band svolge il suo lavoro con una scioltezza che solo i professionisti più navigati ed appassionati riescono a mettere in campo; al netto di tutto quanto detto finora, però, la sensazione è che stavolta qualcosa non abbia funzionato nel verso giusto, facendoci avvertire che forse non oggi, forse non domani, un’altra delle gloriose bandiere dell’heavy metal potrebbe ammainarsi. Ma fortunatamente, come disse un grande eroe cinematografico, non è questo il giorno. Ragion per cui, oggi come allora, Up The Irons!

Tra le band che conoscono decisamente bene il proprio mestiere, non possiamo non annoverare i Within Temptation che, con oltre 20 anni di carriera, sono diventati un’istituzione del symphonic metal. E che cosa potremmo mai aspettarci da una band che conosce alla perfezione i gusti del proprio pubblico, se non uno show privo di qualsivoglia sbavatura? Non appena Sharon appare sul palco, i presenti iniziano a manifestare il loro hype, che sfocia in un boato sulle note di “Our Solemn Hour”, e che continua a trovare il suo sfogo sulle successive “The Reckoning” e “Bleed Out”, pezzo inedito proposto per la prima volta dal vivo. Anche in questo caso, la band ha attinto da pressoché tutti gli album della sua discografia, non facendo assolutamente mancare classici del calibro di “Angels”, in cui la frontwoman sfoggia la parte più alta del suo registro vocale, “Stand My Ground” e “Stairway to the Skies”. Va da sé che non sono mancati fuochi e gli oramai consueti cambi d’abito della cantante che, grazie a dei suoni perfetti e ad una band rodata che più rodata non si può, riesce sempre a tenere in mano il suo pubblico, esaltandolo pezzo dopo pezzo, fino a “Mother Earth”, che chiude un’ottima esibizione. Come spesso accade con band di questo genere, la loro proposta musicale potrà tanto attirare il vostro gradimento quanto farvene allontanare alla velocità della luce, ma è impossibile negare quanto i Within Temptation, insieme ai Nightwish e ad oramai pochissimi altri, siano una delle punte di diamante nel loro campo.

Avvolgiamo all’indietro le lancette dell’orologio, e risaliamo al 2018. Non si sentiva ancora parlare di Covid, andare ai concerti era ancora l’attività più normale del mondo e, ancora una volta subito dopo uno show degli Iron Maiden, su un palco minore dell’Hellfest, si stava esibendo uno di quegli artisti che aveva portato la synthwave al successo commerciale: Carpenter Brut. A distanza di 5 anni, lo troviamo a calcare le assi del Main Stage 1, con il non semplice compito di chiudere la terza giornata del festival. Il tempo di accendere il gigantesco ledwall che domina il palco, il tempo che le luci creino la giusta atmosfera e parte la musica che, per circa 90 minuti, ci scaraventerà nel cuore più oscuro degli anni ’80, facendoci ballare e pogare. Il pubblico accoglie l’invito con il più assordante dei boati, e le melodie di “Disco Zombie Italia”, “Turbo Killer” e “Le Perv” sono cantate a memoria da praticamente tutti i presenti; lo spettacolo continua, e “Roller Mobster” scatena un moshing selvaggio, di quelli che raramente si vedono in giro. “Beware the Beast” è uno dei momenti più alti dello show, che trova la propria conclusione con “Maniac”, iconico brano di Michael Sembello che, mai come stasera, è il perfetto commiato alla terza giornata del festival. Inutile dire che sentiremo ancora parlare tanto e per tanto tempo di Carpenter Brut, che sembra solo alle battute iniziali di una carriera fulgida e duratura.

Quarto giorno

Se finora, ad eccezione della calura della giornata di ieri, il tempo era stato clemente nei nostri confronti, il quarto giorno si apre nel segno di una pioggia torrenziale che, ovviamente, condizionerà non poco tutti i presenti. Per quanto riguarda noi, allacciati gli anfibi ed indossato l’impermeabile, ci rechiamo presso il palco dell’Altar per assistere alla performance di una band estremamente sottovalutata: i Vektor. Nonostante i più possano non conoscere il gruppo in questione, basti sapere che, al netto di soli tre album pubblicati in quasi 20 anni di carriera, stiamo parlando di una delle punte di diamante del technical thrash metal, capace di fonderlo con elementi speed e progressive con rara maestria. Nonostante siano da poco passate le 15, sono davvero tante le persone che sono in attesa della show, che inizia spedito sulle note di “Cosmic Cortex”, che dimostra quanto la band sia in forma e vogliosa di interrompere un silenzio durato troppo, troppo a lungo. I 45 minuti di scaletta ci regalano brani del calibro di “Oblivion”, “Black Future”, “Tetrastructural Minds”, “Pillars of Sand” e “Recharging the Void”, capaci di mostrare la poliedricità di una band che ha raccolto molto meno di quanto ha seminato. Non nascondiamo che avremmo desiderato assistere ad set più corposo, anche solo per qualche classico in più, ma ci rendiamo conto che, alla luce degli ultimi eventi che hanno riguardato il frontman, è già un immenso regalo averli potuti vedere dal vivo. Non possiamo che augurare il meglio a Dave DiSanto e soci, affinché riescano finalmente ad occupare il loro posto al tavolo dei big.

Neanche il tempo di tirare il fiato che la voce di Jamey Jasta echeggia dal Main Stage 1, e questo significa una sola cosa: gli Hatebreed hanno iniziato il loro concerto. Ci catapultiamo quanto più vicino possibile alla transenna, ma a distanza di sicurezza per evitare di essere risucchiati nel vortice del moshing che questa band è capace di scatenare. Il menù è quasi sempre lo stesso: aperitivo a base di “To the Threshold”, “Destroy Everything” come prima portata principale e tanti altri classici a rimpolpare il banchetto che ogni amante del pogo più forsennato desidera. “Proven”, “Tear It Down”, “As Diehard as They Come”, “In Ashes They Shall Reap”, niente sembra mancare all’appello, ed il gruppo chiude il suo show con la doppietta “Perseverance” / “I Will Be Heard”, che ci restituisce un combo che oramai conosce il suo mestiere, ed è capace di eseguirlo alla perfezione.

Ci spostiamo sul Main Stage 2 perché sta per salire sul palco una band che, con il suo ultimo album, è riuscita ad emergere ed a ritagliarsi il suo spazio in un panorama che sembra sempre troppo affollato. Vi state domandando di chi stiamo parlando? Ma degli Electric Callboy, ovviamente! Se “Tekkno” è stato uno degli album più caldi del 2022, e se il loro show italiano di qualche mese fa è andato sold out, potrete immaginare quanto grande sia la voglia di capire di cosa siano capaci questi sei tedeschi. Dopo un brevissimo video di introduzione, “Tekkno Train” da inizio alle danze, nel vero senso del termine: il pubblico reagisce pogando, facendo headbanging, sfoggiando costumi improbabili e, soprattutto, sorridendo come alla più spensierata delle feste liceali. Ma i giochi sono appena iniziati e, quindi, l’accoppiata “MC Thunder II” e “Spaceman” ribadisce quanto la band abbia voglia di divertirsi con i presenti. Da un punto di vista musicale, tutto sembra funzionare alla perfezione, con l’unico dubbio inerente ad un sensibile uso di basi pre-registrate, che aiutano non poco a riempire la pasta sonora, soprattutto quando si tratta di venire incontro alle esigenze di Nico, a cui sono affidate tutte le melodie pulite. Se siamo soliti identificare tutto questo come un difetto, nel caso in questione, invece, l’uso di basi sembra perfettamente in linea con la proposta musicale del gruppo che, comunque, non fa mai abuso dell’espediente appena menzionato. Lo show prosegue spedito, continuando ad omaggiare l’ultimo album con brani come “Arrow of Love”, la spassosissima “Hurrikan”, “Mind Reader”, “Pump It” (che avrebbe dovuto spalancare le porte dell’Eurovision alla band) e l’immancabile “We Got the Moves”, che chiude una scaletta che, di fatto, non ha conosciuto pause o cali, restituendoci una band che fa del divertimento la propria bandiera, e che non risparmia neanche una goccia di sudore per stampare un sorriso sui volti dei propri fan.

Mettiamo da parte i coriandoli, imbracciamo ascia, scudo e saliamo sul nostro Drakkar per iniziare una nuova scorribanda, ovviamente con la musica dell’unico gruppo che non può mai mancare nella playlist di un vichingo che si rispetti: gli Amon Amarth. Johan Hegg e soci compaiono su un palco addobbato di tutto punto, con statue, la prua di un drakkar e, in una fase più avanzata dello spettacolo, anche la testa di un drago. Ma per quanto riguarda la musica? La band propone una scaletta con un singolo estratto del nuovo album (“Heidrun”), prediligendo maggiormente il disco “Jomsviking”; altri grandi assenti dalla scaletta sono “Surtur Rising” e “Deceiver of the Gods”, a cui sono stati preferiti il più recente “Berserker” ed i due “Twilight of the Thunder God” e “Versus the World”. Lo show fila che è una bellezza, sia da un punto di vista musicale che da un punto di vista meramente scenico, con Hegg e soci che, dall’alto dei loro 30 anni di esperienza, sanno bene come esaltare il proprio pubblico e come portare la nave (o il drakkar) in porto, nel tripudio di tutti i presenti.

Per la serie “Il Paradiso all’improvviso”: eravamo tutti pronti ad assistere allo show degli Incubus (già reduci dalla cancellazione della loro data italiana) e, a pochi minuti dal fischio d’inizio, veniamo avvisati che anche la data a Clisson è saltata e che, al loro posto, si esibiranno i Crisix, band thrash metal spagnola che, in un battito di ciglia, si è trovata catapultata sul Main Stage 2, ad una manciata di minuti dai Pantera. Come si affronta un colpo di scena di questo calibro? Mettendo in campo tutta la propria passione ed il proprio amore e, soprattutto, non tradendo mai la propria vera essenza. I ragazzi della Catalogna lo sanno benissimo e, dopo essersi caricati a vicenda, iniziano il loro show a base di riff serratissimi e urla selvagge. Va da sé che il set originariamente preparato non doveva estendersi ad un’ora e, proprio per questa ragione, viene rimpolpato con un medley di ben tre cover d’eccezione: “Hit the Lights”, “Walk” ed “Antisocial”. Per quanto invece riguarda il materiale inedito, “Leech Breeder”, “Bring ‘em to the Pit”, “G.M.M.” ed “Ultra Thrash” fanno il loro dover, scatenando un pubblico che, occorre dirlo, era lì per tutt’altra musica. Gli stessi suoni ci mettono un po’ ad essere ricalibrati, ma i Crisix non si risparmiano e, al netto di un’emozione evidente, riescono a portare a casa il risultato, raccogliendo l’approvazione di una platea molto più vasta delle previsioni e che ha fatto sentire tutto il suo calore. Gli spagnoli hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo, meritando ogni singolo applauso, e speriamo di rivederli presto all’opera.

Alzi la mano chi, qualche anno fa, avrebbe mai pensato di vedere i Tenacious D ad uno dei festival metal più importanti d’Europa. Noi eravamo tra quelli che credevano che Jack Black e Kyle Gass potessero essere visti solo attraverso piccolo e grande schermo, e non di certo in sede live. Tuttavia, il recente show di Milano ci ha fatto capire che la formula di questa strana coppia funziona anche dal vivo e, quindi, la curiosità di vederli all’opera in un contesto di tali dimensioni ci incuriosiva non poco. Si inizia sulle note di “Kickapoo”, uno dei tanti estratti di “The Pick of Destiny”, che viene cantata a memoria da praticamente chiunque, e che fa capire quanto il duo sia apprezzato anche (e forse soprattutto) da chi veste di pelle e borchie; non mancano ovviamente brani da altri album come “Rize of the Fenix” e l’omonimo “Tenacious D”, ma è inevitabile che il grosso dell’attenzione sia rivolto alla pellicola che ha reso famosi JB e KG. “Rize of the Fenix” e “Rodie”, pur ottenendo applausi scroscianti, non reggono il confronto con “The Metal”, la divertentissima “Master Exploder” e “Belzeboss”, veri e propri cavalli di battaglia del gruppo. I due sono oramai perfettamente oliati e rodati, capaci di riprodurre alla perfezione tanto i brani quanto i siparietti spassosi che li accompagnano, creando uno show nello show. Il set si chiude con “The Spicy Meatball Song” e “Fuck Her Gently”, capace addirittura di scatenare un body surfing ad alto carico emotivo. Dal punto di vista musicale, nulla è eccepibile: Jack Black, nonostante l’aria da giullare, è un cantante tanto preparato quanto ispirato, mentre Kyle Gass ed il resto della band riescono ad assecondarne e sublimarne il carisma, rendendo letteralmente imperdibile uno spettacolo di questa “strana coppia”. Promossi a pieni voti.

Possiamo dirci tutte le bugie del mondo, ma l’annuncio che, negli ultimi anni, più di tutti gli altri ha sconvolto il panorama musicale è stata quello della reunion dei Pantera. Che sia per il pessimo tempismo, per la poca simpatia che Phil Anselmo è capace di suscitare in chi ha amato la band, per i rapporti tutt’altro che idilliaci con i compianti fratelli Abbott, o per il semplice fatto che non si possa parlare di reunion se metà del gruppo non è più tra noi, la notizia ha fatto il giro del mondo, suscitando reazioni tanto positive quanto diametralmente opposte. Tuttavia, opinioni e gossip a parte, noi siamo qui per parlare di musica e, sulla base di quanto ora detto, non potevamo di certo soprassedere su uno degli show più importanti in cartellone. “A New Level” fa capire che quello a cui stiamo per assistere non sarà un concerto come tutti gli altri, e le prime file, pressate contro le transenne come sardine, sono lì a testimoniarlo. “Mouth for War” è cantata da ogni presente, mentre “Strenght Beyond Strenght” scatena il più selvaggio dei moshing; un Phil Anselmo in buona forma chiede al pubblico quanti avessero già avuto occasione di vedere la band negli anni ’90 e quanti, invece, fossero alla loro “prima volta”, riscontrando una presenza più o meno equivalente di entrambe le categorie di fan. Il grosso della scaletta proviene da “Vulgar Display of Power” e “Far Beyond Driven”, come testimoniano “Becoming” ed “I’m Broken”, su cui chi vi scrive ha rischiato di perdere l’integrità fisica; “5 Minutes Alone” fomenta ancora di più i presenti, così come il ritornello di “This Love”, dove Anselmo è libero di berciare come nei bei tempi andati. Dopo un assalto frontale di questa portata, c’è tempo per far scendere una lacrima sulla guancia del metallaro più duro: l’arpeggio di “Cemetery Gates” fa partire un filmato con scene di vita quotidiana di Dimebag Darrell e Vinnie Paul, facendoci toccare una cicatrice che, purtroppo, non smetterà mai di causarci dolore. Dopo esserci asciugati gli occhi, è tempo di tornare nel moshpit, e “Fucking Hostile” e “Walk” sono lì esattamente per questo. Dopo un medley a base di “Domination” ed “Hollow”, è il momento del pezzo che ha reso celebre la band: quella “Cowboys From Hell” che chiunque ha ascoltato almeno un centinaio di volte in vita propria. Cala il sipario e, come di consueto, è il momento di porci la tanto attesa domanda: questi Pantera valgono il prezzo del biglietto? La risposta, come sempre, non è facile. Premettendo che i Pantera che tutti amano sono venuti a mancare con la scomparsa di Dime e Vinnie, e che Charlie Benante e Zakk Wylde non possono che essere i migliori sostituti sulla piazza – ma sono pur sempre dei sostituti -, non possiamo non riconoscere che lo show proposto sia stato di altissimo livello, con un Phil Anselmo molto più in forma di quanto potessimo immaginare ed un Wylde che, pur rimaneggiando la quasi totalità degli assoli, si rivela uno dei pochissimi chitarristi capaci di reggere il confronto, per tecnica e presenza scenica, con Dimebag Darrell. Piaccia o non piaccia, questi sono i Pantera, ed abbiamo buone ragioni per credere che calcheranno le scene per ancora tanto, tanto tempo.

La notte è ancora giovane, ma il sipario finale è prossimo a calare e, quindi, c’è bisogno di una band che possa sferrare il colpo di grazie ad un pubblico ancora numerosissimo. Vi viene in mente qualche nome migliore degli Slipknot? A differenza di quanto fosse lecito immaginare, la scaletta della serata ha previsto pochissimi estratti dall’ultimo disco della band, concentrandosi maggiormente sulla prima release: l’omonimo album “Slipknot”. “The Blister Exists” accende la miccia che porterà ad un bodysurfing praticamente ininterrotto, mentre “Liberate”, “Yen” e “Psychosocial” ci fanno capire quanto siamo al cospetto di una vera macchina da guerra con le sembianze di una band. James Root e Mick Thomson sono una formidabile coppia d’asce, Venturella e Weinberg formano una sezione ritmica a dir poco invidiabile, Sid Wilson riesce a fornire quel tocco di follia che da sempre contraddistingue il sound degli ‘Knot. Una menzione speciale va fatta per Corey Taylor, capace di essere sia il frontman che chiunque vorrebbe avere nella propria band, che un cantante capace di passare con disinvoltura dalle urla ferali di “Psychosocial” alle struggenti melodie di “Snuff”, pezzo da sempre associato al compianto Paul Gray. Non mancano ovviamente classici del calibro di “Eyeless”, “Wait and Bleed” e “People = Shit”, che riescono a far arrivare il boato del pubblico fino alle orecchie del “clown” Shawn Crahan, che ha dovuto allontanarsi momentaneamente dal tour per questioni familiari, ed a cui è andato (e va) tutto il sostegno di band e pubblico. “Duality” e “Spit It Out” chiudono un set memorabile, sfinendo il pubblico, ma facendolo allontanare dalle transenne con il sorriso sulle labbra.

Mentre i consueti fuochi d’artificio accompagnano gli ultimi istanti dell’Hellfest 2023, e mentre vengono resi noti i primi dettagli dell’edizione 2024, veniamo pervasi da quel senso di malinconia che chi frequenta questo genere di eventi conosce benissimo. Ci attende un giorno senza musica, segnato dal ritorno a casa ed alla vita di tutti i giorni, senza palchi tra cui dover scegliere, senza la meravigliosa organizzazione che, anno dopo anno, riesce sempre a migliorare se stessa. Ancora una volta, ci incamminiamo verso l’aeroporto con una nostalgia canaglia che già ci assale, ben consci del fatto che, stavolta, i giorni che ci separano dall’Hellfest 2024 sono un po’ più dei canonici 365, ma la consapevolezza che Ben Barbaud e soci alzeranno l’asticella della qualità ancora più in alto.

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