Dopo la release di “Lifeblood” nel 2021, i Secret Sphere del chitarrista, compositore e producer Aldo Lonobile, lo scorso 10 novembre, sono tornati con il nuovo “Blackened Heartbeat”, un concept album ai confini del paranormale che indaga sull’oscurità dell’animo umano in maniera poetica e vibrante, irrorandone la trama con sonorità più dure ed estreme del consueto. Un disco power metal dai risvolti cupi e imponenti, dunque, di cui Roberto Messina, il singer originario della band, ci racconta vari dettagli e curiosità, compresa un’iniziativa benefica che contribuisce a conferire ulteriore lustro a un gruppo ancora capace, a distanza di anni, di sorprendere per libertà artistica ed estro compositivo.

Ciao Roberto, è un piacere avere di nuovo i Secret Sphere su SpazioRock. Come stai?

Tutto bene, grazie!

Vorrei iniziare facendo un passo indietro: uscisti dalla band nel 2012, rientrando poi in line-up sette anni dopo. Quali furono i motivi principali di quella separazione?

Allora, nel 2012 abbiamo registrato un album che ha avuto, poi, esiti che non ci aspettavamo, ossia lo abbiamo dovuto incidere separatamente per vari motivi logistici, e le linee vocali che io avevo composto sulle musiche che loro avevano già preparato lasciavano qualche dubbio dal punto di vista artistico, cioè che mi ero indirizzato in maniera leggermente differente da come il resto della band si aspettasse. È sorta una questione riguardo a come riaggiustare le cose in modo che l’album facesse contenti un po’ tutti a livello di scelte stilistiche e, quando il confronto è diventato un po’ troppo estremo, nel senso che avrei dovuto rimettere in discussione troppe cose che mi riguardavano, mi sono un attimo tirato fuori. Fermo restando l’ottimo rapporto umano che c’è sempre stato, per me fare musica è tanto importante nella misura in cui ti lascia spazio creativo. In quel momento, avrei dovuto rinnegare la mia vena artistica – almeno io l’ho vissuta in questo modo – per andare incontro a delle aspettative differenti, ma non me la sono sentita e così ci siamo separati. Separazione che è durata circa sette anni, durante i quali loro hanno realizzato album e viaggiato in tour con Michele Luppi. Tuttavia, dal momento che i nostri legami personali non erano cambiati, quando poi è iniziata la separazione da Luppi, prima di chiamare altre persone, sono venuti da me per chiedermi se fossi di nuovo disponibile e io assolutamente lo ero. Ti lascio una piccola nota a margine: il disco che io avevo registrato nel 2012 fu poi modificato e registrato da Michele Luppi (Portrait Of A Dying Heart”, ndr.). Ora stiamo lavorando per ripubblicare ciò che avevo registrato io allora, quindi diciamo che le posizioni si sono un po’ riviste a distanza di anni.

Restando un attimo in tema passato e Michele Luppi, quando nel 2015 uscì “A Time Never Come – 2015 Edition”, cosa provasti a livello emotivo?

Guarda, ti dico la verità, allora non seguivo molto la loro strada dal punto di vista musicale, ma non perché avessi chissà che cosa contro la band e i dischi che realizzava, semplicemente ero un po’ al di fuori del giro e, quando sono venuto a sapere che era stato pubblicato quest’album, mi sono incuriosito e l’ho ascoltato. Dal punto di vista emotivo ti dico che, sinceramente, non mi ha creato chissà quale scompenso, poi quando si fa l’orecchio a un certo disco, sentirlo diversamente lo fa sembrare un’altra cosa. Non è un discorso qualitativo, ma soltanto di gusto personale.

Torniamo al presente e al nuovo album “Blackened Heartbeat”. Innanzitutto, a giudicare dall’ottimo risultato, pare che i Secret Sphere abbiano ritrovato un certo antico entusiasmo …

Io la vivo un po’ come la continuazione cupa dei nostri due album di inizio carriera, “Mistress Of Shadowligth” e “A Time Never Come”. È come se il nuovo disco chiudesse un trittico, se non altro per l’atmosfera che c’è all’interno della band e che riproduce quella dei primi tempi. Ci divertiamo e ci facciamo delle belle risate quando suoniamo, e questo, poi, si percepisce sia dal vivo sia in fase di registrazione.

Rispetto all’ultimo “Lifeblood”, che comunque resta un buonissimo LP, qui sembra che abbiate agito in totale libertà creativa, tingendo i pezzi con sfumature e sonorità, forse, mai così oscure e arrembanti.

Credo che la libertà non ci manchi mai, per me è fondamentale e l’ho dimostrato andandomene quando la stessa è stata messa in discussione e, quindi, non direi che “Lifeblood” sia stato meno libero dal punto di vista compositivo. In realtà, negli ultimi anni, chi scrive più di altri è proprio Aldo Lonobile, tra l’altro in collaborazione con Antonio Agate, il nostro ex tastierista, che contribuisce ancora molto alla composizione dei brani. A seconda del periodo che Aldo affronta con i diversi progetti in cui è impegnato, visto che fa il produttore e scrive musica per molti cantanti, anche rinomati, io credo, ma è solo la mia interpretazione, che lui riceva determinate influenze e poi le riversi nella musica che compone per i Secret Sphere. Se è vero, dunque, che “Lifeblood” risente molto di quelle produzioni, “Blackened Heartbeat” ha subito meno le suggestioni esterne, anzi, il nuovo album sembra quasi una reazione incattivita di Aldo a una fase creativa che, forse, lo ha visto fare cose un po’ più morbide e commerciali in ambito metal. Secondo me, ma lo dico anche come provocazione, aveva voglia di sfogarsi e allora ha tirato giù dei riff molto più pesanti e veloci. Estremi, direi.

Il titolo, come la copertina, lavorano in simbiosi per restituire al meglio ciò che il comparto lirico/musicale dell’album comunica all’ascoltatore. Chi c’è dietro questa splendida combo?

Allora, l’artwork è frutto dell’abilità di Augusto Silva, un ragazzo brasiliano che consideriamo un bravissimo artista dal punto di vista della grafica computerizzata e che aveva già realizzato il layout della copertina di “Archetype”, artwork che ci piaceva tantissimo. Quindi, lo abbiamo ricontattato, sapendo di andare sul sicuro, e gli abbiamo lasciato carta bianca, fermo restando per noi la presenza fissa di una figura femminile sulla cover, e dandogli qualche indicazione sul fatto che avremmo voluto ambientarlo in una sorta di teatro. Il titolo “Blackened Heartbeat”, invece, è venuto in mente ad Aldo e ha a che fare con l’oscurità dell’animo umano: quando il pensiero si contorce e diventa psicopatologia, crea come un ottenebramento dell’anima e questo processo lo abbiamo tradotto in un cuore annerito, un cuore che si offusca, fondamentalmente.

Passiamo, ora, al concept alla base del disco, scritto da te e da Costanza Colombo e che propone una trama molto raffinata, in continua oscillazione tra il realistico e il paranormale. Puoi raccontarcene genesi e sviluppo?

Certo. Intanto, una piccola specifica su Costanza Colombo: lei è una scrittrice indipendente che pubblica anche con il nickname X. e aveva collaborato già in passato con i Secret Sphere proprio nella stesura del concept album “Portrait Of A Dying Heart”. Con lei, quindi, abbiamo definito un’idea primordiale che io e Aldo abbiamo avuto insieme, ovvero quella di scrivere una storia su patologie mentali e che, fondamentalmente, avesse ambientazioni oscure e a tratti violente. Ci sono, in particolare, un paio di canzoni che trattano direttamente di malattie mentali che causano comportamenti aggressivi, un po’ perché ci appassiona l’argomento e un po’ perché con i Secret Sphere abbiamo sempre toccato questo tipo di tematiche. Il nome stesso Secret Sphere ha a che fare con l’inconscio, il che ci ha portato a incentrare la trama su uno psicologo dotato di poteri paranormali; certo, il tutto avrebbe dovuto avere una base assolutamente realistica, ma con un alone di mistero, vista la capacità dello psicologo di entrare, durante le sedute, nella mente dei propri pazienti e di nutrirsi delle loro emozioni vitali. Abbiamo messo in mano questa storia a Costanza Colombo, lei ha un po’ definito i personaggi, la trama, ha scritto tre testi in maniera assolutamente autonoma (“J.’s Serenade”, “Aura”, “Blackened Heartbeat”, ndr.) e ha collaborato con me alla traduzione in inglese delle altre liriche che ho scritto di mio pugno. Lei, che ha vissuto all’estero, parla molto bene l’inglese, io anche me la cavo e così ci siamo dati una mano a vicenda per essere il più corretti ed efficaci possibili.

In riferimento ai tratti della storia più vicini alla realtà, ti sei lasciato ispirare da eventi o persone che hanno a che fare con la tua vita personale?

Sì, assolutamente. Il protagonista del concept, a cui viene dedicata una canzone omonima, si chiama Dr. Julius B. e la sua figura è ispirata a un mio amico, tant’è che gli ho dato il suo stesso nome, ovvero Giulio, eccetto la parte più violenta, ovviamente, altrimenti sarei denunciato e finirei in carcere domani (ride, ndr.). Io ho studiato psicologia e lui è stato un mio compagno di università e fa tuttora lo psicologo. Il suo stile di vita mi ha colpito molto, suggerendomi il paradosso di chi riesce a curare benissimo i suoi pazienti, ma non è capace di curare sé stesso. Per ogni testo, avevamo il vantaggio di poterci collegare con le vicissitudini dei pazienti; di conseguenza, disponevamo di carta bianca su diversi personaggi da introdurre, riuscendo così a raccontare sia storie inventate sia episodi tratti dalla realtà attuale. Per farti un esempio, le canzoni “Anna” e “One Day I Will” sono ispirate alla storia di una ragazza ucraina che, a causa della guerra con la Russia ancora in corso, si è trasferita in Italia insieme a sua figlia, una bambina di otto anni, con la quale deve ricominciare una vita in un paese di cui non parla la lingua. Entrambi i brani, dunque, sono ispirati alla sua storia, raccontata direttamente dalla ragazza e poi messa in musica da me. Aver toccato con mano questa vicenda, mi ha fatto legare particolarmente a “One Day I Will”, comunicandomi, quando la canto, qualcosa in più rispetto agli altri pezzi.

La tracklist si apre con un’introduzione strumentale diversa dal solito, dai toni molto intimi e lontana dalla maestosità di una “Shaping Reality”, giusto per restare agli anni più recenti. Sentivate che fosse giunta l’ora di cambiare qualcosa?

Innanzitutto, ti stupirò dicendoti che non è Aldo ad averlo composto né suonato. È Marco Lazzarini, il batterista, a suonare la chitarra acustica ed è venuto in mente a lui di fare una cosa un po’ diversa dal solito, cosa che noi abbiamo accolto a braccia aperte perché, sinceramente, ci eravamo stufati di avere delle intro sinfoniche, bellissime certo, ma era il momento di voltare pagina.

Uno dei momenti migliori e maggiormente complessi del lotto è sicuramente “Aura”, brano che riassume un po’ tutte le venature stilistiche dell’album all’interno di una struttura progressive metal di matrice statunitense. Sei d’accordo?

Questo è uno dei brani scritti da Costanza Colombo per quanto riguarda il testo. La canzone è una di quelle che più dà sfogo alle capacità tecniche della band e al gusto un po’ più prog che caratterizza soprattutto Marco Lazzarini, il batterista. Devo dire che anche a me piace tantissimo, mi ricorda lontanamente, in qualche passaggio, i Symphony X e il Michael Romeo solista, ed è uno di quei pezzi che ci dà più gusto suonare dal vivo.

Parecchie delle canzoni, tra cui una “Bloody Wednesday” che contiene una seconda voce dall’allure luciferina, presentano influenze vicine al mondo estremo. Penso, soprattutto, al symphonic black metal di Carach Angren, Dimmu Borgir ed Emperor, con orchestrazioni a corredo davvero possenti.

Sì, le orchestrazioni sono più imponenti del consueto, più suggestive. Devo dire che noi non ci poniamo mai a priori l’obiettivo di fare le cose in un certo modo. Ad Antonio Agate sono uscite così e ne siamo contenti. Per quanto riguarda le influenze di area estrema, nell’andare a colorare di nero le canzoni abbiamo preso spunto, magari non volutamente, da esse. La voce che hai citato tu, invece, registrata in “Bloody Wednesday”, è di Aldo. Quelle due frasi che rispondono alla mia strofa sono sue.

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Altro pezzo di rilievo, e sempre ricco di rimandi neri, è “Confession”, canzone che si giova di un video suggestivo, immerso in un clima dai forti aromi gotici che mi ha ricordato i racconti di Edgar Allan Poe. Con chi avete collaborato per realizzarlo?

Concordo appieno in merito alle tue impressioni, le atmosfere sono molto vittoriane, come, del resto, alcuni tratti del booklet. Il regista della clip, invece, è Andy Pilkington, un videomaker che lavora soprattutto con immagini di repertorio. Aveva costruito un primo video che era veramente molto crudo, decisamente più crudo rispetto a quello che vedi ora, tanto che abbiamo dovuto dirgli di smorzare un po’ i toni e di rendere un po’ più poetica la situazione: era un qualcosa, l’originale, che rasentava lo splatter. Diciamo che, forse, quella prima versione era più nel suo stile, nelle sue corde. Con l’aggiustamento che gli abbiamo chiesto noi, adesso il video rappresenta benissimo il pezzo, calza perfettamente e va a creare un’atmosfera di delitto, ma anche di poesia, tant’è che la seconda parte del testo di ”Confession” va a citare delle frasi da Romeo E Giulietta di William Shakespeare. Tra l’altro, volevo sottolineare che la canzone è ispirata al caso di cronaca di Alice Neri, la ragazza che è stata trovata bruciata in un bagagliaio. Diciamo che il testo nasce proprio da lì, poi, comunque, ha preso un po’ la sua strada. È una vicenda piuttosto famosa e piuttosto intricata, e ha stimolato la mia fantasia perché è vero che c’è un solo indagato, ma ci sono situazioni veramente sospette, per non dire paradossali, che non sono state approfondite.

“Psycho Kid”, invece, pur essendo un brano piuttosto sostenuto, sembra più leggero e tradizionale rispetto al resto, vero?

Sì, è più lieve, in stile quasi helloweeniano, quindi diciamo che, quando la canto, mi sento leggero e felice, ha un po’ l’aria da Trick Or Treat, band che saluto con calore e piacere. È sicuramente il brano che, all’interno dell’album, ha dei colori un po’ più chiari e speranzosi.

Roberto, per quanto concerne il lavoro sulla voce, l’hai approcciata in maniera diversa rispetto al passato per adattarti a un contesto decisamente più ruvido?

È cambiato qualcosa nel senso che, anche per quanto concerne le linee vocali, ho collaborato in parte con Aldo. Incidendo nel suo studio, è stato facile influenzarci a vicenda, quindi, durante le registrazioni, quando a uno dei due veniva un’idea, la si proponeva e ci si lavorava insieme. Non posso dire che le linee vocali siano al 50% mie e al 50% sue, però Aldo ci ha messo un buono zampino, anche dal punto di vista dell’orecchio del produttore.

Mi aggancio alle tue ultime parole in merito alla produzione, che avverto allo stesso tempo potente ed equilibrata. La voce non ha quell’egemonia di carattere “operistico” che ci si aspetterebbe, così da lasciare il giusto ruolo al lavoro degli strumenti. Una scelta obbligata per un disco che non è solo e semplicemente power metal?

Credo che questo sia in parte dovuto al missaggio, nel senso che, a livello di volumi, la produzione di “Lifeblood”, opera del chitarrista dei DGM Simone Mularoni, che ha lavorato nel proprio studio, ha dei tratti – prendi tra virgolette quello che ti dico – tendenti al pop, genere dove c’è la propensione a tirare la voce molto più fuori dal mix. Aldo, al contrario, e secondo me anche intelligentemente in questo tipo di disco che è più metal, ha deciso di tenere la voce un po’ più dentro al mix, operazione che su dei riff trash è assolutamente necessario, perché, altrimenti, la chitarra non avrebbe quel ruolo di predominio che merita. Non dimentichiamoci la batteria, visto che anche Marco ha fatto un grandissimo lavoro su questo disco, lo fa tutte le volte che suoniamo, fa una sauna praticamente, perché eseguire questi pezzi non è assolutamente facile. Insomma, è giusto che tutti abbiano il proprio spazio da protagonista.

Uno spazio che, mai come questa volta, ha visto protagonisti molte personalità artistiche, tanto che potremmo quasi considerare i Secret Sphere un vero e proprio collettivo …

A proposito di quanto hai detto, ti spiego una cosa. Noi non siamo un gruppo che suona soltanto nelle cantine e questo la reputo una fortuna. Riusciamo a fare un po’ di tour, a uscire un po’ dalla nicchia e, allo stesso tempo, abbiamo la ventura di non essere famosi, nel senso che non siamo particolarmente grandi come band, perché, altrimenti, questo potrebbe, a mio parere – magari gli altri dissentiranno – limitare quella creatività che tu prima dicevi libera e che consente di non essere mai uguali a sé stessi. Diventando un po’ troppo celebri si entrerebbe, forse, in un giro nel quale riesce difficile non applicare la mentalità di squadra vincente non si cambia. Per la serie, se scoprissimo di aver venduto tot copie e di averci guadagnato bene, sarebbe spontaneo e probabilmente giusto non cambiare, finendo, poi, di ripetere sé stessi e diventare stucchevoli. Dal punto di vista musicale, noi abbiamo la fortuna di essere ancora quasi dei morti di fame e questo per degli artisti è un buon segno, altrimenti saremmo dei semplici commercianti.

Sono d’accordo. D’altronde, tra le band operanti tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei Duemila, i Secret Sphere rimangono gli unici – o quasi – che hanno mantenuto un livello che oltrepassa la semplice sopravvivenza.

È un bel complimento, davvero, ma ci sono anche altre band che, sinceramente, trovo sempre di ottimo livello: ne cito una su tutte, i DGM. Sicuramente, il fatto di essere rimasti a un buon livello di dignità sia dovuto al fatto proprio che lo facciamo per passione. Tu considera che Aldo lavora per Frontiers Music, la nostra etichetta, e quindi, dal punto di vista commerciale, conoscerebbe tutte le varie logiche di mercato per applicarle ai Secret Sphere. Ma lui è un vulcano creativo e non si riesce a contenerlo così facilmente.

Roberto, volevo chiederti, ora, qualche delucidazione in più sul release show che terrete al Teatro Alessandrino a fine novembre, un evento che non rappresenta soltanto un modo originale di presentare “Blackened Heartbeat”, ma anche un mezzo per aiutare le persone che soffrono.

Allora, sarà il 26 di novembre all’Alessandrino, che è il teatro principale di Alessandria, città da cui proveniamo. Ci è venuto in mente di fare un release show che, per la prima volta dopo anni, fosse a casa nostra, nel senso che andiamo sempre a suonare fuori all’estero e non ci siamo mai occupati, di recente, della nostra area. Nel fare questo ci siamo detti: “Se dobbiamo occuparci della nostra area, facciamolo con un obiettivo davvero utile oltre che piacevole”. Siamo venuti in contatto con un medico dell’ospedale di Alessandria, un neurochirurgo che, tra l’altro, è molto famoso a livello nazionale perché ha curato un po’ di casi importanti, comprese anche persone che conosciamo direttamente. Quindi, un po’ come tributo all’operato di questo chirurgo e un po’ come volontà di dare una mano concreta con una donazione a una sanità che, in questo momento, ha i suoi buchi, ci è venuto in mente di organizzare un evento di beneficenza per il reparto di neurochirurgia dell’Ospedale SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo di Alessandria. Questa cosa è stata apprezzata a livello di comunità e ci auguriamo di riempire il teatro perché è abbastanza grosso, sono 800 posti e, normalmente, noi non abbiamo una tiratura così ampia, ma ci auguriamo, con l’evento di beneficenza, di riuscire a coinvolgere la cittadinanza al fine di devolvere una cifra significativa, perché, altrimenti, il tutto diventerebbe semplicemente una donazione simbolica. A noi interessa riuscire a dare davvero qualcosa di concreto. Uno, perché viviamo tempi in cui spesso si dice che le cose vanno male, e noi volevamo dare un segno che le cose si possano far andare meglio rimboccandosi le maniche; due, per dare anche il segnale che i medici sono una parte importante della nostra società, in particolare quelli che seguono ancora un’etica molto ferrea e si occupano dei pazienti con interesse e passione.

Questo vi fa onore, davvero.

Grazie. Volevo sottolineare ancora una cosa. Ad Alessandria, ovviamente, non verranno persone, che so, dal Giappone per vedere il concerto. Noi, però, abbiamo pensato, visto che alcuni fan ci contattavano incuriositi da questo evento di beneficenza, di estendere la possibilità di vendere i biglietti un po’ a tutti e abbiamo già avuto degli acquisti dal Giappone e dagli Stati Uniti. Una volta che lo comprano e ci dicono di non venire, ma di avere fondamentalmente partecipato con la donazione, ci comunicano il posto e poi noi, tramite un’associazione locale che si occupa di persone disagiate socialmente, mettiamo a disposizione gratuitamente questi biglietti a favore di coloro che l’associazione stessa ci manda.

Dove sono acquistabili i biglietti?

Certo, sono in vendita sul circuito TicketOne.it. Chiunque non abbia intenzione di venire fisicamente, ma voglia partecipare per donare, che ne so, dieci tagliandi – adesso sto esagerando – , può acquistarli e ci scrive sui social, Instagram o Facebook, ci comunica il biglietto che ha acquistato con il numero di sedile, noi lo mettiamo a disposizione e poi ne diamo riscontro.

Una domanda riguardo i prossimi live. Lo scorso 9 novembre siete stati all’Headbangers Pub di Milano per una prima presentazione dal disco, ma per vedervi in tour dovremo aspettare il 2024?

Sì, abbiamo fatto una presentazione con ascolto del disco, ma senza suonarlo dal vivo, e una mezz’oretta di set acustico con un pugno di pezzi dal passato. Per quanto riguarda il tour, a dicembre ne abbiamo già uno di alcune date in Giappone, mentre per quello europeo dovremo aspettare il 2024. Stiamo valutando un po’ di situazioni e sicuramente tra Italia ed Europa ci muoveremo per promuovere l’album.

Roberto, grazie mille per l’intervista e complimenti per “Blackened Heartbeat”. Vorresti lasciare un messaggio ai lettori di SpazioRock e ai tanti sostenitori dei Secret Sphere?

Certo. Intanto grazie mille a te. Interveniamo sempre con piacere su SpazioRock. Vorrei lasciare il messaggio agli ascoltatori di non abbandonare la musica dal vivo, perché è una cosa che ormai è di pertinenza solo degli ultraquarantenni, mentre vedo che le nuove generazioni faticano ad andare ai concerti, perlomeno quelli di media categoria nei locali, non va più molto di moda. Bisogna pur dire che gli ultraquarantenni fanno più difficoltà a uscire il sabato sera e tornare a casa alle tre del mattino dopo aver visto un concerto, soprattutto  dopo una settimana spesa tra lavoro e affetti. Ed è questo il motivo per cui abbiamo deciso di organizzare il nostro release show di domenica pomeriggio, alle 18.00, perché abbiamo pensato di dare la possibilità di venire anche a chi ha una famiglia e di portare con sé i bambini senza costringerli a stare svegli fino a notte inoltrata. Ti saluto con gratitudine e abbraccio tutti i lettori di SpazioRock.

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