kk's priest the sinner rides again recensione
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KK’s Priest – The Sinner Rides Again

Vi trovate ad un concerto, magari in un piccolo pub di provincia, avete tracannato un paio di birre (o forse qualcuna in più) e vedete salire sul palco una band con pantaloni di pelle, capelli lunghi e qualche borchia sparsa qui e lì che, dopo un breve presentazione infarcita di “mothaf*ckers” ed “hellyeah“, inizia il suo show proponendo pezzi infarciti di cliché provenienti dal repertorio dei mostri sacri dell’heavy metal.

Come reagireste a questa scena?

Se foste dei defender della primissima ora, potremmo facilmente immaginare il vostro sdegno: è risaputo che le grandi band del passato sono dei totem pressoché intoccabili, da cui si può trarre ispirazione, ma mai azzardarsi a copiarle, pena l’unfollow ed una sequela di commenti acidi su social e piattaforme web.

Ma se la band di cui sopra fosse il progetto di un musicista che quei cliché li ha creati? Se quell’artista avesse militato, fino all’altro ieri, in uno di quei gruppi che hanno contribuito a plasmare il genere che tutti amiamo? In questo caso, quale sarebbe la vostra reazione?

Se non sapete dare una risposta precisa a questa domanda, non preoccupatevi: chi vi scrive è nella vostra stessa condizione.

K.K. Downing, ex storica ascia dei Judas Priest, è arrivato al secondo capitolo del suo progetto solista, i KK’s Priest che, come già il nome potrebbe suggerire, ha più di qualcosa in comune con la band di Halford e soci. Il biondo chitarrista britannico non ha mai nascosto il suo risentimento nei confronti della sua ex band, nonché il suo disappunto per non essere mai stato preso in considerazione per un’eventuale reunion, e possiamo immaginare che una larga fetta di questo livore sia stato riversato all’interno dei KK’s Priest.

Aggiungete a quanto ora detto che “Sermons Of The Sinner”, album di esordio della band, si era rivelato piuttosto deludente e derivativo e comprenderete la cautela con cui abbiamo affrontato la recensione di “The Sinner Rides Again”, il secondo lavoro in studio del gruppo.

Iniziamo subito dicendo che questo secondo disco ricalca in buona parte quanto avevamo sentito nel suo predecessore, e “Sons of the Sentinel” è proprio il pezzo ideale per farci comprendere quanto ora sottolineato. Riff aggressivi, ritornello melodico e facilmente memorizzabile, armonizzazioni ed assoli di chitarra come se piovesse e, ovviamente, gli immancabili acuti di Tim “Ripper” Owens, altro “grande ex” presente in line up: se state avvertendo qualche “retrogusto” dei Judas Priest non preoccupatevi, è la pura e semplice realtà dei fatti.

“Strike of the Viper” e “One More Shot at Glory” sono le classiche mid tempo che non si discostano molto da quanto detto in precedenza, sfoggiando dei notevoli intrecci di chitarra e, soprattutto, mettendo il cantante nelle giuste condizioni per dar spazio alla sua vocalità. A tal proposito, va fatta una menzione d’onore per “Ripper” Owens, autore di un’ottima prova complessiva, soprattutto quando non gli viene chiesto di rincorrere l’acuto per un intero disco, ma di poter fare ricorso a tutto il suo registro vocale.

“Reap the Whirlwind” e “The Sinner Rides Again” ci riportano su coordinate talmente “priestiane” che i pezzi in questione potrebbero tranquillamente essere confusi con brani del repertorio del combo di Birmingham. Nella title track, oltre allo stile di Kenneth Downing (per gli amici K.K.), possiamo anche constatare la bravura di A.J. Mills, autore di una performance solida e convincente.

“Keeper of the Graves”, con il suo riff funereo e la sua struttura circolare, rappresenta forse l’episodio più variegato dell’album, che però ritorna subito sulla strada maestra con “Pledge Your Souls” e “Wash Away Your Sins”. Nel primo caso, abbiamo una fedelissima riproposizione di tutti quei cliché musicali che hanno portato alla gloria i Judas Priest, mentre nel secondo caso non è possibile non cogliere i diversi riferimenti (e qualche frecciatina) alla sua ex band ed ai suoi ex compagni.

Volendo tirare le somme, “The Sinner Rides Again” è un buon disco, che racchiude tutta la classe di un chitarrista la cui impronta, è bene ricordarlo, è ancora chiaramente percepibile nel metal. I suoi riff aggressivi e taglienti sono ancora capaci di avvincere l’ascoltatore, e non abbiamo dubbi sul fatto che diversi di questi pezzi possano avere una certa resa in sede live. I suoni riescono a dare giustizia a tutta la line up che però, seppur in maniera minore rispetto a “Sermons Of The Sinner”, è ancora troppo avvolta dall’ingombrante ombra dei Judas Priest.

È giusto chiedere a K.K. Downing di tagliare totalmente i ponti col suo immenso passato? Probabilmente no, soprattutto se questo significasse rinunciare alla sua identità ed al suo stile; tuttavia, quello che possiamo augurare al chitarrista britannico è di non entrare in competizione con ciò che è stato, proseguendo per una strada che sia sua e di nessun altro. I veleni, si sa, non hanno mai portato a niente di buono.

Tracklist

01. Sons Of The Sentinel
02. Strike Of The Viper
03. Reap The Whirlwind
04. One More Shot At Glory
05. Hymn 66
06. The Sinner Rides Again
07. Keeper Of The Graves
08. Pledge Your Souls
09. Wash Away Your Sins

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