“Non siamo una band estremamente politica, ma quando accadono cose del genere non puoi ignorarle, influenzano il modo in cui percepisci la vita e il mondo. Creano sentimenti di estrema sfiducia nei confronti della gente al potere, di ciò che sono i media, il governo, o un governo segreto… è da quella sensazione di impotenza che nascono i momenti più estremi di paura, panico e sensazioni apocalittiche”.

11 settembre 2001.
Matthew Bellamy, Chris Wolstenholme e Dominic Howard si sono persi l’attentato alle Torri Gemelle per un soffio, essendosi trovati a New York soltanto il giorno prima per uno showcase del recente “Origin Of Symmetry”. Intrappolati a Boston per settimane in attesa di un volo che li riporti in Inghilterra, nel frattempo compongono e registrano due singoli, “Dead Star” e “In Your World” (confluiti nel 2002 in un album di B-sides, “Hullabaloo Soundtrack”). Sono entrambi brani dichiaratamente riguardanti l’evento catastrofico appena accaduto, ma in maniere diverse: il primo è un’invettiva sul ruolo del governo americano nei fatti, il secondo una dedica di solidarietà ai cittadini coinvolti. L’interesse di Bellamy per le questioni di carattere collettivo, declinato in questi due modi, permane e si intensifica nei mesi a seguire — e su questa scia si decreta il filone del prossimo lavoro dei Muse. Stavolta il concept dev’essere portato su un nuovo livello: più coeso, più drammatico, più in grande. 

Quando inizia il ritmo marziale e imponente di “Apocalypse Please“, in effetti, pare quasi di udire gli echi dell’organo di “Megalomania”, che chiudeva “Origin Of Symmetry” in un tripudio di solennità. Invece di sfidare Dio a gettare la maschera, tuttavia, qui Bellamy annuncia che non si può peccare di hubris senza pagarne le conseguenze: “This is the end of the world”.

È un’emergenza globale, dunque, il fil rouge di quest’album. Un evento inevitabile dal quale l’umanità non ha scampo. Ed è proprio qui che interviene la religione, proponendo la sua via di salvezza per antonomasia: l’assoluzione dai peccati nella speranza di una vita eterna, affrontata nell’incantevole e oscura (quasi) title track “Sing For Absolution”. Il cui finale, però, esprime una sentenza assai più cruda: “Our wrongs remain unrectified/And our souls won’t be exhumed”.

I nostri torti non vengono rettificati, le nostre anime non saranno riesumate. Nel caos dell’Apocalisse, c’è anche chi rivaluta il divino, come il protagonista di “Thoughts Of A Dying Atheist” — un ateo che, sul letto di morte, teme l’ipotesi di un’entità sovrannaturale ad attenderlo al varco (“I know you’re in this room, I’m sure I head you sigh/Floating in between where our words collide/And it scares the hell out of me”). C’è chi invece s’interroga sulla caduta dell’umanità, speculando teorie del complotto secondo cui a governare il mondo vi sarebbe una folle e occulta potenza segreta, come raccontano “The Small Print” e soprattutto la ending track “Ruled By Secrecy”. Quest’ultimo brano – che musicalmente si direbbe l’ultimo appiglio di chi ancora cerca paragoni coi Radiohead – s’ispira al libro “Rule By Secrecy” di Jim Marrs, noto esponente della teoria di cui sopra.

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Arrivati fin qui, si potrebbe pensare che le tematiche del disco suggeriscano una visione delle cose totalmente fatalista, quand’ecco che nella seconda metà della tracklist i Muse ci invitano alla resistenza. Combattere titanicamente, contro tutto e tutti e nonostante le stelle avverse, instaurando quella dialettica di “noi contro loro” che negli anni a seguire diverrà per la band un marchio di fabbrica: “You’ve got to change the world/And use this chance to be heard/Your time is now” proclama “Butterflies and Hurricanes” nel suo frenetico ciclone di archi e piano. Il titolo, d’altronde, è riferito al “butterfly effect” — la teoria secondo cui un evento apparentemente insignificante, come il battito d’ali di una farfalla, può scatenare un uragano dall’altra parte del mondo. Si ricrea così lo stesso dualismo che Bellamy aveva iniziato in quell’11 settembre con “Dead Star/In Your World”: se una metà del disco è uno j’accuse politico e pregno di disperazione, l’altra è un’esortazione al cambiamento, all’empatia e alla solidarietà. “Sono uscito da una relazione durata sei anni e ne ho iniziata una nuova, e questo è stato un evento parecchio rilevante per me” commenta Bellamy a riguardo. “Suppongo che in questa situazione [geopolitica, ndr], uno guardi le cose davvero importanti – amici, famiglia, libertà di pensiero – e forse inizi ad accorgersi della loro importanza”.

Non mancano, a tal proposito, le tracce che vertono su temi umani ed emotivi — dalle crisi esistenziali di “Blackout” alla relazione finita di “Falling Away With You” (una perla di rara delicatezza nel repertorio dei Muse: da vent’anni i fan sognano invano di ascoltarla dal vivo), nonché quella appena iniziata di “Endlessly”. Un amore più carnale e malsano viene affrontato anche nei singoli “Stockholm Syndrome” e “Hysteria”; i due brani, tuttora fra i più amati dai fan, sono anche i più “heavy” dell’intero lotto – il primo arriva a sfiorare l’alt-metal, il secondo è trainato dall’ormai leggendaria bassline di Chris Wolstenholme –, facendo da contraltare alle tracce di operistica ispirazione, in un pacchetto finale più diversificato di prima, ma anche digeribile e intrattenente per un pubblico più vasto. La formula musicale dei Muse ispirerà diversi artisti negli anni a venire: dai coetanei Coldplay, loro amici e grandi fan (“Non diventeremo mai estremi come i Muse: lasceremo che facciano le cose più grandi e poi ci chiederemo “ok, come diavolo hanno fatto?”), alle nuove generazioni, come i Royal Blood.

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L’album è quasi ultimato, “Stockholm Syndrome” sarà scelto come singolo di lancio (peraltro fruibile, all’epoca, solo tramite download online: “Internet è sempre più veloce e prima o poi non ci si limiterà a scaricare solo una canzone”, commenta Dom Howard, sul finire del 2003, con una certa lungimiranza). I Muse stanno armeggiando con gli strumenti alla ricerca di un sound insolitamente pop, qualcosa che ricordi il Michael Jackson di “Billie Jean”. Il tour manager Glen Rowe descrive la nascita del brano in questione come il divampare di un incendio: “Credevi che Matt stesse solo cazzeggiando, ma nel giro di tre minuti aveva tirato fuori il riff, ed ecco che dal nulla era sbucata fuori la canzone […]. Roba da matti. La telepatia che c’è fra Dom e Chris è pazzesca”.  Di cosa parla “Time Is Running Out?” Perché il tempo sta scadendo? È il mondo che sta venendo distrutto dai “piani alti” che lo governano, come suggerisce l’iconico video? È una relazione “tossica” destinata a scoppiare, come suggerisce il testo? Agli ascoltatori l’ardua sentenza — ed è proprio questo il bello.

Absolution” esce il 29 settembre 2003 (il 15 in UK) e dopo pochi giorni è in cima alle classifiche britanniche. È inoltre il primo album dei Muse a raggiungere le orecchie degli statunitensi – “Origin Of Symmetry” era stato sacrificato in una battaglia con la Maverick, che riteneva i falsetti di Bellamy troppo cacofonici – e “Time Is Running Out”, con il suo ingresso in Top 10 UK e Billboard, ne è un ottimo biglietto da visita. Di fatto è il primo lavoro con cui il trio entra a far parte delle hit radiofoniche mainstream; l’aumento di popolarità varrà loro un set da headiner al Glastonbury Festival dell’anno successivo, che chiuderanno sul Pyramid Stage davanti a un pubblico di 150mila persone. Il resto, come si suol dire, è storia.

Se “Origin Of Symmetry” prendeva le ambizioni dell’esordio di “Showbiz” e le traduceva in un modello nuovo e originale, “Absolution” è l’album che di questi stilemi ha affermato il valore collettivo, prevedendone il potenziale su vasta scala. Lo schema qui collaudato dalla penna di Matt Bellamy funziona perché costruito su due chiavi di lettura – politica e personale –, lasciando nel mezzo uno spazio interpretativo in cui gli ascoltatori sono liberi di proiettare le proprie lotte, le proprie speranze e le proprie paure. Un approccio ai testi che negli anni a seguire vedrà alti e bassi (con ottimi risultati, ma anche derive vagamente populiste e caricaturali, soprattutto negli ultimi album), tuttavia mai più ripetendosi come in questo terzo disco in cui, dopo vent’anni, i Muse permangono cristallizzati alla fine del mondo, drammatici come non mai, in un’indimenticabile catarsi tragica.


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