Incubi sci-fi, brutalità e malinconia per un angolo dell’estremo che si fa beffe dei primi tepori estivi.

Artificial Brain – Artificial Brain (Profound Lore Records)

Denominare un proprio disco – il terzo in assoluto – con un titolo omonimo, significa marchiarlo a fondo, assumendosi i vari rischi del caso: gli Artificial Brain corrono il pericolo, ma realizzano il miglior album della loro ancor giovane carriera. Composta dai chitarristi Dan Gargiulo e Oleg Zalman, dall’axeman e all’occorrenza sassofonista Jon Locastro, dal bassista e addetto ai synth Samuel Smith, dal batterista Keith Abrami e dal gloglottante singer Will Smith, la band suona musica progettata per stare lontana da aggettivi come piacevole o carino. L’offerta del sestetto appare aggressiva, dura, oscura, saccheggia i reami del black metal e soprattutto del death di Demilich, Gorguts, Immolation, Incantation e Nocturnus, inoculando in essi forti spinte post e progressive, filtra con l’avanguardia a stelle e strisce più eretica, trasuda da ogni poro atmosfere sci-fi sinistre e malvagie. Ma gli statunitensi non si fermano a questo, aggiungendo alla ricetta un surplus di melodie dal taglio cosmico appena accennate nei due lavori precedenti: in agguato nell’ombra profonda o impigliata tra le stringhe di passaggi sonori decisamente dissonanti, la sua presenza è parte integrante del sound del gruppo, tanto che, nonostante le intricate architetture del songwriting, l’album risulta per certi versi addirittura accessibile, sempre tenendo conto dei generi esperiti. Un paio di ospiti della levatura storica di Mike Browning e Luc Lemay impreziosiscono un viaggio interplanetario che, pur carico di min acce, non disdegna la compagnia di un sole artificiale.

Tracce consigliate: “Artificial Brain”, “Celestial Cyst”, “Embalmed With Magma”, “Cryogenic Dreamworld”

DeathFuckingCunt – Decadent Perversity (Transcending Obscurity Records)

Nel mondo dell’estremo siamo abituati a realtà dai monicker curiosi, osceni o volgari, spesso accasati sotto label di riferimento come la Comatose Records e altrettanto spesso protagoniste di una vita discografica pressoché effimera. Al di là di un nome esilarante, i DeathFuckingCunt sembrano non appartenere agli irriverenti paria del death metal già a partire dall’etichetta, l’indiana e rampante Transcending Obscurity, non di rado latrice di album e gruppi dal sound originale e complesso. Certo, il debutto degli australiani risale al 2013, anno di pubblicazione di un “Ungodly Violation” tanto feroce quanto abbastanza curato, dopo il quale è calato un silenzio che non prometteva nulla di buono. Oggi, quasi in maniera inaspettata, vede la luce il nuovo “Decadent Perversity”, un concentrato di technical/brutal che vomita sangue ed emana fetore sulla scia dei vecchi Devourment, e a cui non difetta una discreta dose di humour nero capace di rendere divertenti anche i pezzi più distruttivi. Ipertecnici, ma volutamente trasandati e alieni da inutili ostentazioni, il quartetto di Perth sa rifilare un potente calcio ai blasoni di famiglia permettendo comunque alla vittima di continuare a sorridere: perché il motto gore&sex non può che equivalere a una trionfale dichiarazione d’intenti.

Tracce consigliate: “Blunt Force Vasectomy”, “Suicidal Masturbatory Flagellation”, “Garroted By Frenulum”

Deathwhite – Grey Everlasting (Season Of Mist)

I Deathwhite rivestono il ruolo della band enigmatica e misteriosa da dieci lunghi anni, durante i quali hanno pian piano inciso nelle rocce di Pittsburgh un death-doom cupo e dalle sfumature gotiche, attraversato da una cascata di pensieri e sentimenti negativi, il tutto senza rivelare chi si celi effettivamente dietro di essi. Nel nuovo album, “Grey Everlasting”, gli statunitensi si sono saldamente chiusi entro gli stessi paesaggi sonori di Katatonia, My Dying Bride, Swallow The Sun e Warning, abbandonando gran parte degli elementi alternative metal ravvisabili in “For A Black Tomorrow” (2017) e “Grave Image” (2020), a favore di odi cupe e infelici dedicate alla malinconia. Scritti al culmine della pandemia e fortemente ispirati da essa, i brani veicolano atmosfere grigie e depressive, benché non manchi qualche momento meno irrorato di pessimismo, punteggiato dalla chitarra acustica e dagli archi. Le orchestrazioni, di maggior presenza rispetto al passato, non vanno a soffocare i ricami dolenti dei cordofoni, l’espressività delle percussioni e l’evocativa voce pulita del singer, mentre il minutaggio conciso dei pezzi consente di suggerne le emozionanti suggestioni senza mortiferi cali di attenzione. Profondità e introspezione al massimo grado, per un platter che sembra figlio – illegittimo – delle nebbiose e desolate brughiere inglesi.

Tracce consigliate: “Earthtomb”, “White Sleep”, “So We Forget”

Kardashev – Liminal Rite (Metal Blade Records)

Nel 2020, una band autodefinitasi deathgaze pubblicava un EP sull’elaborazione del lutto che suscitò molto scalpore, catturando l’attenzione della Metal Blade Records grazie a un’innovativa miscela di deathcore, shoegaze, post metal e ambient: quel gruppo erano i Kardashev e il mini “The Baring Of Shadows”. A due anni di distanza, li ritroviamo con il secondo full-length “Liminal Rite” e appare chiaro come gli statunitensi funzionino al meglio quando hanno lo spazio necessario affinché la loro narrativa e i loro turbamenti si dispieghino completamente. Un concept album, dunque, che racconta la vicenda simbolica di un uomo conosciuto semplicemente con il nome di The Lost Man, la cui demenza avanza imperterrita mentre rivisita scene e luoghi della sua infanzia, in un malinconico e spesso spiacevole viaggio a ritroso nella memoria. Se la storia è di pugno del batterista Sean Lang, che utilizza lo spoken word per raccordarne gli episodi, uno dei meriti principali della bontà del disco risiede nel talento vocale del frontman Mark Garret, capace di passare con nonchalance dal latrato più belluino a clean fragili e vertiginosi, impiegando un’infinita e sconvolgente varietà di mezzi toni raramente riscontrabili tra i colleghi. Un LP soglia, al limite di tanti generi, ma comunque organico ed emozionante, che si avvale anche della collaborazione estemporanea di Christoph Clöser, sassofonista dell’ensemble dark jazz tedesco Bohren & Der Club Of Gore: sessanta minuti da assaporare lentamente.

Tracce consigliate: “Apparitions In Candlelight”, “Lavender Calligraphy”, “Glass Phantom’s”

Soreption – Jord (Unique Leader Records)

Il tech death basa la propria peculiarità su un’accuratezza progettuale ed esecutiva simile a quella di una macchina, quindi non deve stupire che i Soreption continuino un preciso programma di pubblicazione quadriennale con “Jord”, il loro nuovo album in studio. Dalla formazione avvenuta nel 2005, gli svedesi hanno pubblicato tre dischi, datati rispettivamente 2010, 2014 e 2018, tutti acclamati dalla critica e dai fan. Non estranei ai cambi di line-up, il gruppo è ridotto ora ai soli membri originali, Fredrik Söderberg alla voce, Tony Westermark alla batteria e Rickard Persson al basso, dopo l’abbandono, lo scorso anno, dell’axeman Mikael Almgren. I superstiti, per sopperire alla sua mancanza, hanno optato per una schiera di ospiti dal plettro virtuoso (John Matos, degli Abiotic, Dean Lamb e Tom Morelli degli Archspire, Malcom Pugh degli Inferi, Joe Haley degli Psycotropic, Ian Waye dei Thanopraxia) che però, anche se attori di una performance impressionante, si limitano a brevi assoli o riff fugaci. Il focus viene spostato sulla chitarra ritmica, scelta eccentrica, ma vincente per un genere che pone così tanta enfasi sull’ostentazione tecnica dei solismi da restarne sovente affogato sino alla cima dei capelli. Un disco di densa consistenza rappreso in trentuno minuti, nel quale non mancano, oltre ai consueti riferimenti a Decapitated e Meshuggah, orecchiabili richiami al metallo della morte floridiano di inizio ‘90, per una riuscita operazione di ibrida ingegneria musicale.

Tracce consigliate: “The Artificial North”, “Prophet”, “The Chasm”

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