Articolo a cura di Ludovica Iorio e Mattia Schiavone

Negli ultimi decenni pochissime band sono riuscite a far parlare di sé per i concetti espressi nella propria musica quanto i Rammstein. Il sestetto tedesco si è sempre contraddistinto per un approccio molto poco sobrio ed estremamente provocatorio, che in molti casi è scaturito in brani al limite della perversione, senza però superare mai la linea della credibilità. A pochi giorni dall’uscita del nuovo album “Zeit”, vi proponiamo un viaggio attraverso i 10 brani più disturbanti della band, tra perversioni e fatti di cronaca raccapriccianti.

Rammstein (da “Herzeleid”, 1995)

È contenuta nell’album d’esordio dei tedeschi la canzone omonima, ispirata alla tragedia avvenuta alla base aerea di Ramstein (a cui la band ha aggiunto una seconda “m” per il proprio moniker al fine di riprendere il verbo tedesco “rammen”, traducibile con “percuotere con violenza”). Il brano ripercorre i terribili attimi durante i quali l’esibizione delle Frecce Tricolori all’Airshow Flugtag del 28 agosto 1988 si è trasformata in una tragedia senza precedenti, con tre aerei che durante una manovra eseguita proprio sopra la folla si sono toccati, causando la caduta di uno di essi proprio sul pubblico e la morte di 70 persone. Il testo del brano richiama la tragedia fissando immagini crude e vive come istantanee infuocate: persone in fiamme, sangue sull’asfalto, le urla addolorate dei parenti delle vittime, terminando poi con un verso metaforico di grande impatto (“Kein Vogel singt mehr”“Nessun uccello canta più”).

Weißes Fleisch (da “Herzeleid”, 1995)

Sin dalle prime righe di questo pezzo estratto dall’album di debutto, il narratore interno, uomo adulto, non fa mistero di trovarsi nel cortile di una scuola e di rivolgere le proprie attenzioni verso un minore per cui sarebbe disposto ad uccidere, tutto pur riempire un vuoto causato dalla solitudine. Il protagonista è attratto dalla sua pelle bianca, incontaminata, su cui la sua mente perversa può riversare le proprie ossessioni e compulsioni. Ammette che questo atteggiamento è stato ereditato dal padre, che si comportava esattamente come lui: non sappiamo però se fosse lui stesso la vittima. In seguito egli definisce la sua stessa esistenza malata, è conscio di essere un “gigolò triste” ma non può farci nulla: le pulsioni sono irrefrenabili, la carne irresistibile; possiamo percepire dalla descrizione cruenta dell’assalto come la vittima si divincoli, le sue grida, la sua paura nell’attesa di una prossima mossa. In contrapposizione alla purezza e all’innocenza del minore abbiamo il sangue nero dell’assalitore, i lividi rossi procurati dallo stesso; il suo corpo illumina l’uomo come in una visione paradisiaca, in cui però non c’è nessun dio, se non quello della sopraffazione sul più debole. E anche sul lato musicale la band non fa sconti: i colpi sferrati sulle corde e sulle pelli ben rappresentano quelli diretti alla vittima.

Bück Dich (da “Sehnsucht”, 1997)

È tratta dal secondo album “Bück Dich” (traducibile con “piegati”), una delle canzoni più famose e provocatorie dei Rammstein, il cui testo fa chiari riferimenti a sodomia e rapporti di dominanza sessuale. Il brano ha dato molta popolarità alla band anche per la sua esibizione dal vivo, che nel 1999 a Worcester (Massachusetts) è valso addirittura l’arresto a Lindemann e al tastierista Christian Lorenz, “colpevoli” di aver mimato, durante l’esibizione, un rapporto sessuale con un dildo, usato poi dal cantante per innaffiare il tastierista. Inutile dire che la gag e il pretesto (a dir poco ridicolo) per l’arresto hanno volto a favore dei Rammstein, che ancora oggi la usano durante i concerti durante questa canzone, affiancandola a molte altre gag provocatorie.

Tier (da “Sehnsucht”, 1997)

Questo pezzo tratto da “Sehnsucht” affronta con immagini crude e violente il tema dell’incesto, descrivendo gli abusi sessuali di un padre verso una figlia ancora piccola. Il testo esprime il racconto utilizzando parallelismi attraverso i quali descrive, oltre all’atto in sé, anche le conseguenze e gli effetti sulla giovane ragazza, che una volta cresciuta si vendica uccidendo il padre e scrivendo una lettera a se stessa da bambina con il sangue del genitore. In questo modo, come cantato da Lindemann, né il padre, autore di atti così gravi e privi di autocontrollo, né la ragazza, la cui mente rimane tormentata anche dopo anni, sono in grado di distinguere ciò che differenzia un essere umano da un animale (traducibile in tedesco proprio con “Tier”).

Mein Teil (da “Reise, Reise”, 2004)

“Cerco (uomo) ben fatto tra 18 e 30 anni da macellare” – Il Mastro Macellaio.
Esordisce con questa citazione il testo di “Men Teil”, che parla di un fatto di cronaca realmente accaduto: la citazione è di un appello online su un forum di cannibalismo nel deep web da parte del tedesco Armin Weimes, e della conseguente risposta a questo di tale Bernd Jürgen Armando Brandes, del tutto consenziente. “Teil” in tedesco significa pezzo, taglio (di carne), ma in gergo anche pene: infatti Brandes, dopo essere stato evirato – scena descritta in modo vivido in cui combatte contro la perdita dei sensi nel vedere la lama avvicinarsi e il sangue uscire a fiotti, oltre che contro l’immane dolore – viene invitato a mangiare il suo organo genitale; il detto “siamo ciò che mangiamo” qui è preso alla lettera. Curioso inoltre il modo in cui il pezzo di carne viene cucinato – aromatizzato e fatto flambè – e servito elegantemente su un piatto di porcellana, a lume di candela; un appuntamento alquanto macabro e rivoltante. L’evirato durante la cena chiede ripetutamente “È questo il mio pezzo/pene?” ed il macellaio nega sempre categoricamente: ormai l’organo non appartiene più al corpo del giovane. Il pezzo (musicale, stavolta) è scandito da rulli di tamburi marziali, la voce Lindemann che interpreta la vittima assume quella di un pervertito che acconsente a tutto questo; l’atmosfera generale, mano mano che si fa più pesante ed opprimente, lascia il posto alle urla strazianti, e dal coro degli angeli finale capiamo che ci si è spinti fino all’omicidio.

Stein Um Stein (da “Reise, Reise”, 2004)

Il testo di questo brano estratto da “Reise Reise” parla di un immuramento: il narratore interno racconta della realizzazione di “un grande progetto”, ovvero la costruzione di una casa come dono per la sua “amata”. L’uomo, manipolatore ed affetto da una gelosia malata, considera la donna come una sua esclusiva proprietà, e costruisce intorno a lei una prigione facendola apparire come una dimora; vuole custodirla in modo tale che il mondo esterno non posi né gli occhi su di lei, né possa liberarla, perchè le grida di aiuto e di disperazione saranno attutite dalla spesse mura, costruite pietra dopo pietra. Così come possiamo intuire che sono state belle parole e promesse sognanti ad essersi susseguite una dopo l’altra negli anni della loro relazione, per culminare con l’affermazione “Io sarò sempre con te”, in un certo senso – distorto – pienamente soddisfatta: infatti, mettendo fine alla sua esistenza, le è rimasta letteralmente accanto fino alla fine dei suoi giorni. Ritroviamo inoltre il gioco di parole “ramm-stein” (“pietra che colpisce”) quando il protagonista martella i chiodi con i massi per serrare definitivamente la muratura. Il tragico destino si è ormai delineato: dentro la struttura non entrano né luce, né aria, e la donna completamente nuda, la cui bellezza ne “abbellirà le fondamenta”, viene interamente seppellita nel cemento. Passando alla messa in musica, le urla di Lindemann e le armonie alla “Rosenrot” lasciano il posto alla quiete delle riprese dei versi dopo i ritornelli, ai pianti strozzati della donna, all’abbandono delle sue forze vitali, al suo consumarsi lentamente fino a scomparire.

Dalai Lama (da “Reise, Reise”, 2004)

Quando si studia la letteratura tedesca a scuola, uno dei motivi per cui vengono citati i Rammstein è per via di questo loro brano. Anche se i riferimenti storici del concept dell’album stesso da cui è tratto convergono sulla vicenda del tragico incidente aereo del 1965 che ha coinvolto il volo 123 della Japan Airlines, ed il titolo è un richiamo all’aerofobia dell’attuale Dalai Lama Tenzin Gyatso (originariamente si sarebbe dovuto chiamare proprio “Flugangst”, ovvero “paura di volare”), il testo è liberamente ispirato al poema “Erikönig” di Goethe. Il componimento narra di un padre che cerca di trasportare il figlio gravemente malato, in una cavalcata senza sosta, verso il villaggio più vicino, nel disperato tentativo di salvargli la vita. Nella canzone, parallelamente, un padre e suo figlio sono su un aereo diretto a casa per festeggiare insieme il compleanno della madre. Tutti, chi più chi meno, stanno dormendo; il tempo è buono e il viaggio procede in maniera serena. Tutto ad un tratto vento, tuoni e fulmini fanno il loro ingresso: è direttamente il Signore dei Cieli a spiegare le sue forze. L’aereo inizia così ad essere instabile prima e ad essere sbattuto da una parte all’altra dalle correnti d’aria poi, senza tregua; il padre, nel tentativo di proteggere il bambino, mosso dalla paura, lo stringe così forte a sé da soffocarlo: pur non volendo e non accorgendosene ha procurato la morte di suo figlio con le sue stesse mani, ancor prima che lo facesse la tempesta. Si capirà in realtà in seguito che l’esito infausto della sua azione è il risultato della persuasione nelle parole degli elementi del cielo che hanno attirato a sé il bambino. Non ci è dato sapere il perché di tutto questo (ed è una delle tante domande che gravitano intorno a chi dubita della religione), così come trovare una giustificazione razionale è una pretesa quasi impossibile; sappiamo solo che la sua anima ora appartiene al cielo e a chi lo governa. Il giro di chitarra uguale a sé stesso ad ogni strofa scandisce l’atmosfera di crescente inquietudine, esacerbato dagli ammalianti cori celesti adorni di trame di note alle tastiere.

Wiener Blut (da “Liebe ist für alle da”, 2009)

Disturbante fin dalla copertina è “Liebe ist für alle da”, ma lo scettro in questo caso spetta senza dubbio a “Wiener Blut”, forse il brano migliore dell’album, ispirato ad un fatto di cronaca semplicemente raccapricciante come il caso di Josef Fritzl, uomo austriaco che ha tenuto segregata la figlia Elisabeth in cantina per 24 anni (dall’età di 18 fino a 42 anni), sottoponendola a torture e abusi sessuali, costringendo inoltre la ragazza a crescere sette figli (nati in seguito agli abusi e uno dei quali morto dopo pochi giorni) dentro la cantina, senza che nessun di questi vedesse mai la luce del sole. Anche in questo caso, il brano ripercorre perfettamente le sensazioni scaturite dal fatto di cronaca: le strofe inquietanti lasciano infatti spazio ad un ritornello in cui terrore e follia vanno a braccetto. Impossibile rimanere indifferenti.

Ich Tu Dir Weh (da “Liebe ist für alle da”, 2009)

La dinamica sado-masochistica presente in molti dei testi dei Rammstein qui trova forse la sua maggiore schiettezza, e i mezzi termini diventano un optional. Si tratta di un tipico caso di “sindrome di Stoccolma”, che affligge chi, vittima di un sequestro o di atteggiamenti violenti in genere, sviluppa un senso di attaccamento nei confronti dell’aggressore che può arrivare a torto ad essere considerato “amore” quando in realtà si tratta di mera dipendenza (”Mi ami, perché io non ti amo”). Il narratore interno ha qualsiasi potere decisionale sulla donna, è difatti il suo giocattolo che serve a soddisfare le sue pulsioni; la controparte è completamente devota all’uomo, anzi è lei stessa con le sue richieste esplicite a contribuire a reggere il sistema perverso. Al carnefice non dispiace procurarle dolore: qui la violenza è vista come un modo per far sentire vivi chi la subisce e alimentare energia e potere in chi la provoca, fino ad arrivare addirittura alla concezione per cui solo morendo si continua poi a vivere, una forma di redenzione paradossale. Vengono descritte immagini raccapriccianti: il volto ormai sfigurato, il perineo e i suoi orifizi sono passaggio per filo spinato e roditori, il corpo lacerato da oggetti contundenti di ogni tipo come aghi, seghe, tenaglie. Non da ultimo, la metafora dell’atto sessuale visto come un viaggio in cui la donna è la nave e l’uomo è il capitano, che può condurla dove le fantasie distorte – di entrambi – si spingono. Quel “Ti faccio male” ripetuto dal cantante fende le orecchie dell’ascoltatore, come le stesse lingue che spuntano sul palco durante l’esibizione dal vivo, ristabilendo i ruoli nell’eterno gioco dominante-sottomesso.

Puppe (da “Untitled”, 2019)

Dell’ultimo album del sestetto, la canzoni più disturbante, sia per testo che per musica, si identifica senza ombra di dubbio con “Puppe”. Un arpeggio inquietante guida le strofe, in cui viene raccontato in prima persona l’esperienza di un bambino, chiuso nella sua stanza con pillole e giocattoli, mentre la sorella maggiore è costretta a prostituirsi nella stanza di fianco. La parte centrale del brano vede il raggiungimento del climax, nel quale Till Lindemann, con una voce sofferta e inquietante esprime l’isterica frustrazione del protagonista, che strappa a morsi la testa di una bambola regalatogli proprio dalla sorella. Parte del testo del brano è ispirato ad una poesia dello stesso Lindemann, intitolata “Wenn Mutti spät zur Arbeit geht”.

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