Ce la ricordiamo tutti la pandemia, vero? E chi se la scorda… il peggior evento collettivo del terzo millennio, a livello mondiale, finora. Tralasciando, con il massimo rispetto, la tragedia di chi vi ci ha lasciato la pelle e di chi ne è uscito provato fisicamente, psicologicamente o finanziariamente, io fui uno dei tanti fortunati che dovette solo semplicemente annoiarsi e aspettare mesi, isolato – solo soletto – e bloccato in casa. La dea bendata della vita fu estremamente clemente con me: l’unica mia condanna furono degli interminabili weekend da riempire, e non credo di aver avvertito così tanto tempo libero nella mia vita (e questo meriterebbe un’analisi a parte, magari per una rivista di sociologia o antropologia). Oltre che provare a imparare a cucinare piatti tipici indiani e altre amenità simili, essendo da sempre tremendamente aperto all’ascolto di roba nuova di qualsiasi genere, in quei mesi probabilmente triplicai o quadruplicai tali quantità. Non avevo limiti, avevo tutto il tempo di questo mondo. Tra le decine di nuove scoperte, una canzone letteralmente entrò nella mia vita con devastante gentilezza, canzone scoperta togliendo polvere al mio rovistare, mosso da una chiara volontà di lasciarmi prendere dall’emozioni, genere a parte. Anchor The Sun era il nome della band, e la canzone s’intitolava “I Don’t Know”.
Non facile farsi notare dalle mie orecchie, tra qualcosa come almeno quindici o venti nuovi brani al giorno, per mesi. Eppure… una intro di chitarra che sembra scritta dopo anni di ricerche in biblioteca, la mano sicura che suona a lungo ma il giusto, piacevolmente complessa, perfetta ma instabile. Una serie di gentili sussulti, uno schema ritmico fatto di non so quale diavoleria, che prende delicatamente controllo di tutte le pieghe dei tuoi nervi. La voce che mette chiaramente le tue sensazioni in primo piano, manco fosse lei stessa a darci un’occhiata dentro, vi ci punta un riflettore su. Il testo delicato, non banale, visionario eppure intimistico. I cori, precisi e dosati con un bel contagocce colorato. Questa è “I Don’t Know” mentre Anchor The Sun è più propriamente il progetto di Lilly J, brasiliana trapiantata a Londra, e con la sua vita in seguito divisa tra la capitale britannica ed Edimburgo, l’altra capitale, quella del Fringe Festival, un poco più in alto. La contattai ai tempi della pandemia, per ringraziarla di quel miracolo di canzone che era appunto “I Don’t Know” e lei, tra vari ringraziamenti e controrigraziamenti, mi spiegò come quella canzone fosse stata scritta quasi in extremis, per poi paradossalmente diventare il suo iniziale cavallo di battaglia. Ho poi avuto l’opportunità di incontrarla durante una sua esibizione acustica nel sud di Londra, non lontano da London Bridge (a volte dovrei tornare a dare un’occhiata a nord… ne sono consapevole). In tutta onestà, sembrava più felice lei di vedere me. Affabile, sincera, sorridente, e poi con la chitarra tra le mani, così naturale e precisa. Il resto del progetto Anchor The Sun ha prodotto una serie di interessanti singoli, e ulteriori aperture anche verso una forma di ricerca video. Soprattutto inizialmente, Bruno Prado al basso e Michael Nash alla batteria hanno saputo impreziosire il lavoro di Lilly come se loro fossero naturali escrescenze dei suoi pensieri e della sua arte. Efficaci, fluidi e importanti, eppure senza mai rubare la scena. Quei musicisti che fanno bene alla musica.
L’importanza della composizione, del non lasciare nulla al caso: questo appare evidente in qualsiasi brano si scelga dallo scaffale Anchor The Sun (il cui nome vuole rappresentare il dualismo dell’esistenza umana, unendo il cielo e la luce al fondale marino, all’oscurità). Prendiamo ora il brano “Going Through The Motions”, del 2021. Anche qui vi è una chiara intenzione melodica, ma anche tanta voglia di armonizzare con efficacia, e non ci si stupisce che il brano, proprio come in “I Don’t Know”, pulsi di accenti importanti, di sobbalzi di cassa, rullante e basso che donano una tensione sincera, non forzata. Lilly J sembra essere una di quelle personalità nella musica dove qualsiasi cosa faccia venga, in un modo o nell’altro, quantomeno interessante. Il suo mondo si spinge anche nello storytelling, nel videomaking anche se, se dipendesse da me, la incatenerei a scrivere canzoni su canzoni, registrarle, e farla tornare a scrivere ancora e ancora. Rimaniamo in contatto e la nostra comunicazione prosegue nei mesi a seguire, mi parla delle sue radici nella musica più disparata, da quella brasiliana, nella musica classica fino al suo amore per i Pink Floyd, grazie a una famiglia fondata proprio sull’ascolto continuo di musica, a colazione, pranzo e cena.
Su mia richiesta, Lilly mi suggerisce di prestare attenzione a “Sunbeam”, quello che sembra essere il brano di cui va più fiera: una chitarra arpeggiata sempre con sapienza, nessuna concessione sulla scrittura della linea vocale, mai un passaggio obbligato o prevedibile, eppure tutto suona così facile, senza spigoli. Le voci dietro che si affacciano e scompaiono. Mi parla di come il brano sia nato mentre esplorava le Highlands, e si fermava ad ammirare la luce del sole trapelare tra le nubi, nella scenografica vallata di Applecross, in Scozia. Tutto fin troppo facile da tramutare in musica, quando si ha un talento naturale di questo calibro.