Londra, quasi per acquisita definizione, è una città in costante cambiamento, bello o brutto che esso sia. Enunciata questa banale verità, l’ho potuta recentemente confermare per l’ennesima volta quando mi sono recato a Stockwell (Londra Sud, abbastanza centrale, non lontano da Brixton) per andare a ficcare il naso, dopo secoli che non ci entravo, al Cavendish Arms – quello che dal nome potrebbe sembrare solo un pub qualsiasi, in una Inghilterra qualsiasi. Birra conseguentemente… ma il motivo, in questo caso, non era la pale ale di turno ma il concerto dei Breakup Haircut.

Al Cavendish Arms ci ho anche suonato più di una volta io stesso, e lo ricordavo come un posto tanto sperduto quanto grazioso. Ma visto che Londra cambia, ora il pubbetto a Stockwell più sperduto non è, e vi ho pure notato la stazione di Nine Elms emersa per una nuova ramificazione della Nothern Line, lì vicino. Inoltre quel che era un pub qualsiasi con sala da concerto annessa ma separata (la miglior configurazione live per i concerti medio piccoli a Londra, e nell’Universo) ora è un bel pub con la stessa sala, resa ancora più carina, ma sempre con accesso separato. Perché reputo questa configurazione la migliore? Chi vuole bere e chiacchierare resta nei paraggi del bancone o nel pub, mentre chi vuole la musica ha solo da percorrere un breve corridoio, spalancare una porta, pagare un onestissimo biglietto d’ingresso e godersi la musica, un palco, le luci e non gli schiamazzi degli avventori per la birra. Curiosità dolorosa ma anche scelta coraggiosa, il Cavendish Arms ha tolto gli schermi televisivi, cosa ottima quando si tratta di luoghi votati alla musica dal vivo ma, ahimè, mi sono perso Nuova Zelanda – Irlanda di rugby – e questa vale come nota dolente del redattore.

Il Cavendish Arms inoltre ora ribolle di insegne luminose, cani di porcellana, cani in carne e ossa, gatti in porcellana, gatti in carne e ossa, luci e altre luci, fiori ovunque, finti, veri o immaginati, poltrone, divani e divanetti, arte che pende insicura dal soffitto, tutto colorato, così variopinto da lasciare sbalorditi, si è effettivamente trasformato in uno di quei pub che restano impressi nell’avventore. Parlando di avventori, un mio amico lì con me commenta comunque che non sarà mica facile da spolverare un posto del genere… ma probabilmente conoscono qualcuno che sa spolverare bene perché, al contrario di tanti pub pieni di roba a casaccio , il “Cav” appare tanto eccessivo nei contenuti quanto pulito e fresco alla vista.

Alle dieci esatte di sera è il momento dell’ultimo act della giornata e quindi vanno in scena i Breakup Haircut. Sono quattro (Ishani alla voce/chitarra, Delphine alla chitarra, Jordan alla batteria e Ripley al basso/voce), sono freschi, sorridenti, sono davvero divertenti e spigliati sul palco, tanto quanto sembrano poi quasi timidi quando li incontro dopo lo show, per scambiare due chiacchiere con loro. Album nuovo in arrivo, origini nel pop-punk dei Blink-182 e dei Green Day, dei lavori normali (per la vita di tutti i giorni, per pagare le bollette) dietro un sincera attitudine da punk californiano, da skate punk per fantasticare un po’ e immaginarli scorrazzare per la Southbank (ma non ho chiesto loro se qualcuno ci sapesse fare effettivamente, con lo skateboard).

BreakupHaircut

Sul palco lo show è trainato da Ripley al basso, con un suonare e una teatralità tutta plettro e riff e capelli colorati e braccia tatuate. Tutto secondo copione, verrebbe da dire, ma fatto con sincerità, soprattutto alla luce del suono e dal tono che il suo Fender Mustang sputa fuori. Jordan alla batteria insieme a Ishani e Delphine alle chitarre seguono a ruota, con la chitarra di Ishani a forma di cuore che fa un suo piccolo spettacolo a parte, ma Ishani stessa per rincarare la dose condisce lo show di un cantato sicuro, un sorriso smagliante e salti e capriole ove il piccolo palco lo consenta. Le canzoni suonano veloci, vanno di poco oltre i due minuti, non posso non pensare ai brevi concerti dei Ramones, e fortunato chi c’era. Alcune canzoni dei Breakup Haircut si presentano anche parecchio dure, lanciate, quasi come i NOFX, quasi sfiorando i Rancid. Cantano un po’ tutti nei Breakup Haircut, l’unica cosa che sai è che anche la canzone successiva sarà una bella scarica di energia. Sfogliando il loro unico album completo, ecco che scorrono titoli che suonano iconici come “Marie Kondo”, “I don’t want to be your friend” (con cui chiudono il live a Stockwell), “Why can’t I be cool enough to move to Berlin?”, “Out of my way”, “Mum, I wanna be a greaser”. Tutte canzoni fatte per entrare in testa e rimanerci a lungo. Il punk rock fatto bene, mai defunto, mai di moda, ma sempre presente, anche grazie a nuove band come la loro.

A fine concerto non ho potuto esimermi dal complimentarmi con questi quattro timidoni per il nome della band… che si riferisce fondamentalmente al taglio di capelli a cui tradizionalmente una donna (ma anche un uomo, se ce la fa con quel che gli è rimasto in testa) decide di sottoporsi all’indomani della fine di una relazione sentimentale. Ma che colpo di genio è mai questo e quanto tale nome è rappresentativo di una sensazione e un’azione così chiara, di qualcosa che resiste, continua e va avanti, bella e accelerata, come la vita, la musica e il punk rock? Belli come alcuni dei loro testi che a volte vogliono nascondersi, dietro una sensazione di divertimento solo di facciata… “My parents sleep in separate beds / We meet up in a tiny treehouse restaurant / I’ve been walking up all night to find a tea-stained egg behind my couch / It leads me straight to you / I’ve been meaning to say I miss you / The smell of you is left behind / On every sleeve, I wash my clothes again / There’s water coming past my knees, I wipe it up / Everything is coming up my way / I’ve been meaning to say I’m sorry”. Io credo che si tratti di poesia pop-punk, nulla di così scontato.

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