Finché c’è vita c’è speranza e finché c’è musica dal vivo ci sarà speranza per la musica. Poi finché potrò uscire di casa e avere quattro o cinque scelte per la mia serata, ci sarà una città chiamata Londra. Qualche settimana fa, era giovedì credo, non me la sentivo di rimanere a casa, a fingermi impegnato. Apro il giornale alla sezione Eventi (cioè Facebook e Google, essendo il terzo millennio) e vengo travolto dalla prevedibile valanga di opzioni. Allora vado a naso, per locale. La bellezza di sapere che in quel dato bar fanno sempre musica di qualità, che non vi troverai mai una cover band, che il biglietto di ingresso sarà sempre una sciocchezza, questo è anche Londra. Come negli Anni Sessanta a Los Angeles c’era il Whisky a Go Go, o il CBGB a New York nei Settanta. Io ho, per esempio, il Jaguar Shoes, a Shoreditch, ora. Alcuni lo chiamano Dream Bags, altri Jaguar Shoes. Il nome intero è Dream Bags Jaguar Shoes, e ho come il sentore che un tempo fosse un negozio di abbigliamento (in realtà si tratta di un ventennale collettivo artistico che prende il nome semplicemente da una vecchia insegna sulla/della sede principale). In ogni caso, ora si presenta come un largo bar pieno di tavolini, birre e cocktail vari, con la sottile certezza che su Trip Advisor qualche turista non ci capirebbe un nettissima fava. Sulla sinistra si trovano delle scale alquanto scomode e sotto a seguire un sotterraneo che pare sia stato appena sgomberato per nasconderci merci che non dovrebbero mai vedere la luce del sole. Noto, o meglio vi narro di una pila di televisori, microfoni e cavi, e di una batteria ad angolo. In questo caso io ho solo ascoltato un brano online prima di uscire di casa, l’unica vera anteprima che mi sono concesso. Ora sono pronto ad ascoltare queste risorse umane, The Human Resources – questo il nome della band, qui, dal vivo.

Aprono a loro volta per una band che invece mi passerà quasi inosservata, di cui non ricordo nemmeno più il nome ora, e buon per tutti. Volevo parlare prima con gli Human Resources, noto che sono a dei tavoli con altri loro amici, il cantante sta mangiando in fretta e furia credo un piatto di nachos e mi sembra parecchio concentrato in tale atto (come in tutto quello che fa), mentre il chitarrista mi riconosce subito dal breve contatto pomeridiano e ci si promette un paio di chiacchiere dopo il concerto.

Ma andiamo al dunque… sono cinque (Harry Handford alla voce, Matt Baker alla chitarra, Leo Dutton al basso, Colin Olive alla batteria, Juan Brint-Gutiérrez al sax) e fanno un sacco di roba, sul serio. Le mie aspettative non cadono alla prima canzone ma anzi crescono e vengono alimentate con nuova carne al fuoco ogni minuto che passa. La prima preziosa caratteristica che noto è l’inarrestabile lavoro di Leo al basso: incessante e creativo in ogni passaggio. Quando mi congratulerò con lui a fine concerto, mi abbraccerà manco gli avessi assegnato un Grammy. Come descrivere gli Human Resources? Non essendo facilone, non vado subito a menzionare Frank Zappa, ma gli preferisco Captain Beefheart. Penso a volte ai Vampire Weekend e mi ricordo pesantemente dei Primus, pescando nella storia della musica recente. I Decemberists, anche, e quasi mi chiedo perché. Gli Strawberry Alarm Clock, ma buttati giù dal letto alle sette di mattina, che devono andare a timbrare il cartellino. Forse anche i Fugazi, ma il rumore prodotto dagli Human Resources non è mai vero rumore, sempre e comunque le note sembrano scelte, anche se scelte volutamente inusuali. E poi hanno tanta bella melodia, la cantabilità delle canzoni, la dannata composizione di cui da sempre mi faccio promotore. Ma anche tanto ritmo, tante spine nel fianco: l’armonia ok, ma senza rullanti e casse si finirebbe alle chitarrine da sit-in popolare. Qui no, qui si suona per impressionare, e non predicare. Sempre attenti, nulla al caso, anche nel loro dimenarsi.

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Foto: Spela

Il loro set dura poco più di mezz’ora e verso la metà della loro esibizione, quando Harry si mette in testa un cappello di Pluto, mi viene da pensare che loro non siano consapevoli di quanto siano bravi. Una strana osservazione, me ne rendo conto, ma ne sono abbastanza certo. Io, tra i loro innumerevoli cambi di ritmo e controparti all’interno dello stesso brano, mi sento come a casa. Una sensazione davvero particolare: è come se sapessi cosa stesse per accadere da un momento all’altro, anche senza averli mai ascoltati prima, e questo detto nella miglior accezione possibile. Quando glielo dirò in seguito, all’inizio ne rimangono un poco perplessi, ma poi mi spiego meglio e faccio notar loro che quel che prevedevo arrivare era sempre la cosa miglior che potesse arrivare. Vai a fare un complimento troppo audace alla gente… rischi di perderti. Torno sui binari, e loro usano sia una Jaguar che una Telecaster, guarda caso. Non concedono nulla, la voce forte e la carica interpretativa di Harry sono davvero uno spasso e una goduria. Sul finale si assicurano di rimanere impressi nella memoria, proprio con due singoli di prossima uscita, uno che sembra una riedizione del riff di “Willie the Pimp” e l’altro… la ballata che non ti aspetti, la loro “Hey Jude”. Finiscono, mi congratulo, ci diamo appuntamento per un paio di birre a un altro giorno da definire, che intanto me ne ero fatte quattro e dovevo ricordarmi che non era già il weekend.

Scopro che anche loro vivono a sud, tra Peckham e Nunhead. Il sud di Londra colpisce ancora. Mi propongono di vederci allo Skehans. Londra pare avere al momento più di tremila pub, ma quale piacere darsi appuntamento dove entrambe le parti sanno già che andrà ovviamente bene. Non per niente, allo Skehans (dove hanno suonato e fatto una bella baldoria innumerevoli band) su una colonna del bar, lì in alto, è appollaiata una foto del Capitano di cui sopra. Al nostro formale meeting, in una serata abbastanza freddina, si presentano Matt, Colin e Harry. Ci facciamo qualche birra, prendo un mezzo appunto, la penna e il taccuino sono solo per spaventare la preda, in questi casi. Mi sorprendo a volte della loro ingenuità, anche banalmente sul loro modo di comporre: mi aspettavo utilizzassero partiture e pentagrammi, e invece vanno completamente a memoria! Cerco di convincerli che scriverla la musica aiuta e rende le cose più facili, soprattutto a lungo termine. Forse li ho convinti, Matt mi promette che ci penserà, insomma mi dà una forma di ragione come la si dà al vecchio nonno rincoglionito.

Parliamo del concetto di Human Resources, e del perché di tale nome per la band. Matt mi spiega che era solo una questione di “aestethics”, che i loro brani non fanno riferimento più di tanto alla vita lavorativa dell’uomo medio, vita che anche loro conoscono bene, di giorno. Ma in ogni caso dal vivo si vestono facilmente con cravatta e camicia bianca e il loro video di “Unverifiable Religious Experience Blues” conferma tale immagine (video spassoso, in linea con la loro sottintesa teatralità). Sono genuini, ho questa bellissima e fresca sensazione nel parlare con loro. Quasi devo tirargli fuori coi denti le ragioni della loro interessante musica. Per loro è normale suonare quella roba, nonostante io faccia notare loro di quanto il loro stile e genere musicale siano di nicchia e non di facile accesso per tutti. Credo che a loro interessi che piaccia a me, insomma nient’altro che al loro prossimo attento ascoltatore, non ci stanno a ragionare sul chi e dove.

Mi invitano a una loro festa in casa per la settimana successiva, ci si assicura in ogni caso appuntamento al loro prossimo concerto. Mi dicono pure che per una strana congiunzione di eventi, nessuno della band va mai alle feste organizzate a casa del cantante. Tale informazione, divertente e fuori luogo, mi appare come uno stacchetto qualsiasi nei loro brani, e ci stava bene da morire. Prima di incontrarli ho dato una seria lettura ai loro testi (scritti da Harry, mentre la musica è solitamente a appannaggio di Matt): vi ci avevo notato immagini chiare e improvvise. Harry Handford quando scrive si lascia andare, spezzetta e riassembla. Parlandone, quasi contemporaneamente menzioniamo Burroughs e il cut-up, quella meravigliosa e assurda tecnica alla base di libri come Soft Machine e il Pasto Nudo. Il loro brano “Kinshasa Shuffle” a mio parere spiega al meglio quello che non si può spiegare, e cioè la loro musica. Il riff chiaro, abominevole, scale di qualche strana posizione alla chitarra, Matt che la scrive sul divano di casa e Harry che ci pensa su. E in sala prove col resto della band, il giorno dopo, succede il putiferio, la magia, e loro che neanche se ne accorgono di essere così bravi: questa cosa mi fa impazzire di speranza.

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