The piper at the gates of dawn
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Pink Floyd – The Piper At The Gates Of Dawn

Nel marzo del 1967 un gruppo formatosi a Londra, che solo qualche anno dopo sarebbe diventato tra i più apprezzati ed amati al mondo – e che tra tutti avrebbe cambiato le sorti della storia del rock – si trovava in una fase ancora poco più che embrionale, fresco di un contratto siglato con la EMI da appena un mese e un 45 giri da poche settimane nei negozi. Il brano che dava il titolo a quest’ultimo, “Arnold Layne”, fu in un primo momento censurato da alcune radio inglesi perché ritenuto piuttosto controverso, in quanto riguardante un travestito che si aggirava per la città per rubare biancheria femminile appesa ad asciugare. In pochi potevano immaginare che quella musica così bizzarra fosse destinata a fare la storia assieme al suo autore Syd Barrett, vera incarnazione di come genio e sregolatezza potessero convivere nella mente di un musicista.

Il gruppo di cui lui era il cantante e chitarrista, nonché principale compositore, erano ovviamente i Pink Floyd, fino ad un paio di anni prima conosciuti con il nome di Tea Set: nati all’inizio come band di cover rhythm and blues per poi evolversi fino ad approcciare un sound psichedelico, la loro fama era cresciuta in maniera esponenziale, divenendo una band di culto nella Londra di quell’epoca.

Il resto del gruppo era formato da Roger Waters al basso, Richard Wright alle tastiere e Nick Mason alla batteria, musicisti che di lì a poco sarebbero diventati notissimi al pubblico. I quattro avevano la caratteristica comune di essere tutti dei giovani studenti presso l’istituto d’arte politecnico di Londra, dove si erano incontrati, fattore che li differenziava nettamente dalle band di musica psichedelica dell’epoca: le loro conoscenze in merito alla disciplina, infatti, gli permettevano di mettere in piedi degli show improntati sulla fusione della loro musica con suoni, luci e colori attraverso l’utilizzo di tecniche per il tempo innovative, come proiettori e macchine del fumo, al fine di creare un’esperienza esaltante per gli spettatori dei locali underground dove il gruppo si esibiva regolarmente.

Al momento della registrazione del loro primo disco in studio, la musica Rock si trovava in un momento cruciale: proprio in quei mesi il mondo stava conoscendo capolavori di straordinaria importanza come “Are You Experienced” di Jimi Hendrix e i suoi Experience, gli omonimi “The Doors” e “The Velvet Underground & Nico” provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico ma, soprattutto, “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” degli iperacclamati Beatles. Il lavoro che i Floyd decisero di far uscire dagli studi di Abbey Road però, dove proprio nello stesso momento i Fab Four stavano ultimando il disco che avrebbe riscritto la storia della musica Pop e Rock, non fu per niente meno coraggioso, in quanto sregolato e diverso da qualsiasi altra cosa sentita fino ad allora, ma soprattutto capace anch’ esso, come le altre opere sopracitate, di esercitare un’importanza fondamentale nella musica dei decenni a venire. Un risultato di un mix di varie influenze tra arte, letteratura, musica, pittura e fotografia, a partire dal titolo, preso in prestito da un capitolo de “Il vento tra i salici” di Kenneth Grahame, classico della letteratura per ragazzi, e dall’enigmatica copertina caleidoscopica firmata dal fotografo della scena della swinging London Vic Singh, ottenuta tramite una lente prestatagli nientemeno che da George Harrison.

Suoni di un codice Morse accompagnano una voce effettata, appartenente al co-manager del gruppo Peter Jenner intento a recitare nomi delle stelle, pianeti e galassie del sistema solare: è l’inizio di “Astronomy Domine”, che ha il compito di presentare al mondo i Pink Floyd in un crescendo vorticoso contenente tutti gli elementi caratteristici della loro musica di questo periodo. In questo brano infatti vi sono le lyrics allucinanti e le chitarre cosmiche di Barrett, le rullate fantasiose ed inconfondibili di Mason, gli incredibili suoni di tastiere di Wright che sembrano usciti quasi da un’altra dimensione, nonché la sua voce delicata in controcanto con quella di Syd e, naturalmente, il basso pulsante di Waters (quest’ultimo ancora per niente assimilabile alla figura del leader del gruppo che diverrà nel tempo). “Lucifer Sam”, con il suo riff nervoso e un testo composto da riferimenti alla stregoneria – con un gatto siamese come protagonista – è un brano a tratti inquietante e suggestivo; mentre “Matilda Mother”, introdotta dalle note dell’organo Farfisa doppiate dal basso e accompagnate dalla voce di Wright, ci immerge in medias res per la prima volta nel tema del fiabesco, con una melodia sognante, per poi conoscere nell’intermezzo una parte più orientaleggiante ed acida.

Il preludio dell’organo dona in un primo momento anche a “Flaming” un’atmosfera spettrale, per poi far decollare il brano verso una direzione totalmente inaspettata, gioiosa e sognante, a tratti barocca; la lunatica strumentale “Pow R. Toc H.” viene esaltata quasi interamente da un assolo al piano a tratti jazzato in netto contrasto con gli esperimenti di feedback e distorsioni delle chitarre sul finale, quasi ad anticipare di anni luce il noise. “Take Up Thy Stethoscope And Walk” è una composizione con un ritmo incalzante e delirante in cui tutti gli strumenti si ritagliano un ruolo da protagonista; ma è con la successiva “Interstellar Overdrive” che i Pink Floyd decidono di entrare nella storia della musica psichedelica: un riff di chitarra distorta cromatico e discendente, con uno stile potente ed elettrizzante, introduce una jam strumentale frenetica della durata di quasi dieci minuti dominata da uno stream of consciousness. La tecnica che prevedeva l’estensione dei pezzi non era affatto una novità nel gruppo: inizialmente usata per sopprimere alla mancanza di un numero sufficiente di brani in scaletta nei live, col tempo venne ripresa ed esasperata per lasciare totale libertà alla fantasia e alla sperimentazione più pura. Il pezzo, già di per sé immortale, viene ricordato anche per una celebre versione con Frank Zappa nel 1969 in un concerto in Belgio, quando Barrett era ormai estromesso dal gruppo da tempo e sostituito con l’amico David Gilmour. Ma il sound graffiato, sghembo, scarabocchiato e a volte dissonante di chitarra di Syd (uno stile completamente antitetico al ben più celebrato chitarrista di Cambridge), ben privo di virtuosismi, tuttavia incredibilmente legato alla sua folle visione artistica della composizione musicale, aveva già lasciato un segno indelebile.

Il resto dell’album riprende il tema del favolistico con “The Gnome” e “The Scarecrow”, solo in apparenza splendide filastrocche psichedeliche, in particolar modo la seconda, dominata dal tema dell’esistenzialismo, in cui il paroliere dei Pink Floyd dipinge la somiglianza tra se stesso e uno spaventapasseri in un campo. “The black and green scarecrow is sadder than me / But now he’s resigned to his fate / ‘Cause life’s not unkind” ovvero “Il nero e verde spaventapasseri è più triste di me” / ma ora è rassegnato al proprio destino / perché la vita non è dura”: l’autore è destinato ad accettare la sua vita senza poter far niente per impedirla.

“Chapter 24” con un titolo ispirato nuovamente ad un’opera letteraria millenaria di enorme rilevanza per la storia, ovvero quello dell’ “I Ching” – testo classico cinese a scopo divinatorio – presenta una melodia fluttuante ed eterea che si evolve senza l’aiuto del lavoro alla batteria di Mason.

La chiusura è affidata alla schizzata “Bike”, dove la voce stralunata di Syd ci fa tornare indietro nelle memorie infantili, descrivendo la felicità data dal possedere una bici: ne risulta una divertente fotografia sulla follia della quotidianità. La vera conclusione del disco, però, si ha dopo qualche attimo dalla fine del brano, quando intervengono suoni di campanelli, orologi, sirene, grancasse e versi di animali in un collage di effetti acustici e rumori che potrebbe ricordare l’esperimento simile che i Beatles inclusero nel finale di “A Day in the Life”, se non addirittura lontanamente la fine di “Pet Sounds”, capolavoro dell’altro incredibile genio di Brian Wilson e i suoi Beach Boys, pubblicato solo l’anno prima.

Opera prima ed imprescindibile del gruppo inglese, un capolavoro di lucida follia che per poco più di quaranta minuti conduce l’ascoltatore dinanzi a visioni sonore sperimentali ricche di invettiva, “The Piper At The Gates Of Dawn” rimane uno dei dischi più importanti della psichedelia inglese, nonché della storia della musica Rock. Il genio visionario di Syd Barrett, come risaputo, farà in tempo a registrare pochissimo materiale per il successivo album e altri due lavori solisti di grandissimo pregio artistico, prima che le sue condizioni mentali possano peggiorare anche a causa, purtroppo, dell’uso di allucinogeni. Anche se non verrà mai dimenticato dai suoi compagni, i Pink Floyd decideranno di andare avanti… ma questa è tutta un’altra storia.

Tracklist

01. Astronomy Domine
02. Lucifer Sam
03. Matilda Mother
04. Flaming
05. Pow R. Toc H.
06. Take Up Thy Stethoscope And Walk
07. Interstellar Overdrive
08. The Gnome
09. Chapter 24
10. The Scarecrow
11. Bike

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