Every living thing will die from the king of the jungle to butterfly
Only sin is waiting too long
Spesso l’arte più autentica e più preziosa nasce dai momenti più bui. L’artista riunisce ogni grammo della propria sofferenza e la fa confluire in qualcosa di concreto, un’opera endogena che però persiste al di fuori di sé. Uno stratagemma per sopravvivere, un modus operandi per confinare la propria oscurità e controllarla secondo i propri fini.
Josh Homme sicuramente non se l’è passata benissimo negli ultimi anni, dove ai soliti eccessi si sono aggiunti il divorzio da Brody Dalle nel 2019 e una diagnosi di cancro appena un anno fa. Non c’è da stupirsi allora che i suoi Queens of the Stone Age abbiano dato vita a un disco così cupo.
“In Times New Roman…” viene presentato come chiusura di una trilogia, iniziata con “… Like Clockwork” e proseguita con “Villains”. A differenza del predecessore, prodotto dal pluripremiato Mark Ronson e che risente della sua influenza, l’ottavo disco della band è un lavoro autoprodotto e molto personale, sonoramente meno accessibile e più duro.
Le regine dal deserto californiano puntano questa volta a sorprendere l’ascoltatore e il risultato pare azzeccato fin dalla prima traccia, “Obscenery”, che lascia letteralmente a bocca aperta con il suo stoner liquido che si nasconde qualche attimo per una pausa sinfonica e si chiude in un tripudio di chitarre (firmate ancora una volta dal trio Homme–Troy Van Leeuwen–Dean Fertita).
I colpi di scena forse sono il vero punto forte dell’album. “Made To Parade” è coperta di oscurità, di linee vocali profonde e distorte e di chitarre acute e angoscianti, e si apre verso la fine in un outro che potremmo definire allegro, leggero (“I did not notice the weight of the chains til’ they were cut from me/How’d I drag them for so long?”). “Carnavoyeur” è forse la traccia migliore del disco: musicalmente ricca, satura, con una narrazione di morte ma anche di rinascita e un climax delicato quanto perturbante. Perturbante come ciò che accade in “Sicily”, dove però l’equilibrio che porterebbe a un climax si spezza subito e tutto decade.
Lo spettro dinamico dei brani è spesso molto ampio, mostrando tutto ciò di cui Homme e soci sono fatti. Le strofe di “Negative Space” sembrano generate da un continuo scratch; “Time & Place” è un brano vibrante, che cattura nonostante la sua intricata poliritmia e i tanti elementi che lo compongono (e lo scompongono infine). “Emotion Sickness”, dove i vocalizzi sussurrati da Homme anticipano un glam rock fatto di chitarre super-acide e di un groove solidissimo del batterista Jon Theodore. “Sicily” potrebbe trovarsi in una colonna sonora di Tim Burton, dove la seduzione incontra l’incubo.
Non mancano all’appello ovviamente pezzi catchy e danzabili, come “What The Peephole Say”, dove domina il basso di Michael Shuman, e “Paper Machete”, uno stoner rock con accenni all’indie e una sincera risposta a chi trama contro di noi (“The truth is just a peace of clay/ You sculpt, you change, you hide, then you erase”).
L’album si chiude con “Straight Jacket Fitting”, un brano in cui ogni musicista dà libero sfogo al proprio estro e dove si riassume quanto detto finora: lo stoner marchio di fabbrica del gruppo si ricopre di secchiate di blues, ma ancora di archi solenni, un presagio reso quasi ironico da Homme (“To face down your demons, you gotta free them/To seize all your demons, carpe demon”). Il tutto si dirige alla chiusura con sapori folk, come un fuorilegge (un villain) che si dirige verso il tramonto, accompagnato da una chitarra e da suoni dolceamari.
“In Times New Roman…” conclude l’ideologico ciclo dei Queens of the Stone Age in bellezza. Un disco scuro ma che avvolge nelle sue cupe sonorità, che insegna a trovare il bello anche nella sofferenza e che da essa si può anche rinascere.
Tracklist
01. Obscenery
02. Paper Machete
03. Negative Space
04. Time & Place
05. Made to Parade
06. Carnavoyeur
07. What The Peephole Say
08. Sicily
09. Emotion Sickness
10. Straight Jacket Fitting