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Non è esagerato affermare che gli Slowdive stiano vivendo in questi ultimi anni una seconda giovinezza. Dopo essere stati presi sotto gamba – per non dire bistrattati – da una buona fetta di critica, pubblico e qualche illustre collega nel corso degli anni ’90 ed essersi sciolti nel 1995, i cinque musicisti di Reading si sono ritrovati ormai una decina di anni fa e, nel frattempo, hanno pubblicato due dischi di ottima fattura (l’omonimo “Slowdive” nel 2017 e “everything is alive” a settembre dell’anno scorso). Il successo riscosso da questi ultimi lavori, il consolidamento nel corso degli anni dello status di pietre miliari dello shoegaze dei loro primi album in studio (“Just For A Day” del 1991 e, soprattutto, “Souvlaki” del 1993) e l’alta qualità delle loro esibizioni dal vivo più recenti non solo hanno attirato il plauso di pubblico e critica, ma anche fatto ricredere più di uno scettico e catturato l’attenzione delle generazioni più giovani di appassionati di alternative rock e shoegaze.

Da un paio di settimane a questa parte, la band capitanata da Rachel Goswell e Neil Halstead è impegnata nel tour europeo per promuovere la sua ultima fatica in studio “everything is alive”, e tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio è finalmente sbarcata in Italia per due tappe: la prima il 31 gennaio all’Alcatraz di Milano e la seconda venerdì 2 febbraio all’Estragon di Bologna. Così come a Milano, anche a Bologna ad aprire le danze ci pensano i britannici Pale Blue Eyes.

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Alle 20 in punto, i Pale Blue Eyes salgono sul palco di un Estragon già abbastanza gremito di un pubblico per lo più sulla trentina. Senza troppi indugi, i quattro musicisti guidati dal frontman e chitarrista Matt Board offrono ai presenti un set conciso ma compatto, fatto di un alternative rock che combina diversi elementi e influenze, dal dream pop al garage, passando per il grande protagonista della serata: lo shoegaze. La formula proposta è sicuramente godibile, la tecnica dei musicisti è più che discreta e il pubblico bolognese sembra apprezzare ogni singolo pezzo eseguito dalla giovane band inglese. Quello dei Pale Blue Eyes è dunque un set di tutto rispetto di un gruppo che molto probabilmente deve ancora maturare sotto alcuni aspetti, ma che di certo ha tutto il tempo, il talento e l’estro dalla sua. Ad ogni modo, dopo circa quaranta minuti di tanta sostanza e pochi fronzoli, la band lascia il palco tra gli applausi di un pubblico che pare unanimemente soddisfatto.

Sono appena passate le 21 quando i grandi protagonisti della serata si presentano sul palco di un Estragon oramai stipato. Una domanda mi tormenta durante e dopo il set della band di Reading: come diamine si fa a descrivere a parole cosa sono gli Slowdive dal vivo? Perché se è pur vero che si tratta di un’esperienza dannatamente intima e personale, allo stesso tempo la sensazione è quella di venire catapultati in una dimensione onirica parallela fatta di una moltitudine di suoni celestiali che si intrecciano tra di loro e a suggestivi giochi di luce, con le voci delicate di Rachel Goswell e Neal Halstead che ci prendono per mano e ci portano a spasso all’interno del magnifico mondo architettato da questi mostri sacri dello shoegaze. Prendendo in prestito le parole di un collega, un mondo in cui tutto è vivo e tutto pulsa. Ha senso? Forse.

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I cinque musicisti inglesi cercano di mettere le cose in chiaro fin da subito: le loro esibizioni sono fatte di tanta musica eseguita con maestria, una dose importante di giochi di luce, molti sorrisi rivolti al pubblico e ben poche chiacchiere e smancerie. E se già l’inizio affidato all’ipnotica “Shanty” e al singolone “Star Roving” è eccellente, con la successiva “Catch The Breeze” l’asticella si alza ulteriormente, perché lo spettacolo uditivo e visivo offerto è uno di quelli che davvero non si possono dimenticare. Particolarmente azzeccato, poi, il riarrangiamento rock della sperimentale “Crazy For You”, mentre tra i momenti migliori del set spiccano la maestosità di “Souvlaki Space Station”, il meraviglioso trip elettronico della nuova “Chained To A Cloud” e il finale allucinante della già citata “Catch The Breeze”. Se proprio si vuole trovare il solito pelo nell’uovo, le placide “Skin In The Game” e “Sugar For The Pill” risultano con tutta probabilità le meno impattanti della scaletta (manca un po’ di quel mordente che dal vivo non guasta mai), seppur tecnicamente ben eseguite. Ciononostante, il pubblico si mostra ampiamente soddisfatto a più riprese. A proposito del pubblico, la grande maggioranza dei presenti assiste in un silenzio a tratti quasi religioso alle magie della band britannica. Ci pensano però i grandi classici “When The Sun Hits”, “40 Days” e “Dagger”, piazzati praticamente in blocco verso la fine della scaletta, a rompere il silenzio e a far cantare un pubblico che fino a quel momento ha preferito godersi l’esperienza attraverso l’ascolto attento e la contemplazione. A mettere la parola fine alla serata ci pensa “Golden Hair” (cover di Syd Barrett), un ultimo riuscitissimo viaggio per chissà quale dimensione parallela, e da una sentita – e più che meritata – ovazione finale.

Terminato il concerto, i pensieri che frullano nella testa sono tanti, forse troppi. Un misto di gratitudine e stupore che fa a cazzotti però con la classica malinconia di quando finiscono le cose belle, che sembrano durare sempre troppo poco. Ma su tutti questi pensieri se ne impone uno: negli Slowdive tutto è vivo. E brilla di una luce tanto abbagliante quanto meravigliosa.

Setlist

Shanty
Star Roving
Catch The Breeze
Crazy For You
Skin In The Game
Souvlaki Space Station
Chained To A Cloud
Avalyn
Sleep (Eternal cover)
Kisses
Alison
When The Sun Hits
40 Days
Sugar For The Pill 
Dagger
Golden Hair (Syd Barrett cover)

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