Lost In Translation
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Wolves at the Gate – Lost In Translation

What if I say I’m not like the others?

Un album in studio composto di sole reinterpretazioni è una cosa rara al giorno d’oggi, un retaggio del secolo scorso. A dire il vero, sono pochi quei cosiddetti cover album che ricordiamo bene e possiamo considerare dischi degni di nota quanto quelli di inediti. Solitamente, vengono realizzati in onore degli artisti che hanno ispirato la propria carriera, mettendo in mostra le molteplici fonti da cui si ha attinto lungo gli anni oppure l’assoluta devozione nei confronti di pochi eletti. Insomma, realizzare un bell’album di cover non è affatto facile, ma non impossibile – come ci avevano dimostrato proprio i Deftones con “Covers” più di un decennio fa.

A provarci nel 2023 ci sono i Wolves at the Gate, gruppo metalcore dell’Ohio con 5 album all’attivo, appartenente alla ristretta nicchia del metal d’ispirazione cristiana. Dopo “Eulogies” (2022), il quintetto ci propone “Lost In Translation” e c’è da dire che non ha scelto la via più facile: Thirty Seconds to Mars, Muse, Linkin Park e, per l’appunto, Deftones. Tutti artisti molto singolari, difficili da eguagliare ma anche solo da onorare senza fare la figura della “brutta copia”.

Il disco si apre con “Heathens” dei Twenty One Pilots ed ecco comparire i primi dubbi: ci serviva un altro gruppo post-hardcore di questo tipo? O meglio, ci servivano altre cover in stile post-hardcore, quando il web ormai ne è saturo e ha già partorito l’autoproclamatasi “World’s Best Cover Band”?

Andando avanti con l’ascolto, se possiamo chiudere un occhio sul fallimento con “Breaking The Habit”, forse il brano più iconico e impegnativo della tracklist, lo stesso non si può dire su grandi classici come “Sweetness” dei Jimmy Eat World e “Pardon Me” degli Incubus, che non fanno altro che spargere distorsione e un pizzico di sfrontatezza sulle originali e offrirci qualcosa che potremmo benissimo trovare in un qualunque canale social di un gruppo emergente che si diletta nel mondo delle cover. Ma come abbiamo detto prima, il tempo degli Our Last Night è passato, e non da poco.

Se il confronto con “When I Was Older” di Billie Eilish è schiacciante (in negativo), “Stupid Deep” di Jon Bellion ci fa riprendere un po’ le speranze: nulla di eclatante, ma l’orecchiabilità stavolta è un sostegno sufficiente per passare alla traccia successiva. Controcorrente rispetto alla norma, i Wolves at the Gate ci offrono le tracce migliori nella seconda metà dell’album. Di nuovo, non troviamo delle gemme preziose e nemmeno qualcosa di memorabile: eppure, se solo la prima parte fosse stata di questo livello, la sufficienza l’avrebbero portata a casa i lupetti del Midwest. “Apocalypse Please” fa della fedeltà all’originale (dei Muse) la propria arma principale e non viene da lamentarsi troppo. Anche “Diamond Eyes” non fa disperare, dove al contrario dei Deftones qui si preferisce mantenere la calma per esplodere fino alla fine – quando forse però non era più necessario.

Leggendo “The Pretender” nella tracklist fa pensare al peggio e invece si rivela meglio del previsto: qui la combo vocale Nick DettySteve Cobucci viene sfruttata a dovere e il quintetto, anche se manca di tutte le peculiarità della formazione di Grohl e soci, porta a casa il risultato. Lo stesso non può dirsi del tutto per “Attack” dei Thirty Seconds to Mars, che presenta un bridge diverso ma non del tutto azzeccato e delle tastiere di qualità molto inferiore all’originale.

In conclusione, possiamo affermare di trovarci davanti un disco di cover che tutto sommato poteva passare inosservato e che invece, nonostante le considerazioni fatte qualche paragrafo prima, non riesce a salvarsi. Attendiamo i Wolves At The Gate al varco con il prossimo album contenente materiale originale, sicuri del fatto che sapranno riprendersi al meglio.

Tracklist

01. Heathens
02. Breaking The Habit
03. Sweetness
04. Pardon Me
05. When I Was Older
06. Stupid Deep
07. The Pretender
08. Apocalypse Please
09. Diamond Eyes
10. Attack

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