Non essendo nato ieri, ma nemmeno in epoca pre-rivoluzione industriale, posso dire di averne visti di concerti. Solo a volte, invece, posso dire di aver assistito a forme di culto verso l’artista sul palco, e questo lo dico con una forte accezione positiva. Sabato scorso all’Hammersmith Apollo di Londra (nel suo lato ovest, che è sempre una misteriosa altra dimensione, tipo il viaggio lastricato del Mago di OZ), eccoli, i Devo in concerto. Non solo, i Devo in concerto e il concerto è sold out. Fa un bell’effetto leggerlo all’ingresso, dove solitamente si scrivono i titoli dei film in programma per la serata. Arriviamo e la fila fuori fa già parte dello show, in un certo modo. Il culto travalica ovviamente una transenna o l’orario di inizio dello spettacolo, ma inizia col pubblico lì in coda, e finirà con lo stesso pubblico, gli stessi seguaci all’uscita sulla via di casa mentre staranno mangiando un kebab, ostentando la loro maglietta con le quattro lettere D-E-V-O scritte su un poco storte. Ecco, le magliette. Per quanto scontato possa essere, io invece mica me lo immaginavo di trovare così tante persone agghindate per l’occasione, in tute da lavoro et similia, e tutto quel concetto di costume promosso dalla band dell’Ohio, copricapi geometrici compresi, ovviamente e soprattutto. Tanti, decine e decine. E ogni maglietta una più bella l’altra, tirata fuori dall’armadio perché era una questione di ora o mai più, di una sorta di orgoglio di appartenenza. Questo tour è il loro tour di addio e in Europa si limita a Scandinavia e Inghilterra (con una spolverata di Germania). Eccola quindi questa strana porzione di umanità che ha deciso di essere parte attiva dell’esperienza comune per stasera. Anche qualche punk evoluto, come anche qualche giovincello cresciuto fortunatamente troppo in fretta. Per il resto, una prevedibile forbice tra chi li ha vissuti durante la propria adolescenza e chi li ha scoperti che la propria adolescenza non combaciava perfettamente con quella dei Devo.

Ma entrati nell’atrio dell’Apollo mi chiedo come sia possibile, con tutte quelle straordinarie magliette viste indossate finora, che l’unica ufficiale venduta al merchandising sia invece così anonima e incolore. Senza alcun dubbio, mi piace pensare che lo studio grafico incaricato fosse sì di qualità ma anche ignorante sull’argomento Devo. Devo come Dada, come critica sociale, come rappresentazione teatrale della schifezza che siamo sempre stati noi nel mondo occidentale, da quando abbiamo consegnato il concetto di benessere in mano al capitalismo americano, al consumismo e all’anonima sequestri, dei nostri cervelli.

DevoBand

Dopo una notevole attesa affidata a un saggio DJ che si limita a sciorinare la sua collezione di dischi anni Settanta e Ottanta, iniziano puntuali i Devo ed è chiaro che tutto lo show sarà una specie di film, accompagnato da preziose diapositive, grafiche, e animazioni di ogni genere. Loro sono in cinque, allineati, fanno squadra, sembrano un cartellone pubblicitario, Andy Warhol sarebbe andato matto per questa serata. Cambiano costume quattro o cinque volte. Ci sono tastiere e sintetizzatori, ma anche chitarre elettriche e un’instancabile batteria. È tutto preparato in ogni dettaglio, ma tutto anche tremendamente live.

Mi rendo conto della bellezza del riff di “Girl u want”, una composizione figlia di genialità di altra provenienza, che ci sia Captain Beefheart nel cuore di Mark Mothersbaugh, la mente dominante dei Devo? E poi tanta musica elettronica di stampo tedesco mescolata a linee così esplicitamente rock che alla fine sono arrivato a pensare addirittura a un volo pindarico verso gli Skiantos. Brani come “Jocko Homo” (“WE ARE DEVO!”) e la celeberrima “Whip it” sono emblematiche per loro semplicità e teatralità. I Devo producono slogan in forma canzone, fotografie della società, tristemente sempre valide. Quando attaccano la bellissima “Gates of Steel” mi pervade un’analogia tanto sonora quanto d’intenti con un’altra band cult, i Pixies. Avrebbero potuto scambiarsi volentieri delle canzoni, e magari potrebbero farlo ora – con chissà quale lettura artistica dietro.

Le canzoni proseguono senza sosta, mi giro verso un tale con la faccia da pollo e gli faccio notare come quello al centro col microfono, proprio quello là, si tratti di un genio. Penso che Mark Mothersbaugh andrebbe ringraziato per aver ragionato tanto e portato alla luce i Devo, rimasti fondamentalmente unici nel loro genere – almeno senza cercare nel sottobosco – tra rock, musica elettronica, critica sociale e approccio demenziale. Tanto genio, sotto quegli atipici e impersonali copricapi.

Tornando a parlare di epoca pre-industriale, i Devo decidono anche che ti tocca tornare indietro nel tempo, ma tenendo i piedi ben piantanti nel presente. Non so come facciano, ma nonostante il genere musicale datato non vi è alcuna sensazione di amarcord, anzi. È il futuro davanti a noi, mostratoci con immagine vecchie, canzoni di trent’anni fa e atteggiamenti edulcorati da alcuna animosità umana. È un concetto, la storia che si ripete, è la de-evoluzione fatta esibizione e mai doma, ecco a cosa stiamo assistendo.

Appena inizia, si sente nell’aria che “Beautiful World” sarà la canzone conclusiva dello show. Il suo inizio morbido, serio, melodico, i brividi lungo la schiena, per tutti. Sappiamo che quella canzone è su di noi, ben più delle altre. “Beautiful World” è un brano rock Anni Ottanta qualsiasi, singolare quanto anonimo, come il beautiful world in cui viviamo e dal quale siamo circondati. Alla fine di tutto quello show di immagini e musica, appaiono il volto di Chaplin dal Grande Dittatore, sequenze del KKK, scene di bombardamenti, di morti di fame in Africa e un contatore che segna un milione di dollari. “Beautiful World” riassume il messaggio; viviamo in un mondo bellissimo per chi ci vuole credere a questa bugia, ma chi va oltre vede chiaramente come quel mondo non è perfetto e patinato e completo. Non ci viene più da ridere, o da ballare, o divertirci. Abbiamo lo sguardo serio e la mente estremante ricettiva, siamo diventati lì dentro come delle piccole antenne. “Beautiful World” dal vivo, dopo novanta minuti di culto Devo, ti parla dritto al cuore, al cervello, alle gambe. Possiamo andare a casa, ora – e vederli per strada ogni giorno, al supermercato ogni giorno, al lavoro ogni giorno, i protagonisti inconsapevoli della discografia dei Devo, la società moderna, noi.

Setlist

Don’t Shoot (I’m a Man)
Peek-a-Boo
Going Under
That’s Good
Girl U Want
Whip It
Planet Earth
(I Can’t Get No) Satisfaction (The Rolling Stones cover)
Secret Agent Man (P.F. Sloan cover)
Uncontrollable Urge
Mongoloid
Jocko Homo
Smart Patrol/Mr. DNA
Gates of Steel
Freedom of Choice
Gut Feeling (Slap Your Mammy)
Beautiful World

Comments are closed.