Budgie (Siouxise and The Banshees, The Creatures) racconta del fortunato “matrimonio”, come lui stesso lo definisce, con Lol Tolhurst (The Cure) e il produttore Jacknife Lee che ha dato vita a “Los Angeles”, un viaggio tribale, viscerale e, in fondo, speranzoso negli abissi della città degli angeli.

Ciao Budgie, benvenuto su SpazioRock! È un enorme piacere fare questa intervista. Come stai?

Ciao Giulia, il piacere è mio!

Qualche settimana fa è uscito “Los Angeles”, un album che hai realizzato in collaborazione con Lol Tolhurst (The Cure) e Jacknife Lee, una combinazione a dir poco impressionante. Ma facciamo un passo indietro: come avete deciso di fare musica insieme?

È una breve storia lunga: è stata la serendipità, un incidente felice. Avevamo registrato delle cose io, Lol e Kevin Haskins dei Bauhaus, ma non eravamo molto convinti della direzione in cui stavamo andando, quindi ci siamo detti: “ok, ricominciamo”. A quel punto, però, Kevin si era appena riunito con i Bauhaus, quindi era un po’ fuori dai giochi. Ci hanno parlato poi di un produttore, Jacknife Lee, che aveva dei lavori alle spalle davvero impressionanti, ma ciò che aveva colpito di più me, in particolare, era stato il suo sito: molto semplice, con la foto di una sessione di registrazione di batteria in un posto molto piacevole, quindi ho pensato: “ne sa di batteria!”. Era abbastanza ovvio (ride, ndr).. ho pensato subito che per due batteristi come me e Lol fosse un matrimonio che valesse la pena intraprendere. E così è andata.

LTXBXJL LosAngeles 12 5mm SP SLEEVE 2744 (PR14663).indd

Il sound di questo disco è tribale, viscerale, è oscuro, ma a tratti caldo, è disperato, ma lascia intravedere la speranza. È questo Los Angeles, per te? Questo sound è una metafora della città?

Mi piacciono tutti questi riferimenti, sono emozioni estreme. Abbiamo dato inizio al tutto in un luogo piuttosto spirituale: nello Yosemite National Park, un luogo straordinario… le dimensioni di quel luogo ti fanno sentire molto umile. Di fatto io, Lol e Jacknife volevamo conoscerci a vicenda, testare la nostra chimica, e siamo partiti solo noi tre, insieme ai nostri familiari più stretti. È iniziata proprio quasi come un’uscita di famiglia, ma durante quella piccola gita, facemmo la prima ripresa audio dell’ambiente, era una registrazione di percussioni dei nativi americani, in una specie di luogo spirituale. Questi suoni si sentono in brani come “Ghosted At Home”, che parte proprio con il suono di queste percussioni.

Ci sono tutte quelle emozioni che hai citato, anche la speranza. Questi suoni sono inevitabilmente una metafora di Los Angeles. Non succede spesso di andare dall’altra parte del mondo per lavorare così intensamente, ma questo è quello che ho trovato io in Los Angeles… è così lontana dall’Europa Centrale. Ai tempi dei Siouxie and The Banshees e poi dei The Creatures è sempre stato un luogo, la West Coast, da cui spesso partivamo con i tour. Con i Creatures abbiamo fatto anche delle prove, ingaggiato una nostra crew, e anche dei musicisti. Ho sempre trovato Los Angeles un luogo che porta molto al lavoro, non è proprio una città festaiola, o almeno, forse io non sono mai stato invitato alle feste (ride, ndr). Ai miei occhi era anche un posto dove potermi sentire meglio, ci siamo fermati spesso lì alla fine dei tour per recuperare. È anche un luogo in cui mi sono sempre rifugiato quando le cose non andavano molto bene a casa, in Europa, quando io e i Siouxie ci siamo separati, o anche quando si sono sciolti i Creatures. In questi casi ho sempre pensato “ho degli amici a Los Angeles, mi farebbe bene andare lì”. È stato, di nuovo, molto naturale. Lo studio di Jacknife è molto più simile a uno studio casalingo. Non eravamo alla ricerca della strumentazione perfetta, cosa che invece facevamo sempre prima, ma dell’atmosfera migliore. È bellissimo lì, nelle colline sopra Los Angeles, e puoi davvero vedere il sole che tramonta sull’oceano e la luna che sorge dietro di te. È molto “David Lynch”… eravamo alla ricerca di tutti questi aspetti della città.

Cosa rappresenta per te Los Angeles? Com’è diventata il fulcro di questo disco?

Los Angeles è una full immersion. Credo che sia il modo migliore per descriverla. È come immergersi in acque sconosciute, anche se Lol e Jacknife ci hanno vissuto per molto tempo. Io li ho raggiunti. Sai, quando qualcuno ti viene a trovare la tua quotidianità cambia leggermente, ma la rende anche più facile. Jacknife ha una routine giornaliera che, se capisci, puoi adottare anche tu: è una routine molto rilassata. Penso che il titolo dell’album “Los Angeles” sia derivato in realtà dal testo di James Murphy che porta lo stesso nome. Lui sta sulla East Coast, ed è bellissimo vedere come la percezione e l’attitudine cambino radicalmente da una costa all’altra degli States. Abbiamo avuto la fortuna di viaggiare molto e vedere quanto questo stato sia vasto. Los Angeles, la California in generale, è abbastanza conservatrice in un certo senso, ma è anche il posto dove alla fine gravitano i liberi pensatori, che si spostano tutti verso quella costa. Ma anche il suo sottosuolo ci ha sempre intrigati. Ci sono molte cose complesse che accadono sotto la sua superficie. Il nostro pensiero è stato proprio trasportato verso i racconti noir di Raymond Chandler e di “Red Wind”, sono sempre stato un fan dei suoi personaggi immaginari. Los Angeles supporta la tua fantasia e i tuoi sogni, ma ha alla base una realtà difficile.  

L’elemento ritmico in questo album è fondamentale, inevitabile quando due leggende della batteria si incontrano. Come siete riusciti a gestire questo aspetto tu e Lol?

È un bellissimo complimento. Si potrebbe pensare che il risultato di un incontro simile sia una cacofonia di percussioni, e credo che sia qualcosa che abbiamo già sentito in altre collaborazioni tra batteristi. Sembra davvero che il processo sia: “fammi sentire qualcosa di tuo e ci aggiungo qualcosa di mio”, finendo per diventare una clinic di batteria a volte. La cosa interessante è mettere insieme due batteristi, senza enfatizzare la tecnica, ma seguendo il loro feel.

Il più delle volte io e Lol abbiamo suonato la batteria separatamente, c’eravamo o io o lui seduti dietro le pelli, invece abbiamo suonato molte percussioni insieme. Abbiamo girato in tutte le stanze di questa piccola casa-studio, così, per vedere cosa avremmo trovato da suonare. C’erano molti sintetizzatori, tante percussioni… quando Lol era con Robert Smith nei Cure non suonava solo la batteria, ma contribuiva in tantissimi modi. Allo stesso modo, io con i Siouxie o con i Creatures scrivevo moltissime parti di batteria, ma suonavo anche altri strumenti. Non sono un virtuoso di nessuno strumento, forse neanche della batteria, ma sapevo suonare l’armonica o il vibrafono quel tanto che bastava per creare l’atmosfera. Questo è stato l’approccio che abbiamo avuto anche con questo album, combinato con il meraviglioso e sottovalutato talento di Jacknife Lee. Lui ha fatto sì che il cerchio si chiudesse, ha portato le nostre idee originali su un percorso meno ovvio. Quando abbiamo introdotto anche i cantanti, il tutto ha preso una piega inaspettata, perché eravamo già davvero soddisfatti delle parti strumentali, di fatto erano delle lunghe tracce strumentali all’inizio.

Lol Tolhurst x Budgie x Jacknife Lee. Photo credit: Press
Lol Tolhurst x Budgie x Jacknife Lee. Photo credit: Press

Oltre ai cantanti, in questo album sono presenti collaborazioni con tantissimi musicisti, anche con chitarristi come The Edge degli U2 o Mark Bowen degli Idles. I contributi di tutti questi artisti suonano molto “al servizio” dell’album. Come avete gestito queste collaborazioni?

È davvero una bella cosa quella che hai detto. Hai citato due chitarristi: Mark, una persona bellissima con cui parlare, arriva da Belfast, mentre Edge è di Dublino. Hanno due approcci molto diversi, che non vuol solo dire che sono diversi tecnicamente. L’attitudine alla chitarra è un modo di esprimersi, e in quel modo, entrambi nel proprio, trattano la chitarra con riverenza, ma non in un senso idealizzato. È simile al nostro approccio alla batteria, in un certo senso, è quella cosa che dà allo strumento una voce che si può sentire. 

Sul come abbiamo gestito le collaborazioni: Jacknife è molto in gamba nel gestire le persone, è il suo lavoro, ha lavorato su progetti che prevedevano molte collaborazioni già in passato, e, anche a sua detta, di solito sono molto difficoltose. È difficile portare le persone in studio. Oltretutto, eravamo in pieno lockdown, e avevamo due settimane per registrare la maggior parte delle basi, per poterci poi suonare altro sopra. Molto di quel lavoro è avvenuto dopo, infatti, passandoci i file. Per esempio, le voci sono arrivate così. Il lockdown e quel periodo di due anni molto strano durante il quale abbiamo realizzato l’album ci ha permesso di avere tempo, e grazie a Dio abbiamo avuto quel tempo. Questa situazione ci ha permesso anche di metabolizzare l’album, in modo da pubblicarlo nel modo migliore possibile, per quello che può significare pubblicare un album di questi tempi. Abbiamo aspettato finché non abbiamo avuto la proposta di distribuzione di PIAS. PIAS è un’etichetta che abbiamo conosciuto di recente, quando abbiamo iniziato questo periodo di promozione. È un team giovane, qui a Los Angeles. È stato una sorta di ritorno a casa, è un ambiente, quello dell’etichetta discografica, che abbiamo sperimentato agli inizi della nostra carriera. C’era una bella eccitazione nell’aria. Quello che è diverso oggi è il modo in cui questo si traduce nelle vendite dei dischi, se poi davvero si traduce. Il feeling è stato fondamentale, e ne è valsa la pena. Non abbiamo dovuto lavorare sul far suonare il disco in un certo modo. Le voci, le loro l’intensità, le performance di tutti questi artisti così affascinanti individualmente, e così diversi, una volta combinate, si sono messe insieme in un modo che non avremmo mai potuto immaginare. Credo che questo riassuma l’album: eravamo pronti e aperti a farci indicare dall’album cosa fare e dove andare, permettendo alla musica stessa e alle collaborazioni di colorarlo. Abbiamo lasciato che le cose accadessero spontaneamente, senza provare troppo a dargli forma, a scolpirlo, perché così facendo si può finire per ritrovarsi con qualcosa di informe. Siamo stati molto fortunati, ma penso che lo sapessimo già dall’inizio, avendo l’esperienza, tutti e tre, per riconoscerlo. Il risultato finale ci ha sorpresi e resi soddisfatti, ne siamo molto orgogliosi: abbiamo fatto qualcosa di molto più grande di quello che tutti e tre avremmo mai immaginato. È stato bellissimo portare Jacknife Lee fuori dallo studio e fargli fare uno shooting fotografico. È molto raro avere il proprio produttore in una foto, e lui è molto elegante quando si trova davanti a una camera. Abbiamo lavorato come lavora normalmente una band, una volta che le registrazioni erano concluse. Io e Lol ci stiamo attrezzando per il live, abbiamo sempre pensato di farlo, ma non avevamo idea di come, e abbiamo una data per la quale prepararci che è il Cruel World Festival in California a Pasadena, l’11 maggio 2024. Siamo molto contenti.

Da pioniere del genere, cos’è per te il post-punk oggi? Qual è il suo significato?

Non ho molto tempo per ascoltare musica, ma quando posso, oltre alla musica che mi fanno ascoltare i miei figli, mi piace cercare su YouTube. Ho scoperto molte band femminili e molte artiste donne, cosa che mi ha confortato molto, perché quando ho iniziato la mia carriera suonando la batteria a fine anni Settanta, c’erano cantanti e musiciste donne, band come le Slits, ovviamente, per citarne una. Ma c’era un sentire diverso nei confronti della musica fatta da musiciste donne. Penso a Bjork, che ha debuttato ormai 30 fa credo, che ha avuto le sue mentori, come Siouxie, PJ Harvey, che fa ancora musica stupenda. Anche Meg Myers, Poppy, sono tutte artiste donne molto forti che giocano molto con l’idea di cosa significhi essere una donna nel music business, ma senza esserne condizionate. Mi piace pensare che sia questa l’essenza dell’eredità del post-punk di cui eravamo parte. Non era di certo facile per le musiciste donne, era un mondo molto dominato dagli uomini, ma credo che la loro presenza abbia aiutato certi musicisti uomini a trovare una voce dentro se stessi, nella psiche maschile, che sarebbe stata difficile da tirare fuori altrimenti. Spero che questa tendenza possa andare avanti.

Grazie infinite per il tuo tempo, Budgie. Vorresti lasciare un messaggio ai nostri lettori?

A tutti i lettori di SpazioRock e a te Giulia auguro il meglio! Grazie per questa intervista, spero di riuscire a suonare presto dalle vostre parti. Statemi bene e “May your God go with you”, come diceva un vecchio comico irlandese.

Comments are closed.