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Devin Townsend – Lightwork

“Scrivere di musica è come ballare di architettura”

Quante volte ci siamo imbattuti in questa frase? Attribuita ora a Frank Zappa, ora ad Elvis Costello, in seguito a John Lennon (che invece affermava che “scrivere di musica è come parlare di scopare”), fu pronunciata per la prima volta dall’attore Martin Null, che però ne attribuirebbe la paternità ad un suo insegnante di pittura.

Probabilmente non sapremo mai nulla sulla mente che ha concepito uno degli aforismi più celebri di sempre, ma siamo più o meno tutti d’accordo su quale possa il suo significato: l’accostare un’arte ad un’attività (o ad un senso) non collegati alla sua fruizione. Queste otto parole, se prese alla lettera, manderebbero tutti i critici musicali sotto i ponti, rendendo completamente inutile la nostra stessa esistenza ma, a parere di chi vi scrive, il loro messaggio è un altro: la musica va ascoltata, più e più volte e, in alcuni casi, va vissuta sulla propria pelle. Solo dopo quanto ora detto, si può azzardare a scrivere qualcosa su quell’insieme di esperienze sensoriali contenute all’interno di un brano, di un album o di una brevissima scala minore armonica.

Ebbene, nonostante tutto questo, capita di trovarsi davanti a casi in cui la musica ci mette in difficoltà, palesando tutti i limiti intrinseci della scrittura, ricordandoci l’assioma sopra descritto. “Lightwork“, l’ultimo disco di Devin Townsend, è esattamente uno di quei casi in cui si dovrebbe tacere, godendosi il silenzio e lasciando spazio all’udito; tuttavia, il nostro ruolo ci impone di scrivere e, pertanto, scriveremo, o proveremo a farlo nel modo migliore possibile.

Spesso ci accade di leggere (o di affermare) che un album sia il frutto del vissuto dell’artista che lo ha composto, delle esperienze che hanno maggiormente impattato su di lui e, fondamentalmente, dello stato d’animo che lo ha accompagnato in studio di registrazione (o anche nelle fasi subito precedenti); altrettanto spesso, però, sappiamo bene quanto questa sia una frase fatta. Tuttavia, iniziando l’ascolto di “Moonpeople”, si ha subito l’impressione di trovarsi davanti un musicista che, in questi due anni di “reclusione forzata”, ha trovato calma ed equilibrio interiore, che invita l’ascoltatore ad accogliere il cambiamento, a rimuovere ogni paura lungo la strada, ma senza mai smettere di prendersi cura di sé stesso. “Lightworker” rafforza il concetto sopra espresso, sottolineando l’importanza di una mente forte, di un’anima in quiete e, soprattutto, di un cuore ricolmo d’amore, tema che farà capolino in molti altri brani; tutto questo senza ovviamente dimenticarci dei “muri sonori” a cui Devin Townsend ci ha abituati che, dopo un inizio apparentemente calmo, sprigionano tutto il loro fascino ipnotico.

Le tonnellate di melodie sovraincise la fanno da padrone anche in “Equinox”, pezzo che segue alla perfezione tutti i canoni del “Devin-pensiero”, dipingendo un animo irrequieto come quello dell’artista canadese ma che, nota dopo nota, si avvicina ad una pace interiore, spogliandosi di tutte le sue preoccupazioni e rendendosi conto che, alla fine della fiera, il mondo andrà avanti comunque anche senza di lui. Ma il mondo, lo stesso mondo appena descritto, può anche essere la fonte di stati d’animo negativi come depressione, paranoia, rabbia, stress, capaci di trascinare chiunque negli abissi; “Call of the Void”, una delle tracce più ispirate del disco, ci parla proprio di situazioni del genere e, con le sue melodie pacate ed il suo ritornello emozionante, dice all’ascoltatore di non farsi prendere dal panico, che il mondo continuerà a ruotare anche con tutta questa pazzia al suo interno, ma che noi siamo sempre liberi di rifiutarla. Come? Semplicemente “chiudendo la porta” del nostro animo alle negatività.

Se fino a questo momento “Lightwork” era stato un viaggio emotivo tutto sommato calmo e tranquillo, “Heartbreaker” e “Dimensions” ci introducono alcuni elementi dell’emisfero caotico di Townsend, con tanti inserti di musica elettronica e di quel progressive fatto di ritmiche composte e di melodie dissonanti, con un pizzico di distorsione, i soliti scream perfettamente calibrati e, all’occorrenza, con qualche assolo in pieno stile Steve Vai (nel caso del secondo pezzo menzionato).

Provate a riunire tutte le emozioni precedentemente descritte, concetratele in un solo brano ed otterrete “Celestial Signals”. Nella canzone ritroviamo tutto ciò a cui HeavyDevy ci ha abituati nella sua frenetica carriera solista: atmosfere tanto malinconiche quanto sognanti, melodie capaci di avvincere l’ascoltatore più indifferente e, soprattutto, un testo in cui chiunque, davvero chiunque, può immedesimarsi. Quanto ora descritto caratterizza anche il successivo “Heavy Burden” che, con i suoi cori avvolgenti ed onnipresenti, continua a scandagliare l’esistenza umana e tutti i cambiamenti che la accompagnano; tali cambiamenti potranno spesso essere pesanti, esosi, difficili da gestire, da comprendere o da sopportare ma, con un respiro dopo l’altro, ci aiuteranno a trovare la nostra strada.

Dopo un po’ di turbolenza musicale, “Vacation” ci fa tornare alla calma, con i suoi arpeggi, con la timbrica più dolce della voce di Townsend e con delle atmosfere decisamente rilassate. Ed è proprio il relax il tema centrale del pezzo; ancora una volta, abbiamo una persona la cui anima è presa dallo sconforto e che, per reagire, decide di fare la cosa più semplice e bella del mondo: partire per una breve vacanza con la propria famiglia, lasciando i problemi a casa ed immergendosi nell’amore dei propri cari. Tutti i precedenti episodi della tracklist presentano sfumature musicali diverse e “Vacation”, ad esempio, potrebbe essere tranquillamente inserita in una playlist indie rock (o scambiata per un pezzo di “Casualties of Cool”); in ogni singolo brano di “Lightwork”, però, si avverte la presenza di un tema centrale, spiegato nel testo, con la musica ad accompagnare per mano l’ascoltatore, calandolo all’interno della narrazione e, perché no, suggerendogli un modo per liberarsi dai pesi che lo opprimono. “Children of God” chiude l’album rispettandone il leitmotiv, spingendoci all’introspezione, mostrandoci il fascino di una vita libera dalle catene della mente (spesso autoimposte) e mettendo in primo piano l’amore, pietra angolare dell’esistenza umana.

Dopo innumerevoli ascolti, “Lightwork” si dimostra essere il perfetto riflesso del Devin Townsend del 2022. E chi è il Devin Townsend del 2022? Un uomo di 50 anni, dal passato irrequieto, dalla mente costantemente in movimento che, a causa della pandemia, ha ridefinito le sue priorità, (ri)trovando la gioia delle piccole cose e condividendola attraverso il linguaggio con cui si esprime meglio: la musica. Quella stessa musica che è il faro delle nostre esistenze, che può illuminare i nostri periodi più bui e spingerci ad apprezzare ciò che abbiamo intorno; questa è la musica di cui abbiamo cercato di parlarvi finora, e che ora non dovrete fare altro che ascoltare.

Tracklist

01. Moonpeople
02. Lightworker
03. Equinox
04. Call of the Void
05. Heartbreaker
06. Dimensions
07. Celestial Signals
08. Heavy Burden
09. Vacation
10. Children of God

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