Dopo 3 anni di silenzio i Destrage sono tornati con “SO MUCH. too much.”, ennesima dimostrazione di potenza e inventiva per la band milanese. Poco prima dell’inizio del tour che accompagna la pubblicazione dell’album, abbiamo avuto l’occasione di parlare con Matteo Di Gioia, chitarrista del quartetto, che con la sua consueta ironia ci ha portato nel cuore del nuovo album, raccontandoci anche diversi aneddoti e le aspettative per il ritorno sul palco dopo più di tre anni.
Ciao Matteo, bentornato su SpazioRock! Come stai? Il tour sta per iniziare…
Ciao! Sì, questa sera abbiamo le prove generali…
Perfetto, allora in bocca al lupo! Partirei però con il nuovo album “SO MUCH. too much.” L’ho trovato in certo modo diverso da “The Chosen One”, che era più compatto. Questo invece come approccio mi ha ricordato di più “Are You Kidding Me? No.” per le molte influenze. Da cosa scaturisce tutto questo?
Sì, sono d’accordo. Quello che è simile a “Are You Kidding Me? No.” non è il risultato, ma l’approccio. Ci siamo detti di non badare a spese in termini energetici, avevamo tantissime cose da dire. In realtà questo valeva anche per “The Chosen One”, ma in quel caso avevamo deciso di mantenere un tono un po’ più sobrio, era più breve, più compatto. Avevamo deciso che tutto dovesse essere molto coerente. Questa volta abbiamo tolto questo filtro e abbiamo abbracciato il massimalismo, facendo il nostro casino senza freni [ride, ndr].
Ho trovato il titolo di questo nuovo album interessante, in quanto può avere un significato ambivalente. Potrebbe riferirsi sia alla componente musicale, come hai appena detto, che a quella tematica, visto tutto quello è successo nel mondo nel periodo in cui è stato partorito l’album. Personalmente ho trovato bello il modo in cui il caos in cui si trova il mondo viene quasi rispecchiato nel caos musicale. Questa è una cosa che avete voluto dall’inizio?
Il titolo è un nome che abbiamo dato ad un bambino già nato. Ne avevamo parlato già tanto e credo che avessimo anche già finito di registrare. C’erano diversi spunti, io volevo chiamarlo “Everything Sucks And I Think I’m A Big Part Of It”, come il singolo di lancio perché pensavo che quel nome così lungo e ironico incarnasse bene l’anima del disco. C’era anche una proposta divertente, ovvero chiamarlo “Sesto”, visto che alcuni di noi sono di Sesto San Giovanni e questo disco è il sesto della nostra carriera. Alla fine abbiamo deciso “SO MUCH. too much.”, ci sembrava molto azzeccato, anche il modo in cui è scritto ovvero “SO MUCH” in maiuscolo e “too much” in minuscolo come se queste le ultime parole vengano espirate con un pochino di rassegnazione e miseria per quello che è il mondo adesso. Comunque tengo a dire che tutto quello che sta succedendo nel mondo possa aver indirettamente influenzato quello che c’è nel disco, ma io mi vergognerei come essere umano se il legame fosse così forte da decretare uno specchio tra la musica e il mondo. Questo album forse è ispirato da quello che succede nel mondo, ma non racconta il mondo.
Sì, quello che immaginavo è che dopo un periodo così difficile è normale avere tante cose da dire e incanalarle nella musica.
Sì, anche se abbiamo cercato di celebrare la vita più che di lamentarci di quanto accaduto. Tra l’altro abbiamo una coscienza politica abbastanza condivisa nella band, ma abbiamo deciso di non parlare mai di politica nelle canzoni, quindi ogni riferimento a fatti o persone esistenti è puramente casuale [ride, ndr]. In generale, diciamo che non sconfitti da pandemia, il rischio della terza guerra mondiale e tutto il resto abbiamo avuto uno slancio verso il ritorno alla vita piuttosto che documentazione della morte. Infatti non abbiamo scritto musica durante il lockdown, non ci sembrava il momento giusto.
A proposito di questo, come avete lavorato? Avete scritto insieme dopo o ognuno di voi ha scritto qualcosa anche durante il lockdown e poi avete messo insieme le varie cose?
Noi di solito partiamo da spunti musicali personali. Io non smetto mai di scrivere, ho sempre annotazioni, audio, video che registro per me. Credo che sia molto importante per ogni creativo avere una sorta di diario di idee, anche se poi sono idee che saranno scartate e serviranno a generare cose che vale la pena di approfondire. Queste ultime cose le presentiamo al resto della band e poi vediamo come lavorarci. La scrittura di questo disco ha funzionato bene perché l’abbiamo scritto tanto insieme quanto a distanza. Non perché fossimo costretti a stare distanza, era semplicemente comodo e ci teneva concentrati. L’unico disco che abbiamo scritto in modo diverso è “A Means To No End”, per cui abbiamo deciso non portare idee pregresse, ma di generarle tutti insieme nella stessa stanza. Infatti quel disco ha un taglio completamente diverso, mi è piaciuto molto farlo, ma mi è anche piaciuto non doverlo rifare [ride, ndr]. Quello che ascoltiamo adesso è il risultato di tante idee personali che vengono rivisitate insieme e di tante sedute psicanalitiche in cui ci distruggiamo a vicenda e rimettiamo insieme i pezzi. Scrivere un album o un pezzo dei Destrage è davvero difficile perché li montiamo e li smontiamo un sacco di volte. Non c’è mai nulla di casuale. C’è tanto di intuitivo, però l’idea che nasce dall’intuito se non è solida viene messa alla gogna e cancellata. E anche per legarci all’idea successiva non ci facciamo sconti, ci sono canzoni che hanno anche una ventina di versioni. Per questo album la più difficile da chiudere credo sia stata “Unisex Unibrow”.
Effettivamente anche una persona che ascolta quel tipo di musica se ascolta certe vostre canzoni all’inizio può rimanere un po’ spaesato. Ad esempio l’opener “A Commercial Break That Lasts Forever” ha un inizio in medias res devastante. C’è bisogno di entrare nel mood, poi diventa tutto molto più facile. Posso immaginare quanto sia stato difficile scrivere le canzoni e metterle insieme per avere questo risultato.
Quindi hai pensato, se è difficile ascoltarlo chissà quanto è difficile scriverlo [ride, ndr].
Sì, più o meno. In realtà una delle cose che apprezzo molto è che forse l’approccio è un po’ “ostico”, ma poi l’album scorre via benissimo e le canzoni, per quanto complicate, rimangono bene in testa.
Mi fa molto piacere sentirlo perché è quello che cerchiamo di fare. Lo sforzo maggiore è soppesare la profondità di un pezzo con la sua fluidità, non ostacolare l’ascoltatore, cercare di sorprenderlo in maniera piacevole. Ascoltiamo tanta musica progressive e non ci piace per niente quando c’è una sezione seguita da un’altra in modo che sembrino assemblate. Le transizioni sono fondamentali, se c’è un gradino netto deve essere ben studiato, se invece c’è un gradiente più dolce che porta l’ascoltatore da una sezione all’altra deve essere altrettanto studiato, ma in modo diverso. Bisogna capire quale strada si vuole prendere e capire se quell’espediente non te lo sei giocato troppe volte nel corso dell’album. In generale essere bastardi verso se stessi come autori è la cosa che paga di più, non ci si può accontentare.
Per “Private Party” avete collaborato con Devin Townsend. Immagino che vi siate messi in contatto con lui tramite Federico [Paulovich, batterista ndr]. Ma com’è stato lavorare con lui?
Sì, esatto, perché hanno fatto delle cose insieme durante il lockdown. Lavorare con lui è stato rapido e indolore, perché è talmente è un genio che quando manda qualcosa è già tutto perfetto [ride, ndr]. Ci aveva detto che era contento di fare questa cosa, ma che voleva scriversi lui le sue parti e noi ovviamente eravamo d’accordo, perché legarlo? Comunque all’inizio abbiamo cercato di non fare troppo affidamento sul suo contributo, la canzone era già pronta e stava già in piedi. Sapevamo che il suo apporto sarebbe stata la ciliegina sulla torta, ma eravamo anche pronti a beccarci un rifiuto.
Invece parlando dell’ultima traccia “Everything Sucks Less”, ho notato una sorta di parallelismo con “The Chosen One”, nel senso che anche lì l’ultimo pezzo era legato al primo singolo. Si tratta di una cosa voluta?
Guarda, mi ero dimenticato di averlo fatto anche lì, evidentemente è un clichè su cui ricadiamo.
Anche se comunque non è proprio la stessa cosa, nel senso che in “The Chosen One” i due pezzi riprendevano proprio le stesse note.
Sì, “The Chosen One” e “The Gifted One” partono dallo stesso pezzo e hanno delle differenze, mentre in questo caso viene condivisa solo la sezione melodica, il ritornello. Ma la cosa divertente di questi due pezzi è che una è il bootleg dell’altro, “Everything Sucks Less” è nata prima.
Avrei detto il contrario…
Sì, hai ragione, verrebbe da pensare il contrario. Ma il fatto è che a volte per abbozzare delle idee usiamo una chitarra acustica e così è nata “Everything Sucks Less”. Poi da questa canzone abbiamo tirato fuori “Everything Sucks And I Think I’m A Big Part Of It”. Ci è già successo che qualche canzone partisse da una versione cantautoriale e poi venisse trasformata in un pezzo dei Destrage, rimanendo una bozza. In questo caso la bozza era talmente bella – facendomi i complimenti da solo come il radical chic che sono [ride, ndr] – che abbiamo deciso di darle spazio proprio.
Oltre che essere un bel brano credo anche che sia un bell’esperimento da parte vostra, non avete mai fatto canzoni acustiche e con quelle influenze. O comunque non le avete mai pubblicate e da ascoltatore non ne avevo mai sentita una…
E mai dovrai sentirle, le cose non pubblicate sono gelosamente costudite e non dovranno mai vedere la luce [ride, ndr].
Vorrei parlare un po’ anche dell’estetica dell’artwork e dei video, che hai diretto te. Da che idee sei partito?
I video sono stati fatti nell’ordine in cui sono stati pubblicati. Per “Everything Sucks And I Think I’m A Big Part Of It” volevo la band, volevo che ci si focalizzasse sul gruppo che suona. Mi sono inventato degli espedienti cinematografici per non renderlo banale e sono contento di non essermi complicato la vita con delle velleità narrative. Si tratta di una band che suona, mi sono tolto i miei sfizi estetici e penso che quel playback spacchi il culo, quindi sono molto contento del risultato. Il montaggio è stato difficile, penso di non aver mai fatto così tanti tagli [ride, ndr]. Invece “Italian Boi” ha un approccio molto più concettuale, ha visto la partecipazione creativa di tutto il mio studio (The Jack Studio). Sembra tutta una roba a caso, ma la storia di fondo c’è: un/a ragazzo/a straniero/a si innamora di un “italian boi”, ovvero un italianotto. Il testo inizialmente lo dipinge come un ragazzo affascinante e piacevole, ma piano piano ci si accorge che tutti gli stereotipi sugli italiani non sono totalmente falsi. Quindi nel video l’italian boi nel video è il modello 3D, quello nudo che balla come un tamarro. Poi ok, è descritto come un personaggio spregevole, ma ovviamente gli vogliamo bene, io tra parenti e amici ho un sacco di italian boi. Poveri, non ce la fanno, ma non è che sono cattivi [ride, ndr]. Nel video si vedono i pezzi di questo italian boi che sono in giro per l’Italia e alla fine si capisce che è stato/a lui/lei a farlo scoppiare, visto che lui pensa più a sua madre, è un maschilista e un maschio italico un po’ fascista [ride, ndr]. Soprattutto adesso che sta gente è legittimata a odiare le persone diverse. Poi c’è un piccolo epilogo in cui i pezzi vengono rimessi insieme, quindi l’amore trionfa. Quindi ci sono 3 “personaggi”, la persona che si innamora dell’italian boi, lui che è il modello 3D e poi c’è una serie di immagini isteriche che sono il contesto sociale dell’italian boi, quello in cui è cresciuto. Infatti c’è Corona che spiega la matematica, Berlusconi che corre nudo e cose simili. Le immagini sono state create con DALL-E, un’intelligenza artificiale che genera immagini a partire da un testo. Abbiamo proprio inserito queste parole nella barra di ricerca e abbiamo scaricato migliaia di immagini. Poi io come un frate le ho messe in fila uno dopo l’altra, un po’ come si fa nello stop-motion per creare l’illusione del movimento. Che ne sappia io è il primo video che contiene animazioni fatte a partire alle immagini di DALL-E, quindi ne vado molto fiero, anche se non gliene frega un cazzo a nessuno [ride, ndr]. Ma questo succede spesso, i Destrage hanno tanti primati che non verranno mai riconosciuti, ci facciamo i bocchini a vicenda e l’importante è che siamo contenti noi.
Vabbè ma anche senza che la gente sappia di questi primati, il video, così come la musica, è stato apprezzato, quindi alla fine l’importante è quello.
Sì, anche se devo dire che ad un certo punto ho avuto paura che avessimo cagato fuori dalla tazza e che fosse troppo, troppo diverso da quello che uno si aspetta, troppo colorato… Però invece è stato capito.
Ma già le storie Instagram prima dell’annuncio del singolo con un italian boi ripreso in varie situazioni erano abbastanza strane senza contesto…
Sì, lui tra l’altro è un mio amico che lavora nello studio ed è l’opposto dell’italian boi, è uno che va in giro con le Birkenstock, camicia larga, barba sfatta. Solo che una volta è andato a tagliarsi i capelli e glieli hanno fatti con la sfumatura matematica, la barba come se fosse scolpita nell’acciaio e gli hanno pure rifatto le sopracciglia tipo i finanzieri [ride, ndr]. Quindi è diventato perfetto per quel ruolo e si è prestato a fare tutte le storie, le abbiamo fatte tutte in un pomeriggio.
Invece tornando a parlare del tour, sono tre anni che non suonate, siete pronti a tornare sul palco? Immagino che la risposta sia “sì”, ma come stanno andando le prove?
No, la risposta è no [ride, ndr]. Vediamo con le prove generali… Quando ci siamo rimessi a suonare insieme in sala, essendo una cosa completamente diversa dal registrare in studio, sembravano un reparto di geriatria [ride, ndr]. Io ero veramente incazzato, però dai le cose sono migliorate andando avanti. Tra l’altro uno di noi era senza passaporto fino a due giorni fa, renditi conto!
E invece come vedi questo disco live?
Questo disco live è difficilissimo, ci siamo complicati la vita oltre ogni aspettativa. Diciamo che abbiamo sempre scritto cose che sono al di fuori della nostra comfort zone, raggiungendole poi piano piano con l’esercizio. A sto giro abbiamo fatto la stessa cosa, ma forse abbiamo anche spinto troppo, i pezzi sono molto difficili. C’è “A Commercial Break That Lasts Forever” che è particolarmente complicata e abbiamo deciso di metterla a inizio scaletta perchè pensiamo che sia un’ottima opener, però suonarla a freddo sarà mortale. Tra l’altro la canzone è nata da una mia idea, stavo skatando in via Scarampo – infatti il working title era “Non C’è Scarampo” – e mi sono fatto una nota audio per non farmi sfuggire l’idea, poi sono tornato a casa, l’ho suonata sulla chitarra e l’ho mandata su WhatsApp a Paolo [Colavolpe, cantante, ndr]. Lui è stato subito entusiasta, quindi ci troviamo, ci lavoriamo ma lui non era convinto, gli sembrava diverso da quello che gli avevo mandato. Alla fine abbiamo scoperto che aveva ascoltato il messaggio vocale a velocità 1.5x [ride, ndr]. Ma era troppo entusiasta e si è imposto per farla a quella velocità, forse non abbiamo raggiunto proprio quella ma ci siamo andati molto vicini. Quindi insomma, è veramente spinta e iniziare un live con una canzone del genere non è il massimo, ma lo faremo perchè siamo dei martiri. Sembra che ci divertiamo, ma soffriamo [ride, ndr].
Adesso che Gabriel non è più nella band, per quanto riguarda il basso durante il tour invece come vi siete organizzati?
Per le date in Italia avremo un turnista, ma non riusciamo a portarlo in Europa per questioni logistiche e quindi il nostro bassista sarà il computer, abbiamo riregistrato le parti apposta. La cosa divertente è che Gabriel è comunque in tour con noi, non suona, ma è comunque in famiglia. È stato con noi anche durante le registrazioni dell’album, infatti ho insistito perchè suonasse almeno una nota e l’ha fatto. Il resto delle parti di basso le abbiamo suonate un po’ io e Ralph [Salati, chitarrista, ndr], un po’ Matteo Tabacco che si è occupato del tracking e su “Venice Has Sunk” c’è Federico Malaman, che è uno dei bassisti più spaventosi che abbia mai visto.
Direi che si sente dall’assolo di basso che ha fatto in quel pezzo… Come ultima cosa, facciamo un giochino: in un mondo parallelo in cui non esistono i Destrage, in quale band vorresti suonare?
A me piacerebbe essere uno di quei chitarristi gregari che si sbattono poco e si godono tutte le cose fighe. Ad esempio, purtroppo dopo quello che è successo non so quando torneranno, ma prendiamo i Foo Fighters, io vorrei essere Pat Smear, la sua storia è incredibile. Lui già suonava con i Nirvana nell’ultimo periodo, infatti nel Live Unplugged c’è lui. Poi quando Dave Grohl si è ripreso dalla morte di Kurt Cobain e ha deciso di riprendere a fare musica l’ha chiamato per entrare nei Foo Fighters, ma dopo poco se ne è andato perchè non voleva più fare quella vita. Poi Dave ha portato la band ad un successo incredibile, con tutto quello che ne consegue, l’ha richiamato e gli ha proposto di nuovo di entrare nei Foo Fighters, visto che era tutto diverso, più bello. Lui a quel punto ovviamente è tornato nella band. Io voglio essere lui, invece che sbattermi nei Destrage [ride, ndr].
Quindi l’opposto di quello che fai nella vita…
Esatto, deve essere bellissimo! Ma poi se Dave Grohl l’ha voluto così fortemente deve essere simpaticissimo, una persona totalmente felice e soddisfatta. Allora io voglio essere lui!
Mi sembra giusto! Ultimissima cosa, vuoi lasciare un messaggio ai fan?
Questa è sempre una grande responsabilità, devo dire una cosa che non sia una paternale ma che allo stesso tempo non sia troppo lasciva [ride, ndr]. Vabbè, al di là di quello che ho appena detto, ovvero che è una figata fare il pigrone e mangiare l’uva sdraiato sul triclinio con la gente che ti fa aria con le palme, penso che se trovate qualcosa per cui valga la pena di martirizzarvi vi direi di proseguire sulla quella strada finchè non vi reggono le gambe. Perchè è una cosa che ci distacca dalla vita normale e ci eleva, a prescindere dal fatto che avrà successo o meno. Mi sembra la cosa più giusta da dire, anche se potrei pure dire “comprate tutti i nostri dischi” [ride, ndr]. No comunque se ad esempio suonate – se fate qualsiasi altra cosa il discorso è comunque applicabile – e vi piace qualcosa che non esiste cercatela dentro e datele vita, createla. La musica dei Destrage è questo: non c’era, la volevamo sentire e quindi l’abbiamo creata. Poi è un miracolo che piaccia anche a qualcun’altro…
Oltre al fatto che questo discorso può valere per lavoro, hobby e qualsiasi altra cosa, siete anche la prova che avere questo atteggiamento paga.
Sicuramente paga a livello personale, ti fa sentire bene. Poi sì, vale per qualsiasi cosa, credo che la cosa migliore sia fare qualcosa che ti piaccia molto. Purtroppo è un approccio che paga molto solo se si ha successo, ma questo è molto improbabile per chiunque. Quindi se hai passato tutta la carriera a provare a compiacere gli altri e non è andata così hai solo buttato via tempo, se invece hai provato a tirare fuori qualcosa che hai dentro l’hai fatto per te stesso ed è stato piacevole.
Grazie mille per questa intervista, spero che ci vedremo presto a qualche show. Buona serata e buon tour!
Grazie a te e buona serata!