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The Last Dinner Party – Prelude to Ecstasy

Vi è spesso una certa attenzione, nonché una certa diffidenza, verso quegli artisti che riescono a raggiungere lauti riconoscimenti di critica senza aver ancora fatto uscire un album. I grandi apprezzamenti espressi dalla stampa britannica verso il primo disco delle The Last Dinner Party sono stati accolti con parecchio scetticismo: industry plants, ha borbottato l’Internet, per cui il quintetto londinese sarebbe soltanto un brand che punta tutto sulla forma (varrebbe a dire i peculiari outfit di scena e l’estetica delle musiciste) senza offrire al pubblico alcuna sostanza.

Ora, potrebbe anche sembrare strano che una band formatasi nel 2021 si sia già portata a casa un Brit Award nella categoria “Rising Star”, mesi prima dell’LP d’esordio e con solo una manciata di singoli all’attivo. Ma una cosa è certa: la sostanza c’è, eccome.

“Prelude to Ecstasy” ha un titolo altisonante che ben si addice all’essenza dell’album: tutto, in esso, trasuda teatralità. La title track, che apre il disco, esemplifica questa magniloquenza — un breve brano orchestrale, più simile alla colonna sonora di un film che al resto del progetto. Segue, non da meno per epicità, “Caesar on a TV Screen”, che è un piccolo musical à la Queen nel cui video le ragazze inscenano il Julius Caesar di Shakespeare. Abigail Morris, nei panni di Cesare, canta di assoggettazione femminile e manie di grandezza; un po’ Kate Bush e un po’ Florence Welsh, il magnetismo e le doti vocali della frontwoman trainano l’album dall’inizio alla fine.

I singoli, già ben noti al pubblico, sono sparsi qua e là per la tracklist, forse per non isolare in un blocco molti pezzi forti del disco. Tra gli altri brani, del resto, ve ne sono diversi “filler”, nonché più derivativi: “The Feminine Urge” e “Burn Alive” sembrano uscire direttamente dagli anni ‘80, “On Your Side” ricorda i Cocteau Twins, “Sinner” è una sorta di tributo agli ABBA in cui emerge la chitarra distorta di Emily Roberts (la musicista, giovanissima come le compagne di band, ha anche un EP jazz all’attivo). 

Tra il primo e il secondo atto dell’opera, le Last Dinner Party si concedono un po’ di dolcezza: “Gjuha” è un canto di nostalgia in albanese in cui il microfono è affidato alla tastierista Aurora Nishevci (anche direttrice d’orchestra in alcuni brani), “Beautiful Boy” inizia delicato e vulnerabile nella prima sezione e scoppia nella seconda, come un pianto trattenuto invano. A splendere dappertutto sono i testi, che raccontano legami complicati e le afflizioni di donne ambiziose in un mondo di uomini (“Oh, ballerina bend under the weight of it all/Ain’t it fun to hold the world in your hand?/Do you feel like a man when I can’t talk back?/Do you want me or do you want control?”).

In fondo alla tracklist si collocano i “piatti forti” del disco. “My Lady of Mercy” unisce in maniera originale più sonorità ispirate agli anni ‘70 – gli Sparks nella strofa e i Led Zeppelin nel ritornello –, mentre vocals e cori esprimono una sensualità estatica e squisitamente queer (“Parla di una ragazza che vede per la prima volta un dipinto di Giovanna D’Arco” spiega il gruppo sui social, “e pensa che sia così coraggiosa e bella che forse vorrebbe baciarla”). A “Portrait of a Dead Girl” – altro brano queenesco, ma intimista nei suoi arpeggi di piano – segue “Nothing Matters”, primo singolo in assoluto della band, dove sono prominenti le influenze dei Florence + The Machine (nonché la quantità di “I will fuck you” nel testo: mai turpiloquio fu più elegante). La conclusiva “Mirror”, orchestrale e onirica, sembra voler evocare i Pink Floyd: scandita da colpi di timpano e dagli archi che paiono ululare uno struggimento inesprimibile a parole, essa è il grido d’aiuto di una persona che brilla di luce riflessa, senza riuscire a trovare se stessa.

A maggior ragione dopo aver ascoltato l’album, lascia ancora più basiti l’accusa rivolta al gruppo di essere un prodotto creato a tavolino dalle major discografiche. Il clamore è stato tanto che le dirette interessate sono intervenute spiegando di essersi conosciute a diciotto anni prima di iniziare l’università: “Non siamo state messe insieme come un gruppo k-pop”

Curioso notare, peraltro, come le stesse accuse siano state rivolte un paio d’anni fa alle Wet Leg — altra band al femminile con un immediato successo di critica. Viene quasi da chiedersi se, più che il successo di critica, per certuni il problema non sia il femminile, sebbene sia un argomento complesso (le ragazze, comunque, sono le prime a scherzarci su: “Hanno scritto tutto i nostri fidanzati, noi siamo qui solo per far bella presenza” è stato un altro commento sarcastico su Twitter).

“Prelude to Ecstasy” ha, infatti, tutti i pregi e i difetti di una band precoce e talentuosa alle prese con un album d’esordio: contenuti intensi e moltissime idee, che talvolta eccedono i confini del disco e non sanno bene dove andare, ma lo fanno con una devozione che provoca brividi dalla prima all’ultima nota. A impreziosirne il valore, tuttavia, vi è un’ambizione ulteriore, il desiderio di contraddistinguersi trasmettendo sensazioni grandiose e drammatiche: è un disco che vuole essere tragedia e ascesi, apollineo e dionisiaco, l’ambrosia al simposio degli dei (“Dinner Party”, d’altronde, aveva inizialmente questa connotazione — al nome della band è stato aggiunto un “Last” per non confonderle con l’omonimo gruppo hip-hop). E, per molti versi, ci è persino riuscito. 

Impossibile prevedere che direzione prenderanno le Last Dinner Party per il prossimo album, ancor meno per la loro carriera in generale. Ma alla luce di questo primo, impressionante disco, è bene sottolinearlo: sono assolutamente da tenere d’occhio.

Tracklist

01. Prelude to Ecstasy
02. Burn Alive
03. Caesar on a TV Screen
04. The Feminine Urge
05. On Your Side
06. Beautiful Boy
07. Gjuha
08. Sinner
09. My Lady of Mercy
10. Portrait of a Dead Girl
11. Nothing Matters
12. Mirror

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