I accept your adoration and I revel in your fear
But it’s your imagination that has brought you here
So here’s the revelation and let me make it clear
That I am your creation and now I disappear
Probabilmente si è portati a pensare che la strada sia una parte fondamentale del lavoro di qualunque musicista, no? Tuttavia, già negli anni ’60 c’era chi rifiutava la vita in tour, come Brian Wilson e perfino The Beatles: artisti che erano all’apice della loro carriera decisero di salire per l’ultima volta sul tour bus e dire addio al palcoscenico. Bisogna precisare che l’incontro coi fan rappresenta sì la parte più “viva” del lavoro, ma anche quella che può diventare la più dura, la più faticosa e la più logorante.
Alice Cooper di tutto ciò se ne infischia. Classe 1948, oltre 50 anni di carriera, passa la maggior parte dell’anno in giro per il mondo a proporre il suo spettacolo fatto di ghigliottine, sedie elettriche, mostri e tanti altri effetti speciali, senza aver ancora mostrato un singolo acciacco. E in mezzo a tutto questo, riesce ancora a scrivere musica nuova, che, per quanto non si discosti mai troppo dal suo stile, risulta sempre credibile.
E così il padrino dello shock rock pubblica il suo 22° disco da solista, “Road”, che però non è un disco come i precedenti. Sì, Cooper è famoso per aver scritto quasi esclusivamente dei concept album– tra le avventure del piccolo Steven e quelle più personali in riabilitazione – e anche stavolta non si è risparmiato: la strada è il filo conduttore del disco. Quale tema poteva calzare meglio per un artista la cui fama è basata soprattutto sui propri live? E come ciliegina, stavolta non si è rivolto solamente a grandi nomi – che non mancano neanche stavolta – per realizzare quest’opera: ha ricorso proprio a quei musicisti che lo accompagnano in tour. Ryan Roxie, Chuck Garric, Tommy Henriksen, Glen Sobel e Nita Strauss: sono questi i nomi che calcano il palco insieme a Cooper da quasi un decennio e che ora, per la prima volta, si trovano dietro alla registrazione di quasi ogni traccia, perfino alla scrittura di alcune.
Come detto poco fa, la musica nei suoi dischi non è sorprendente, anzi segue abbastanza i canoni dell’hard rock nella sua versione più anni ’70 e glam. Ci sono stati episodi di sperimentazione riusciti bene (i dischi glam metal a cavallo tra anni ’80 e ’90) e altri invece no (il capitolo di “Special Forces” e seguenti all’insegna di new wave e cocaina), perciò forse il rocker di Detroit preferisce non rischiare più.
“I’m Alice” apre perfettamente l’album, presentando a tutti ciò che effettivamente è l’alter ego di Vincent Furnier: Alice Cooper è frutto del desiderio di intrattenimento, di passioni ma anche di paure, come recita il bridge (in cima all’articolo). Non siamo di fronte all’unico caso di autoreferenzialità, poiché non è sicuramente una coincidenza il “Like it/Love it” di “I’m Eighteen” all’interno di “All Over the World”.
“Road” è un racconto della vita in tour, in tutte le sue sfaccettature: “Welcome to the Show” parla di Alice e soci che si preparano per l’ennesimo spettacolo; “Go Away” è l’ossessione di una fan, che segue l’artista ovunque, come una stalker; “White Line Frankenstein” è un camionista che vaga incessantemente, guadagnandosi questo epiteto (molto caro a Cooper); “Big Boots” è il gioco di parole con cui viene descritta un’avventura passionale sul tour bus; “Rules of the Road” sono letteralmente le regole della strada, dove viene fatta ironia della vita di eccessi e del possibile finale tragico à la Club 27; c’è spazio perfino per gli spesso dimenticati roadie, “Road Rats Forever” li consacra come colonna portante di uno show.
In questi racconti troviamo come sempre importantissimi musicisti: primo fra tutti Bob Ezrin, collaboratore inseparabile da Cooper, che non solo produce il disco e partecipa alla scrittura di quasi ogni brano, ma suona un synth sulla chiusura “100 More Miles” che genera quel sound tanto caro ai fan, un sound che riporta subito a “Welcome to My Nightmare” e ai successi più datati del rocker. Poi troviamo Kane Roberts in “Dead Don’t Dance” e forse è proprio per lui che il brano ha sound così metal, a tratti industrial (da cui Cooper è già passato negli anni 2000). Roberts era il chitarrista solista del rocker di Detroit negli anni ’80 e lo è stato brevemente l’anno scorso in sostituzione di Strauss: che il brano sia stato scritto proprio in quel periodo?
Abbiamo ancora Roger Glover dei Deep Purple nella ballad “Baby Please Don’t Go”, romantica e perfetta come colonna sonora di un viaggio verso l’alba; e infine l’immenso Tom Morello, che dona il suo inconfondibile tocco al singolo “White Line Frankenstein”. Ma oltre a loro, c’è la formidabile band che scrive e suona la metallara “The Big Goodbye”, il classico hard rock di “Welcome to the Show” (notevoli gli assoli), il glam rock di “All Over the World” e il simil-garage rock di “Big Boots”.
Il disco si chiude con “100 More Miles” ma ci lascia con quella che possiamo considerare una bonus track. Sappiamo quanto Cooper sia amante delle cover e anche stavolta ce ne ha regalata una con “Magic Bus” de’ The Who, resa molto più hard rock rispetto allo stile psichedelico originale, con un Sobel che improvvisa un assolo in onore del grande Keith Moon.
“Road” è un disco che non cambia le sorti dell’hard rock e nemmeno la carriera di Alice Cooper. Tuttavia non lascia alcuna macchia, è un disco godibilissimo; apprezziamo come Furnier sia in grado ancora oggi di non scadere nell’ovvio – come tanti suoi coetanei – e di trovare sempre l’ispirazione per andare avanti: altrimenti, cosa farebbe? “If I wasn’t in a band, I’d probably be a criminal“
Tracklist
01. I’m Alice
02. Welcome to the Show
03. All over the World
04. Dead Don’t Dance
05. Go Away
06. White Line Frankenstein
07. Big Boots
08. Rules of the Road
09. The Big Goodbye
10. Road Rats Forever
11. Baby Please Don’t Go
12. 100 More Miles
13. Magic Bus