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Dødheimsgard – Black Medium Current

Due album cardine della vecchia scuola norvegese, un EP fondamentale, tre full-length a otto anni di distanza l’uno dall’altro, un’eccellenza in ambito avantgarde con pochi eguali: i Dødheimsgard non sono semplicemente una band, bensì un dado dalle innumerevoli facce capace di sorprendere a ogni lungo giro di boa discografico. Con una deferenza verso i tempi di pubblicazione così precisa da rasentare l’esoterico, gli scandinavi tornano a deliziare i palati fini dell’estremismo sperimentale attraverso i sessantanove minuti di “Black Medium Current”, un viaggio filosofico nel mare magnum delle antinomie che tormentano la mente umana  e le loro varie ripercussioni sull’interiorità dell’individuo. Un concept sui generis, trasversale e profondo, influenzato dal determinismo anglosassone e dalla metafisica indiana, che, malgrado i molti rivoli narrativi, si dipana in maniera meno tortuosa rispetto alle spigolosità dello splendido “A Umbra Omega” (2015).

Fluidità relativa anche al sound della nuova fatica in studio, purché si tenga presente la fisionomia singolare di una formazione che, con l’uscita nel 1999 dell’epocale “666 International”, assestò una mazzata terribile ai puristi del metallo nero con le sue claustrofobiche deviazioni elettroniche. Un’onta peggiore del tradimento dei Satyricon di “Rebel Extravaganza”, platter pubblicato qualche mese dopo e sempre sotto l’egida della Moonfog Productions di Satyr. Oggi che quelle tensioni costituiscono un ricordo confuso e l’ottica con la quale si osservano i fenomeni di rottura e fusione in campo artistico è decisamente cambiata, considerare il sesto opus del quartetto nordico un parziale ritorno alla tradizione della second wave e, allo stesso tempo, un ulteriore passo in avanti rispetto all’ultimo lavoro, non rappresenta un’eresia, né una banale contraddizione.

Se la nozione di libero arbitrio – e le problematiche a esso connesse – appare una delle idee cardine del lotto, la visio luterana che presiede alle scelte di Vicotnik gli ha consigliato, as usual, di fare tabula rasa della precedente line-up, chiamando a corte strumentisti versatili e ligi agli ordini del maestro (il chitarrista Tommy Guns, il bassista E. Måløy, il drummer Ø. Myrvoll). E, soprattutto, di eliminare dalla contesa – di comune accordo, s’intende – un cantante della valenza iconica di Aldrahn, partecipe persino di un “Supervillain Outcast” (2007) nel quale, pur venendogli preferito Kvohst, compariva come ugola aggiunta in un paio di piste. Preso, dunque, lo spinoso scettro del microfono, il mastermind, di certo non un parvenu in tale veste, lo impiega in maniera superba, infondendo teatralità ed enfasi ieratica a dei pezzi di grande flavor evocativo, non importa che si tratti di linee vocali pulite o di uno screaming dalle gradazioni multiple, sospeso fra bisbigli, sussurri, ululati e declamazioni. Un’espressività da muezzin assiso sul minareto di Farout, che riesce a lenire la dolorosa assenza del frontman originario.

Le canzoni si sviluppano a partire da uno dei brani più spirituali dello scorso lavoro, “Architect Of Darkness”, traccia che, a parte le bizzarre sfumature al proprio interno, palesava l’interesse di Parvez per costruzioni atmosferiche dal chiaro taglio post, un gusto già intuibile dai solchi caotico/subliminali del mini “Satanic Art” (1998). Una struttura che, ampliatasi ora a dismisura, ruota attorno a un perno black metal primigenio, sulle cui propaggini si ramificano le diverse arborescenze del songwriting, a dimostrazione della volontà di Yousaf di unire l’anima antica dei Dold Vorde Ens Navn ai principi free jazz dei Ved Buens Ende, trovando nel calore di melodie spesso pregne di suggestioni orientali un prodigioso (dis)equilibrio d’insieme. Abigor, Darkspace e Limbonic Art restano degli echi lontani, risucchiati in un wormhole dai colori lisergici che tende ad avviluppare invece di distruggere.

La psichedelia dei Pink Floyd (“Et Smelter”), le volute sinusoidali dei Blut Aus Nord di “Hallucinogen” (“Tankespinnerens Smerte”) , la danza freudiana dei Depeche Mode (“Interstellar Nexus”), la fusion e i Faith No More (“It Does Not Follow”), l’epica prog degli Enslaved (“Halow”) le vibrazioni della kosmische musik  (“Det Tomme Kalde Morke”), circondano riff presi di peso da “Monumental Possession” (1996), li lambiscono e poi se ne allontanano, assorbendo linfa dai campionamenti e da blande soluzioni industrial. “Voyager” e “Requiem Aeternum”, trasmettono, invece, messaggi funebri attraverso la placenta spaziale creata da pianoforte, theremin e violino, mentre l’ambient della cinematica “Abyss Perihelion Transit” si adorna via via di armonie superne in parte di foggia levantina, in parte non così distanti dai voli celestiali degli Alcest e dalla darkwave onirica dei Lycia, rappresentando la traccia simbolo, dal punto di vista emotivo, dell’intero LP. Tanto che, sul finale, pare di scorgere il fluttuante feto cosmico di “2001: Odissea Nello Spazio”, chiusura circolare che lancia bagliori di speranza verso Giove e oltre l’Infinito.

“Black Medium Current” piega l’intellettualismo e la brusca freddezza del predecessore ai dettami di un’identità assetata di risposte, prigioniera di un mondo confuso e polarizzato, dove ogni sicurezza rischia di disfarsi senza preavviso alcuno. Un’opera aperta, zampillante di audacia lirica e creatività musicale: lunga vita ai Dødheimsgard.

Tracklist

01. Et Smelter
02. Tankespinnerens Smerte
03. Interstellar Nexus
04. It Does Not Follow
05. Voyager
06. Halow
07. Det Tomme Kalde Morke
08. Abyss Perihelion Transit
09. Requiem Aeternum

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