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NUOVE USCITERECENSIONI

Erra – Cure

In apparenza incardinato sui rapporti tra detective e presunto colpevole, un po’ sulla scia degli stilemi noir e thriller di matrice occidentale, “Cure” (1997) rappresenta il precursore del filone J-Horror, fenomeno cinematografico di area nipponica che basa la propria forza sull’evocazione di una tensione psicologica spesso insostenibile, facendo a meno, per inquietare lo spettatore, di jumpscare ed ettolitri di sangue. Al di là della violenza di superficie, il regista Kiyoshi Kurosawa, nella pellicola in questione, per mezzo di alienanti piani sequenza e onnicomprensivi campi lunghi, trasporta la vicenda sul piano metafisico, riuscendo a far emergere la relatività della pazzia e dei concetti di bene e male all’interno di un contesto in cui il soprannaturale sosta ancora nelle retrovie, pronto, però, a esplodere l’anno successivo con “Ringu”.

Un cult movie, dunque, dalle atmosfere dilatate e ambientato in un piovoso e decadente quadro urbano, che condivide titolo, umori e riflessioni filosofiche con il nuovo album degli Erra, formazione profondamente entusiasta della cultura del Sol Levante, visto che già i testi dello scorso lavoro omonimo si imperniavano su Aokigahara, la foresta dei suicidi in Giappone. “Cure”, benché le liriche non seguano un filo conduttore comune a mo’ di concept, accompagna l’ascoltatore in un viaggio attraverso la solitudine metropolitana  e l’insoddisfazione esistenziale, sì discretamente oscuro, ma che, a differenza delle algide emozioni post pandemiche di “Erra” (2021), sembra comunque trasmettere delle note positive, una speranza di guarigione che si riflette nel taglio plastico dei brani.

Il combo dell’Alabama, soggetto a numerosi cambi di line-up, si è costruito una buona reputazione nel corso del tempo in virtù di un progressive metalcore di fine grana tecnica e da venature cyber/futuristiche di blanda marca Meshuggah, magari non originalissimo, che ha saputo, però, per verve e intelligenza, scavarsi una nicchia importante nei territori battuti da gente del calibro di August Burns Red, Misey Signals e Northlane. Se l’ultimo LP si imponeva come una summa matura ed equilibrata della carriera degli statunitensi, questo sesto full-length non può che muoversi su quelle medesime traiettorie, distillandone l’essenza attraverso un approccio decisamente più rotondo e conciso, accessibile nel senso nobile del termine. In tal senso, risulta indovinata la scelta di affidare la cabina di regia a Daniel Brauenstein, producer di Invent Animate, Silent Planet e Spiritbox, capace di conferire all’insieme un suono pieno e vivido, modern metal per i cultori delle definizioni.

Una struttura fluida e abbastanza lineare, breakdown prosperosi, crepacci melodici che susciterebbero invidia nel cuore dei Linkin Park, riff in palm mute e fraseggi djent intrisi di heavy e Gojira, arrangiamenti certosini, costituiscono gli aspetti principali di un lavoro che, a ogni modo, non rinuncia a comunicare sprazzi di cupezza sintetica a livello di substrato delle canzoni, in un paio di casi addirittura egemonizzandole. In particolare, l’elettronica oscura à la Nine Inch Nails prima maniera di “Slow Sour Bleed” e la desolazione industrial di “Crawl Backwards Out Of Heaven” infoltiscono la vegetazione robotica del self titled, mentre impera una malinconia dolorosa tra le fenditure eufoniche delle tooliana “Blue River” e gli armonici artificiali di “Glimpse”, con “Past Life Persona” a sostenere il ruolo di pezzo diafano della tracklist, nel quale persino l’abituale rotazione vocale clean (il chitarrista Jesse Cash) / harsh (il frontman J.T. Cavey) si risolve in un continuum pulito da brividi dream pop.

I movimenti ondulatori delle varie “Cure”, “End To Excess”, “Pale Iris”, confermano la grande abilità dei cinque nel generare groove e ritornelli orecchiabili nonostante la complessità della scrittura, testimoniata dall’altalena delle segnature ritmiche, che passano, senza alcuna percezione di rottura, dai 4/4 ai 6/8 e viceversa, laddove “Rumor Of Light” e “Idle Wild”  rimandano, un pizzico stucchevoli, ai vecchi LP “Neon”(2016) e “Drift” (2018), quando l’influenza dei Periphery e dei Veil Of Maya orientava la direzione compositiva della band. “Blue Reverie”, invece, denota parentele con il mondo alternative dei Ghost Atlas, progetto parallelo di Cash, con “Wave” che si cinge della corona prog tout court, una pista così epica e cinematografica nella sue lievi sfumature nichiliste da fungere da perfetta e significativa chiusura dei giochi. E magari candidarsi a score del film citato supra, volutamente sprovvisto di qualsivoglia commento musicale.

Con “Cure”, grazie a un songwriting oculato e aperto ad accogliere senza parsimonia elementi eterei e morbidezze catchy, gli Erra scansano il pericolo di replicare sé stessi, dimostrandosi dei dotti e sofisticati chiosatori dell’intero spettro metalcore. Cooperando per sanarlo, probabilmente.

Tracklist

01. Cure
02. Rumor Of Light
03. Idle Wild
04. Blue Reverie
05. Slow Sour Bleed
06. Wish
07. Glimpse
08. Past Life Persona
09. Crawl Backwards Out Of Heaven
10. End To Excess
11. Pale Iris
12. Wave

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