Terzo lavoro discografico per la rock band che ha fatto tanto discutere di sé, quanto conquistato: i Greta Van Fleet si confermano, con “Starcatcher”, dei veri e propri discepoli del rock che, non solo con la loro musica, ma anche con le loro idee e la loro vision, fanno rinascere vecchie usanze, come i listening party ormai dimenticati, per onorare i fan che hanno acquistato una copia fisica dell’album.
Veniamo dunque a parlare della musica che tanto richiama, almeno in apparenza, i Gods of Rock per eccellenza, i nostri amati Led Zeppelin. La scelta degli strumenti è senz’altro la prima cosa che giunge familiare all’orecchio, come l’utilizzo delle chitarre acustiche in un ambiente così rock, ma anche la batteria protagonista e le melodie portate con fierezza, ma spezzate da lunghe pause per far emergere anche la parte strumentale.
Il disco si apre con “Fate of the Faithful”, che nella sua introduzione presenta un Rhodes distorto, il piano elettrico degli anni ’70 per eccellenza. Un brano nostalgico, un manifesto di ciò che seguirà: ritmi spezzati e eseguiti a dovere, talvolta in unisono con la voce di Joshua Kizska, che colpisce per essere allo stesso tempo perfetta ed estremamente carica di emotività. Una cosa non da poco, se consideriamo che l’intero album è stato registrato in presa diretta negli RCA Studios di Nashville. Insomma, una vera e propria missione, quella dei Greta Van Fleet: fare le cose alla vecchia maniera.
Tuttavia questi 45 minuti di puro rock, fatti di cambi dinamici repentini, silenzi e caos molto ben organizzato, non sono un semplice tributo ai vecchi fasti del rock inglese: anche se subdoli, possiamo scorgere i segni della contemporaneità nelle piccole cose come ad esempio, appunto, la durata dei brani. Se cinquant’anni fa la lunghezza della registrazione era dettata dalla capacità del supporto utilizzato per l’incisione, ciò che oggi detta tali regole è una soglia d’attenzione decisamente abbassata dallo streaming digitale, che i fratelli Kizska e soci non hanno paura di affrontare. Se a metà album troviamo un brano apparentemente lungo come “Sacred The Tread”, dal ritmo cadenzato e dall’impronta sfacciatamente blues di stampo nostalgico, a seguire un blues altrettanto sfacciato, anche nel nome (“Runaway Blues”) dura solo un minuto e mezzo. I Greta Van Fleet non si lasciano andare a lunghi solismi nelle versioni studio dei loro brani, se non per pochissime battute: toccherà ascoltarli dal vivo per apprezzarne le doti a pieno.
Questa ed altre scelte dimostrano che la next generation di rocker è meno istintiva dei suoi predecessori, forse meno esplosiva e più pulita, nella musica come nello stile di vita. Il rock dei Greta Van Fleet è meditato, racconta di emozioni in linea con i tempi che stiamo vivendo: c’è la classica rabbia e ribellione che ha conquistato per gli ultimi 50 anni, ma anche una forte componente introspettiva, come si evince dai testi, oltre che dalle sonorità: “Into the ether/Ready for the garden/into it deeper/Even heavens hearken/Reaching, reaching, reaching” dice il ritornello di “The Indigo Streak”.
Come ogni disco rock non può mancare un brano in sei ottavi, un blues in shuffle se preferite, dal sapore celtico: è il caso di “The Archer”, nel quale è abbastanza evidente come la mossa vincente dei fratelli Kizska sia stata quella di guardare chi ha ispirato le leggende dei loro punti di riferimento.
Maestosa ed intima, ma anche esplosiva e catartica è “Meeting The Master”, singolo dell’album, che ci accompagna verso la chiusura dell’album con “Farewell for Now”, un titolo che racchiude in tre parole l’operazione di congiunzione fra passato e presente: l’utilizzo di un linguaggio arcaico accostato al più incerto e confidenziale “for now”. Addio per adesso, ma non è mai davvero un addio: rock never dies.
Tracklist
01. Fate Of The Faithful
02. Waited All Your Life
03. The Falling Sky
04. Sacred The Thread
05. Runway Blues
06. The Indigo Streak
07. Frozen Light
08. The Archer
09. Meeting The Master
10. Farewell For Now